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Il direttore di key4biz, Raffaele Barberio, e Flavia Barca, con il dibattito aperto #LaRaiCheVorrei stanno colmando un’esigenza molto sentita in vista del rinnovo della convenzione Rai. L’iniziativa ha evidentemente incoraggiato il governo ad indicare la data, a metà aprile, per il tanto atteso avvio della consultazione pubblica da tempo annunciata: a riprova che il networking, strutturato dal punto di vista della comunicazione, riesce ad interagire con l’azione dei pubblici rappresentanti. Insieme a Barberio, ne siamo diretti testimoni attraverso l’esperienza dell’Appello Donne e Media, il network con cui abbiamo lanciato un piano di riforme per una narrazione non stereotipata delle donne su tutte le piattaforme mediali, realizzando l’approvazione della prima policy di genere della Rai, approdata sulla Gazzetta Ufficiale nel 2011, anche grazie all’abile campagna web lanciata da key4biz dal 2009.
Dunque, su cosa dovrebbe puntare il servizio pubblico per ritrovare un ruolo riconoscibile nella vita sociale, economica e culturale del nostro Paese?
Tecnologia, Immaginario, Coesione del tessuto sociale: ecco i tre dossier a mio avviso cruciali.
Se solo si pensa al ruolo primario svolto per anni dal “più moderno e grandioso laboratorio di ricerche europeo”, come titolavano i giornali negli anni ’60 riferendosi al centro Rai di Torino, ci rendiamo conto degli effetti di una certa disattenzione italiana nella politica industriale del settore. Oggi abbiamo un comparto audiovisivo, in primis Rai con le sue straordinarie professionalità, che non ha un ruolo protagonista internazionale né sul piano tecnologico, né sul piano dell’immaginario. L’Italia era anticipatrice e tra i capofila dell’innovazione.
Dove abbiamo smarrito la strada?
Come evidenzia Michele Mezza, non riusciamo a battere un colpo sulla determinazione degli standard tecnologici che stiamo sempre più importando e utilizzando passivamente. Se “l’algoritmo è ordinatore strategico del sistema audiovisivo”, la nuova fruizione sociale dei contenuti deriva dall’innovazione tecnologica.
Sviluppare modelli tecnologici autonomi di consumo è uno dei fattori esiziali su cui un’azienda titolare del servizio pubblico dovrebbe investire risorse, attenzione e strategia.
Dalle diverse declinazioni della tecnologia scaturiscono i linguaggi che determinano le nuove forme di interazione sociale, di rete e condivisione, di riconoscimento reciproco in una dimensione nazionale consapevole. La mancata presenza della nostra industria in questa partita rischia di relegarci alla subalternità. Forse solo una public company ha, a questo punto, il potere nonché l’interesse per farlo. Rai dovrebbe cominciare indicando chiaramente la strategia che intende adottare per le piattaforme delle sue reti e canali.
Tra il 2009 e il 2010, gli anni in cui si è passati dalla vecchia direttiva europea “Tv senza frontiere” a quella dei “Servizi di Media Audiovisivi”, ho ricoperto il ruolo di responsabile dell’Osservatorio sulla Direttiva Europea in questione, presso il Ministero dello Sviluppo Economico, svolgendo l’Analisi d’impatto regolamentare (AIR). Anche in quegli anni, la convergenza è stato titolo e oggetto di dibattito, in innumerevoli convegni in cui tanti di noi si sono ascoltati e confrontati ma, posso dirla tutta? Nonostante il congruo preavviso, sembra che le conseguenze che essa avrebbe implicato ci abbiano colto di sorpresa.
Industria e politica, in primis la Tv pubblica, non hanno colto a fondo la svolta epocale e l’immenso potenziale seduttivo che sarebbe stato attribuito ai contenuti audiovisivi dalla possibilità di viaggiare su piattaforme diverse: essi hanno acquisito il dono dell’ubiquità.
Ci abbiamo mai pensato a fondo?
Immaginiamo che tipo di supereroi ci sentiremmo se ciascuno di noi potesse contemporaneamente intervenire ad un convegno, scrivere un libro e, che so, cucinare per gli amici. Ebbene, è il potere che hanno assunto i contenuti audiovisivi: tu dici “i miei figli non guardano la Tv”, pensando all’apparecchio spento, ma loro possono vederla, specie i frame che trovano più interessanti, sullo smartphone, sull’Ipad, i più “vecchi” sul Pc. Con l’aggiunta dei social network e dei commenti, con i dibattiti su quello che si è visto in questo o quell’altro programma.
Le conseguenze di ciò sono sotto ai nostri occhi. La loro portata è immensa.
Già nel 2010, l’Onda Anomala, di Li Charlene e Bernoff Josh, era alle porte, le aveva ormai spalancate e si sarebbe propagata su tutte le modalità di fruizione di beni e servizi audiovisivi e non solo, in una ibridazione costante di mercati e social network.
Una marea umana usa le nuove tecnologie per commentare, criticare, raccomandare, modificare prodotti e mercati. “L’insurrezione è in atto, avvisavano gli autori, e può travolgere chi non si adegua”.
Rai dovrebbe fare una riflessione più profonda sul fenomeno della partecipazione sociale nel web e capire che i programmi non possono più essere progettati senza una visione contestuale delle diverse fruizioni. Tradurre tout court le consuete trasmissioni su un sito, o utilizzare il web solo come propaganda di un programma, vuol dire non cogliere le potenzialità immense del cambiamento in atto. E’ finita l’epoca della fruizione passiva che è diventata persino urticante e di scarso interesse di fronte alla possibilità di esprimere e condividere la propria idea su un fatto, un’iniziativa, un prodotto, un programma.
Esprimersi aumenta il senso di appartenenza ad una comunità.
Da questa riflessione scaturisce la seconda matrice su cui il servizio pubblico dovrebbe, a mio avviso, concentrarsi: la coesione sociale.
Vi pare a lungo possibile la tenuta sociale di un’Italia in cui sta pericolosamente aumentando il divario tra chi sta molto meglio e chi sta molto peggio? Con un inquietante aumento della seconda categoria. La classe media è semi-annientata e ancora si pensa di poter propinare sulla Tv pubblica gli stessi autoreferenziali protagonisti, con i loro contenuti e contenitori che da decenni imperversano sulla scena dell’attualità, della politica, indugiando a sbafo nella cronaca nera, con un ristretto club di esperti/e, sempre gli stessi?
Questa roba sta per essere travolta dall’Onda anomala. Deo gratias.
Rai farebbe bene a prevedere e anticipare i tempi.
La rabbia sta salendo nella nostra sonnecchiosa società e questo dovrebbe ispirare le classi dirigenti del nostro Paese. Il diritto di cittadinanza, nel 2016, non può assolutamente prescindere dall’effettiva possibilità delle persone di esprimere se stesse, le proprie idee, i propri gusti.
Questo è IL PUNTO.
La coesione sociale è ormai indissolubilmente legata ad un concetto più allargato di “pluralismo”, fino ad oggi troppo concentrato sul diritto di comunicare dovuto solo ai rappresentanti. Se davvero si è compresa la portata delle trasformazioni in atto, è necessario che il concetto di pluralismo venga parimenti esteso anche ai rappresentati: ai singoli come alle forze sociali che faticano a far sentire la loro voce occorre dimostrare che proprio la Tv pubblica, per la quale si chiede ai cittadini il pagamento del canone, ha nel cuore della sua mission l’apertura di un canale di comunicazione diretto con la cittadinanza.
Il disagio sta consumando fino al lumicino la relativa quiete sociale cui siamo quasi assuefatti, dandola per scontata. Non lo è più.
L’ondata di immigrazione che è destinata a crescere, la sua difficile gestione, l’attacco sferrato dal fondamentalismo terrorista, l’interminabile crisi economica, richiedono un cambio di paradigma nella consapevolezza dei fondamentali su cui poggia la nostra cultura democratica ed egalitaria.
La crisi economica ha alimentato sacche di povertà che mettono a dura prova il confronto pacifico e la fiducia nel futuro. La disoccupazione attacca soprattutto donne e giovani che per circa il 50% non hanno lavoro e/o non lo cercano neanche più, rischiando di rimanere ai margini di ogni intervento politico. Questo è il bacino ove covano maggiormente disagio e insoddisfazione, ove attecchiscono più agevolmente i germi della subcultura della disuguaglianza, della violenza di genere, dello stupro e degli omicidi ai danni delle donne, dell’intolleranza anche tra i più giovani e tra minori (cyber bullismo).
Il confronto culturale si annuncia arduo e complesso ma, proprio per questo, occorre alimentare un dialogo partecipato, fornire ai giovani riferimenti validi, stimoli e chance concrete per un futuro migliore, occorre tirar fuori le donne dai ruoli mediatici stereotipati.
Cosa può fare la Rai?
#LaRaiCheVorrei ha un potere enorme, una leva straordinaria da mettere in funzione, agendo sull’immaginario collettivo: è il terzo cardine su cui imperniare, a mio avviso, la mission di un rinnovato patto tra governo e servizio pubblico audiovisivo.
Come cerco di argomentare sulla rubrica che animo su Huffington Post, l’immaginario della collettività non è una circonlocuzione astratta. E’ l’insieme delle pulsioni, dei sentimenti, degli stimoli che pervadono il tessuto sociale, da cui dipendono le tendenze prevalenti e le scelte dei modelli da seguire. La Rai, i suoi dirigenti, insieme al governo, con il nuovo patto per la concessione pubblica, hanno un’occasione unica per ricostruire un contesto culturale più adeguato, una maggior coscienza dei principi fondamentali della cultura democratica, del rispetto, del valore del merito per l’affermazione sociale, della parità e dell’uguaglianza tra donne e uomini.
Ma occorre una nuova narrazione. Un rinnovato ardire.
Ridare senso al servizio pubblico, vuol dire saper andare oltre un certo becerismo.
Se davvero la Rai intende recuperare le fasce di ascolto più giovani, siamo sicuri che sia indispensabile il velinismo, il tronistismo, il puntare solo su talent di spettacolo.
La sfida del servizio pubblico, poi, è anche saper unire le diverse fasce d’età. Smettiamo di ghettizzare i giovani. Qualcuno ha notato la “folla da concerto rock” registrata giorni fa a Torino alla conferenza di Piero Angela, dedicata a “GiovedìScienza”, sulla meravigliosa macchina del cervello, e “Quark”? Molti hanno confessato di aver intrapreso una carriera universitaria scientifica, proprio grazie all’attrazione suscitata da quei programmi. Ecco il livello di profondità cui possono giungere le scelte “editoriali” di chi detiene le fila del gioco.
Ma non è un gioco.
C’è in ballo il nostro stesso futuro. Quanti giovani italiani possono ancora credere in un domani migliore, basandosi solo sul merito? Ridotti in condizioni di precariato, sudditanza e miseria economica, costretti, in buona compagnia di molti adulti, ad una massiccia emigrazione verso lidi più rispondenti alle logiche della competenza e del merito.
Chi non si assume la responsabilità di voltare pagina, passerà alla storia come l’Annibale della Italianità, il bene più prezioso che abbiamo offerto al mondo nei secoli. Nell’era della comunicazione liquida, un mondo sicuramente meno ancorato ai confini meramente geografici, ma proprio per questo ancora più sublimato dal legame con le storie e le tradizioni locali, con la specificità e le tradizioni dei territori. E in questo l’Italia è matrice inesauribile di ricchezza.
Gianni De Michelis, già negli anni ’80, coniò il concetto di “Giacimenti Culturali”, indicando la via da intraprendere per l’utilizzo del nostro inestimabile patrimonio storico-culturale, cui attingere secondo uno schema di continua estrazione e utilizzo che forse, proprio Piero Angela ha saputo interpretare in questi decenni. Un patrimonio ancora tutto da valorizzare e su cui la Rai, con la fitta rete delle redazioni regionali, potrebbe svolgere un ruolo protagonista, propulsivo di una nuova capacità narrativa.
Infine permettetemi di inserire un dossier che mi sta assai a cuore, quello delle Donne nei Media.
Sono insopportabili e pericolosi gli stereotipi riduttivi con cui ancora vengono rappresentate le donne, in contrasto con la molteplicità di ruoli che esse svolgono nella società. Pubblicità, programmi televisivi, videogiochi, social network, notiziari, troppo spesso diventano sponda di una visione violenta e meramente corporale delle donne, quasi mai interpellate quali esperte di un qualche settore, al pari di quanto accade per gli uomini. Parlano chiaro i dati 2015 elaborati dall’Osservatorio di Pavia, per il monitoraggio che Rai deve realizzare in ottemperanza alla policy di genere, introdotta nel 2011 dall’Appello Donne e Media.
La Rai ha mostrato per prima di volersi impegnare sul questo dossier, accettando i 13 obblighi che abbiamo proposto nel Contratto di Servizio Pubblico e in vigore dal 2011 ma, onestamente, la strada è ancora lunga sulla via dell’attuazione piena.
Occorre uno sforzo ulteriore per contrastare la (sub)cultura che impone l’equazione donna=corpo=oggetto. Nel nostro Paese, ogni anno si registra un’ecatombe di morte ammazzate, bruciate, sfregiate, umiliate anche per mano dei loro ex.
Sottolineo che tra le novità che abbiamo introdotto nel 2011, all’art. 9-b, Rai si è assunta l’impegno a “programmare trasmissioni idonee a comunicare al pubblico una più completa e realistica rappresentazione del ruolo che le donne svolgono nella vita sociale, culturale, economica del Paese, …valorizzandone le opportunità, l’impegno ed i successi…”. Siamo alla voce “Offerta televisiva” del Contratto, cioè i programmi che l’azienda deve porre in essere proprio perché distintivi del servizio pubblico, rispetto alle tv commerciali. Ma il programma sulle donne e sulla loro partecipazione nella società, annunciato ormai a marzo 2012 dal management Rai e dal governo, ad oggi non ha ancora trovato attuazione.
Con riferimento ad ogni singolo nostro articolo inserito nel Contratto di servizio pubblico, abbiamo proposto a Rai una serie di interventi, una vera e propria Road Map per la realizzazione della policy di genere che deve diventare un obiettivo della nuova Convenzione.
Dunque siamo alle conclusioni. Tuttavia manca ancora qualcosa, forse la più importante.
Occorre un ardito progetto detonatore.
Merito, giovani, donne: i tre elementi della detonazione per un progetto audiovisivo e multimediale contestuale ad una serie di grandi eventi.
Una proposta culturale, sociale, in grado di parlare e attraversare generi e generazioni.
Un Talent show sul merito e un tour nelle capitali della cultura, mutuando dal linguaggio dei talent le modalità per veicolare messaggi omessi e dimenticati.
Il progetto, che insieme a key4biz lanciammo qualche tempo fa e che è già registrato alla Siae, parte da una specifica ricerca sociologica. Immaginate una Silicon Valley tradotta in talent show: la rete delle Università nazionali, delle imprese disposte ad investire in giovani meritevoli, degli istituti finanziari pronti a scommettere su idee vincenti, famiglie, nonni, zii, genitori, ragazze/i, tutti impegnati a comunicare il progetto di futuro con cui ciascun giovane concorrente si presenta. Una serie di eventi sul territorio nazionale, le selezioni dei concorrenti destinate ad entrare nelle case e a far discutere sui social network. Alla fine il messaggio: chi propone progetti meritevoli e meglio li comunica, vince la sua carta per il futuro. Un momento unificante per l’identità culturale nazionale.
Il ruolo della Rai sarà riconoscibile se produrrà un bene pubblico, dunque dovrà saper offrire nuovi stimoli in grado di migliorare le condizioni di vita delle persone, evitando di occupare lo stesso settore di mercato dei concorrenti privati. Il ROS, il ritorno sulla società, deve essere tangibile per argomentare la pretesa del canone.
Ecco la narrazione di cui siamo affamati.
E’ una narrazione su cui è indispensabile il servizio pubblico e la sponda consapevole della politica. La Rai e il Governo della prossima Convenzione hanno un’occasione straordinaria da cogliere.
La prossima sarà già troppo tardi.