A maggio scade l’attuale Convenzione tra Rai, la società concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo in Italia, e lo Stato italiano. E’ dunque arrivato il momento di aprire il dibattito sul futuro del servizio pubblico nel nostro Paese, in attesa che venga lanciata ufficialmente la consultazione pubblica prevista dalla legge di riforma passata al Senato il 22 Dicembre 2015.
Personalmente ritengo che tale dibattito debba essere centrato sul tema della mission, laddove il vulnus principale che il broadcaster pubblico ha scontato, in particolare nell’ultimo decennio, è proprio la mancanza di obiettivi trasparenti e di una mission condivisa. Troppo a lungo, infatti, l’enfasi sull’eccessivo peso dei partiti e sui problemi relativi alla governance ed al modello economico dell’azienda hanno occultato una riflessione complessa e rigorosa sulla sua stessa esistenza, nell’epoca del digitale e della multicanalità, quindi delle numerose trasformazioni sociali e tecnologiche che ne hanno minato identità e sostenibilità.
Peraltro è la mission, non certo gli aspetti strutturali, che garantisce l’unicità del servizio pubblico e giustifica l’investimento, rilevante seppur meno che in altri paesi europei, della quota annuale del canone richiesta a tutti i cittadini in possesso di un monitor televisivo. Parliamo di 100 euro all’anno per abbonato (dati 2016), che producono introiti pubblici (da canone) per 1.590 milioni di euro (dati 2014 che, nel 2016, dovrebbero salire per via del contenimento dell’evasione) e contribuiscono, assieme alla pubblicità, ad un fatturato consolidato (2014) di 2,5 miliardi. Per capirne il valore basta raffrontare questa cifra al bilancio complessivo del Mibact che, per il 2014, è stato di 1.595 milioni di euro.
Ma qual è questa unicità della mission?
Perché è ancora oggi così importante avere un servizio pubblico forte e rilevante in paesi, come l’Italia, sempre più affollati di canali e proposte audiovisive?
Ritengo che la missione Rai, così come quella di tutti i broadcaster pubblici europei (pur nelle loro diversità culturali) poggi su un doppio binario: da una parte le industrie culturali e creative, dall’altra i cittadini; da una parte il ruolo di spinta nei confronti della produzione audiovisiva (in particolare facendo leva sulla qualità e l’innovazione); dall’altra quello di stimolare e promuovere, con più gentilezza ma mano ferma, inclusione sociale e processi partecipativi.
Il valore per le industrie culturali e creative
Se il prodotto del broadcaster pubblico è il palinsesto e la sua identità peculiare è data dalla specificità della sua mission, fin dalla nascita dei servizi pubblici europei è risultato evidente quanto la funzione di indirizzo, governance e distribuzione di un palinsesto pubblico non coincidesse, necessariamente, con il controllo di altre porzioni della filiera, ad esempio quella della produzione. E che anzi compito dell’azienda pubblica potesse essere proprio la formazione di un comparto produttivo, esterno al broadcaster, e quindi indipendente.
Ma le imprese italiane di produzione, a causa di fattori strutturali del mercato ma anche di una domanda concentrata, limitata e fortemente autoritaria sul piano dei diritti dai parte dei broadcaster, non riescono a crescere e ad essere competitive, il prodotto italiano non decolla all’estero (con gravi effetti economici ma anche di reputazione), e la nostra industria dell’immaginario stenta a presentarsi preparata di fronte alle nuove sfide imposte dal digitale e da un sistema in cui la “buona narrazione” diviene lo strumento principe per la costruzione delle audience e dei cittadini di domani.
E si tratta di un grosso danno non solo per gli addetti del comparto ma anche per la valorizzazione dei nostri asset culturali materiali e immateriali: questi, infatti, non solo stentano a sopravvivere a fronte dei pochi strumenti di tutela, e a farsi driver di crescita – a fronte di progetti di valorizzazione che solo oggi iniziano a rientrare in una strategia pubblica – ma non godono neanche di sufficienti veicoli di racconto e promozione, in patria e all’estero. E quel poco – pochissimo – di cultura italiana che si vede in video è prodotta dal mercato anglosassone, dalle serie americane su Roma ai documentari britannici su Pompei.
Si auspica quindi da più parti, con il rinnovo della convenzione, una Rai più devota a generare impatti significativi sull’industria, vuoi aumentando le quote di investimento, vuoi con una gestione diversa della filiera dei diritti. Si auspica, inoltre, una rinnovata attenzione alla qualità di prodotto.
Agire nel nome del bene comune significa, infatti, anche e soprattutto finanziare innovazione di prodotto e di sistema. Quindi la specificità della Rai impone che si guardi con maggiore attenzione a quei produttori o a quei programmi maggiormente innovativi che non troverebbero naturale sbocco nel mercato, o che avrebbero difficoltà a fronte di elevati rischi, riservando loro porzioni di programmazione e investimento. Va ricordato che il lavoro di costruzione di nuove audience (e di una industria nazionale più innovativa!) è lungo e impervio, e quindi il processo di sperimentazione di nuovi linguaggi non può non passare attraverso un percorso irto di ostacoli. Una “pazienza” questa che si addice a chi ha compiti istituzionali, non al mercato.
Il tema dell’innovazione, inoltre, non riguarda solo il prodotto ma tutta la sua filiera ed è centrale perché indica la strada del rischio che la Rai si sobbarca anche per il resto del comparto, pareggiando così i conti con i broadcaster commerciali. In questo modo – potremmo dire con Mazzuccato (2014) – il settore agisce da detonatore e stimolo di iniziativa privata, stimolando gli animal spirits del mercato (produttori, imprese tecnologiche, nuove start up…) piuttosto che fare crowding out, ovvero occupare porzioni di mercato potenzialmente destinate al privato, facendo concorrenza sleale.
Il valore per il pubblico
Il rafforzamento del mercato della creatività, specie nella sua componente più innovativa è, però, condizione necessaria ma non sufficiente. A fronte di una molteplice offerta di canali, per quale motivo l’attore pubblico dovrebbe supportarne uno in particolare (o più d’uno, un grappolo di canali), finanziato con i soldi dei contribuenti, e potenzialmente competitivo con la televisione commerciale (e quindi sottraente risorse – pubblicitarie – al mercato)? Se si trattasse solo di spingere l’audiovisivo non basterebbe mettere delle quote più stringenti per i canali commerciali e dar loro i finanziamenti pubblici per ottemperare agli obblighi di programmazione, magari con un occhio alla qualità?
Il ruolo del pubblico si giustifica, solo ed esclusivamente qualora offra un servizio unico (quindi di chiara identità specifica) e che produca bene pubblico.
In questo caso anche chi non ne usufruisce può comunque trarre un vantaggio sociale dall’esistenza di quel bene, perché ha potenziali ripercussioni sullo sviluppo e l’inclusione sociale e, quindi, aumenta il benessere collettivo. Il servizio pubblico ha, dunque – questo è il punto! – un mandato, unico, di identificare e programmare un palinsesto (svariati palinsesti) che aiuti a migliorare le competenze e quindi le condizioni di vita delle persone.
Per fare questo vengono prodotti o selezionati strumenti diretti (informazioni) e indiretti (valori e macro-concetti) che facilitano la comprensione dei cambiamenti sociali, del mondo che ci circonda, dell’enorme gamma delle possibilità di scelta che si aprono davanti all’essere umano, insomma strumenti di libertà.
Chi seleziona i programmi e compone il palinsesto del servizio pubblico è dunque un “architetto delle scelte” come chi dispone gli alimenti in una mensa scolastica (Thaler e Sunstein, 2008), solo che la mensa, in questo caso, è una tra le centinaia a disposizione di un utente con il telecomando in mano e questo cambia radicalmente le strategie da mettere in gioco. Mantenendo la metafora di Thaler e Sunstein non ci si può, quindi, limitare a mettere in primo piano gli ortaggi se poi sul canale concorrente brillano a tutto schermo le patatine con ketchup. Oltre agli strumenti dedicati (diretti e indiretti) il servizio pubblico dovrà essere, allora, anche moderatamente attrattivo, altrimenti non potrebbe realizzare il suo mandato.
Ma essere attrattivo non è parte del suo mandato, è uno strumento. La missione è una spinta gentile all’inclusione sociale, al miglioramento della società.
L’EBU parla di “Return on society” – ROS, cioè ritorno sulla società, ad indicare gli effetti benefici del servizio pubblico sui pubblici che compongono il Paese. Si tratta del superamento del ruolo “educational” con cui sono nati i servizi pubblici in Europa, che prevedeva un’azione unidirezionale. Ora si ragiona sul dialogo, sull’interazione, su cosa fa l’individuo con le cose che incontra, ed è questa interazione che la tv pubblica deve promuovere e “governare”. Può far paura a qualcuno l’idea di una Rai “paternalistica” o che governi le nostre interazioni, o almeno ci provi con una spintina. Ma altrimenti a chi e cosa dovrebbe giovare un servizio pubblico? Se non a fare delle scelte, la composizione di un palinsesto, che il privato non farebbe?
Adattando le parole di Thaler e Sunstein (p.82) – “[…] nonostante tutte le loro virtù, spesso i mercati danno alle aziende un incentivo ad assecondare le debolezze umane (per trarne un profitto), anziché cercare di sradicarle o di minimizzarne gli effetti” – potremmo attribuire ai gruppi media commerciali questa naturale propensione, cioè trarre profitto dalle debolezze umane, laddove invece il servizio pubblico è chiamato a cercare di sradicarle o, almeno, minimizzare gli effetti. Pensiamo ad una tv pubblica che funga, anche, da “pietra d’inciampo” – una tv d’inciampo! – per il Paese. Che ogni giorno getti nell’agenda pubblica temi, aggettivi, riflessioni nuove, stimolanti, che producano impatti ed effetti chiari nel dibattito e generino code lunghe di pensieri ed azioni dedicate al bene comune.
Questo vuol dire, anche, che il gioco deve sempre avvenire all’interno di un accordo di fiducia e condivisione con lo spettatore. Anzi, all’interno di un progetto in cui il ritorno bidirezionale è in grado di produrre correttivi e cambiamento. Istruzione e formazione del capitale umano, di reithiana memoria, vanno declinati in un principio funzionale alle trasformazioni della società nel XXI secolo, in cui il dialogo e lo scambio tra cittadino e istituzioni è aperto e dinamico, non più unidirezionale. Se è giusto, come sopra teorizzato, che la Rai produca idee e valori “pubblici” mediante i quali costruire capitale sociale, è indispensabile, al contempo, che queste idee e valori siano negoziati, continuamente, con tutto il Paese. E questo può e deve avvenire aprendo la Rai ad un dialogo trasparente con tutti gli spazi di produzione di pensiero, quindi scuole, università, centri di ricerca, terzo settore, cittadinanza attiva.
Insomma la Rai non perde “auctoritas” ma trattiene il rischio “autoritario” mettendo in discussione i propri valori fondanti e così diviene parte di una rete di scambio e produzione di idee. Il risultato finale, così come in tutti i processi di formazione, è che una nuova cittadinanza formata anche dalla spinta gentile del servizio pubblico acquisisca strumenti tali da poter mettere in discussione la stessa Rai.
E condizione irrinunciabile di questo ragionamento è la formazione del nuovo cittadino digitale. Si tratta di uno degli obiettivi della mission Rai non più procrastinabili. Su questo importanti passi avanti sono stati fatti negli ultimi anni, ma ancora la strada è lunga, in un Paese affetto da un importante digital divide. Inoltre, è bene ricordarlo, non si tratta solo di fornire a tutti gli strumenti e le tecniche di accesso alla rete ma, anche e soprattutto, di trainare gli utenti verso un consumo multipiattaforma e verso una interazione attiva e produttiva con tutte le piattaforme, promuovendo quindi non solo l’accesso ma anche l’interazione e la produzione di nuovi contenuti.
La creazione di un nuovo ecosistema e di una nuova cittadinanza digitale è esattamente quel caso di creazione di un nuovo mercato che identifica Mazzucato nel ruolo dello Stato innovatore che fa da catalizzatore e dinamizzatore di nuovi investimenti da parte delle imprese (“creando la visione, la missione e il piano”).
“La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”.
Queste le parole di Keynes che andrebbero messe ad epigrafe della prossima convenzione Rai-Stato.
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