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La Rai che vorrei: F. Occhetta: ‘A tutela della pace e della democrazia’

La mission del servizio pubblico che si impara sui testi di scuola ruota intorno a tre verbi: informare, intrattenere ed educare.

Sono verbi così provocatori che oltre ad impedire una definizione statica di servizio pubblico impongono una riflessione continua di natura etica e antropologica.

La recente definizione di servizio pubblico che ci consegna Monica Maggioni, l’attuale Presidente della Rai, è circoscritta da tre priorità: «Per rifondare il “servizio pubblico” nel sistema dei media occorre lavorare su tre condizioni: avere una governance pubblica la cui autorevolezza sia riconoscibile anche dai cittadini; continuare a garantire a tutti, compresi quelli che non hanno possibilità economiche, un servizio di qualità autorevole e imparziale; essere consapevoli che l’informazione del servizio pubblico è anche lo strumento con cui si costruisce una memoria pubblica condivisa della storia del Paese, nel suo farsi»[1]. Le domande a cui rispondere sono sul “come” governare la costruzione del servizio pubblico, sul “perché” e “in quale modo” farlo.

Insomma, per costruire un “servizio pubblico” in una società connessa, il “che cosa comunicare” non può più prescindere dal “come” comunicare e dal “per chi” farlo; l’informazione pubblica non può fare a meno della dimensione educativa che rimanda alla funzione maieutica di accompagnare a crescere.

Per informare e aiutare la memoria della società civile occorre che gli eventi vadano interpretati e contestualizzati; poi viene la cura dei contenuti rilevanti della storia, della scienza, della filosofia, che costituiscono le radici della cultura italiana ed europea; infine, è utile narrare la vita della gente perché il dato fenomenico (ciò che accade e si vive) aiuti a ricostruire il dato fenomenologico, che favorisce l’interpretazione della realtà.

Il servizio pubblico è argine e garanzia della democrazia. Tesi su cui dovremmo tutti essere d’accordo. Senza memoria storica non può esistere servizio pubblico, come ricordava Emilio Rossi che definiva il servizio pubblico come un “servire il pubblico”.

Più difficile invece è ridefinire il termine “servizio pubblico” nella cultura odierna.

Il “servizio” richiama a una “relazione” in cui l’altro diventa tutto ciò a cui tende la mia azione; il polo di attrazione del mio agire. È nell’agire che, non solo devi avere in mente le persone a cui tendi, ma devi essere persona, vale a dire “essere in relazione”.  Quando ci ripieghiamo invece su interessi privati, sull’esasperato individualismo ecc. ecc. allora contraddiciamo in nuce il significato di servizio. E lo tradiamo. Fino ad umiliarlo e ad umiliarci.

Veniamo al “pubblico”.

Cosa significa oggi?

Quanto ha ancora di collettivo il pubblico?

In genere è comune tutto ciò che è esterno alla sfera privata, ma a tarare tutto sulla somma di individualità non si costruisce bene comune. È per questo che propongo di definire “pubblico” con “comune”. Nella cultura odierna, in cui il “pubblico” è la somma delle singolarità, la carta vincente è parlare di “comune” che è la dimensione in grado di costruire vincoli sociali e alleanze tra generazioni e parti sociali.

In quale forma?

Costruendo una narrativa che intorno alla vita e all’esperienza del singolo si costruisce una storia di comunità. Mentre i social atomizzano, la sfida è creare comunità perché queste sono la garanzia della coesione sociale. È l’esempio della mancata integrazione in Francia. Quando il servizio pubblico ha deciso di escludere per anni dalla narrazione politica e sociale le storie di coloro che non erano nati in Francia, diventa quasi automatico che la generazione che cresce non si sente legata alle politiche del Paese. E le combatte perché la Patria non l’ha considerato un figlio. Così negli affetti rimane la terra lontana dei padri che, nonostante la si conosca poco, è comunque sempre da difendere.

Ci sono dunque regole formali da rispettare.

Trovarsi nella condizione di produrre contenuti, talvolta anche sofisticati, riporta al centro del dibattito la “qualità professionale” delle informazioni, la reputazione, il controllo delle fonti, la scelta delle immagini, i testi e le narrazioni. Tutto questo non può prescindere dal rispetto delle regole. La diffusione capillare della comunicazione mediale porta un incremento del bisogno di lavoro professionale e di formazione qualificata.

Come rifondare il servizio pubblico, se la categoria dei giornalisti è segnata da una forte disuguaglianza di opportunità? I giovani che possono comunicare professionalmente vanno aiutati a ottenere la giusta remunerazione, giuste condizioni di welfare e strumenti formativi adeguati.

Ci sono anche regole sostanziali che dipendono dagli attori del servizio pubblico. È davvero felice il potente che i media dipingono come modello? Perché spesso rischiano di rimanere fuori dal gioco i deboli, gli uomini “malriusciti”?

La dimensione culturale del “servizio pubblico” è al bivio tra queste due strade.

È per questo che la credibilità non si costruisce sul successo, sull’audience e sull’essere “creduti”, ma su un fatto: non essere falsificabili.

I giornalisti e i comunicatori sono chiamati a riconvertire non solo il loro linguaggio, ma il rapporto di fiducia con i loro interlocutori. La Rai che in passato chiudeva la sua trasmissione con la sua conclusione oggi invece il termine diventa l’inizio di un dialogo e di una condivisione dei contenuti. È la nuova soglia della comunicazione che provoca i concetti di dono e di comunione, ma anche di fiducia e di partecipazione, in opposizione alla sudditanza e alle varie declinazioni della corruzione.

Le radici del servizio pubblico: pluralismo e libertà

 

Il servizio pubblico si nutre almeno su due grandi radici, quella del pluralismo — antidoto per arginare il pensiero unico dei vari poteri forti — e quella della libertà intesa come possibilità vera per comunicare.

Il pluralismo è il principio costituzionale che ammette e tutela la possibilità di molteplici punti di vista, con un’attenzione però. Sono stati i padri costituenti a voler assicurare le opinioni e le voci, garantendo così il diritto del cittadino all’informazione. Sarebbe un errore pensare che esista una ed una sola buona informazione e una sola corretta interpretazione della realtà.

L’unico modo per garantire il pluralismo è la presenza di una pluralità di soggetti in grado di esprimersi. Rimane intatto nella sua forza evocativa l’esempio di Enzo Biagi: “Una notizia la si può raccontare in tantissimi modi. Facciamo un esempio: un bambino che vede una bicicletta la prende e scappa via. La notizia può essere raccontata così: un bambino la prende perché ha sempre sognato di avere la bicicletta, oppure, il bambino è un ladro, dimostra di essere un precoce delinquente, infine, era un gioco, il bambino non sa che certi giochi vengono contemplati anche dal codice penale. Ognuno ha il suo punto di vista nel raccontare le cose, ma deve farlo con onestà”. È l’angolatura (pluralista) sempre parziale, ma sincera, che fa una notizia.

Certo il rapporto con la politica ha condizionato e condizionerà un’idea di servizio pubblico estranea ai rapporti di potere.

La politica è però ossessionata dall’apparire non dall’essere. Il pluralismo ha invece bisogno di garantire il contenuto, il suo essere. Non esiste informazione completamente neutrale così come non esiste un Governo completamente assente. È la qualità della notizia e la sua imparzialità a garantire il pluralismo nel servizio pubblico.

Allo stesso modo la libertà.

Quando, il 2 ottobre 1946, La Pira definì il concetto di libertà davanti ai padri costituenti, lo spiegò riconnettendolo alla solidarietà, e ricordò che un uomo è veramente libero se «ogni libertà è fondata sulla responsabilità» verso l’altro.

Proprio per questa ragione Meuccio Ruini, presidente della commissione dei 75, nella relazione al progetto di Costituzione affermò: «Libertà vuol dire responsabilità. I diritti di libertà non si possono scompagnare dai doveri di solidarietà di cui sono l’altro e inscindibile aspetto». Una moneta due facce: il diritto alla “libertà per”, non dalla “liberta da” e il dovere di solidarietà.

Il servizio pubblico va pensato nelle logiche dell’economia del mercato in cui non tutti i beni sono merci; al contrario sarebbe la negazione del servizio pubblico appoggiare le logiche della società del mercato che tende a monetizzare tutto, incluso l’utero di una donna povera. “Nonostante tutte le loro virtù, spesso i mercati danno alle aziende un incentivo ad assecondare le debolezze umane (per trarne un profitto), anziché cercare di sradicarle o di minimizzarne gli effetti”[2] ma il servizio pubblico è chiamato a cercare di sradicare queste logiche mercantili o, almeno, minimizzare gli effetti. Insomma deve svolgere quel compito e abitare ciò che il mercato non può fare. È per questo che deve fecondarsi con il terzo settore, con le scuole, le università, con grandi e piccoli luoghi di formazione, con il “locale”.

“Insomma la Rai non perde auctoritas, ma trattiene il rischio autoritario, mettendo in discussione i propri valori fondanti e così diviene parte di una rete di scambio e produzione di idee. Il risultato finale, così come in tutti i processi di formazione, è che una nuova cittadinanza formata anche dalla spinta gentile del servizio pubblico acquisisca strumenti tali da poter mettere in discussione la stessa Rai”[3].

È utile chiedersi: il giornalismo di servizio pubblico riesce ad essere memoria storica per la costruzione della sfera democratica che è chiamato a custodire?

Oppure si resta schiacciati su un «eterno presente», in cui la narrazione politica può dirci ad un tempo una cosa e il suo contrario, favorita dalla mancanza di una «memoria collettiva»?

Il giornalismo accompagna questa nuova stagione tra luci e ombre. Non mancano, infatti, esperienze di cittadini che su temi concreti, nei territori che abitano, costruiscono nuove pratiche e rimodellano forme.

Il servizio pubblico è provocato da almeno tre temi: l’antropologia post-umanista, il rapporto tra laicità e l’islam e il rapporto tra diritto di espressione e diritti soggettivi. L’antropologia del post-umanesimo secondo cui la tecnologia, più che la scienza, ha distrutto l’idea di una natura immutabile dell’uomo, rendendo l’essere umano un essere capace di essere modificato, pone al centro il governo della tecnica e non più il rispetto della dignità della persona.

La nozione di persona — che ha ispirato i partiti del dopoguerra e i loro «nipoti» presenti oggi nello scenario parlamentare — non è più la condizione «pre-politica» accolta dalle forze politiche. Natura e cultura hanno divorziato e l’uomo non è più definito univocamente. È qui che la politica ha perso la sua bussola, il suo primato, e non riesce ad orientare i processi umani. Invece di precedere, subisce i processi culturali in corso come una schiava di poteri (apparentemente) più forti, quelli della tecnica e della comunicazione. Abdicare al servizio pubblico si sono favoriti gli interessi privati e le reti clientelari, che a loro volta hanno generato una corruzione strutturale.

 

Ecco, allora, le tre sfide per il giornalismo in rapporto alla democrazia e alla politica.

In quale modo questo può ricollocare al centro «l’umanesimo politico», che è stato il motore silenzioso della politica dal dopoguerra fino agli anni Novanta?

La seconda sfida è quella dell’integrazione, che include l’accoglienza ed esige il diritto e il dovere di rivolgere, soprattutto alla cultura islamica, domande fondamentali, dal punto di vista teologico e giuridico.

Eccone alcune: cosa è per voi la separazione tra religione e politica?

Come conciliate la vostra appartenenza a una comunità religiosa e a una comunità civile in cui nessuna religione può esercitare un predominio?

Quali doveri sentite di dover assumere o faticate ad assumere? Come considerate i diritti umani e in particolar modo come considerate la libertà religiosa, di coscienza, di parola?

La terza sfida è quella della libertà di espressione: per il giornalismo si fonda solamente sulla libertà, o si definisce anche in relazione ai princìpi di uguaglianza e di fraternità?

È qui la radice della crisi. Il sistema dei media è chiamato a coniugare il principio di libertà con quello di responsabilità. È la responsabilità personale e sociale — che non si impone con una legge, ma si ascolta come fosse un appello interiore — a formare un servizio pubblico che favorisca l’integrazione culturale, permetta alle religioni di dialogare e cerchi un equilibrio sulle autolimitazioni della satira per i temi etnici e religiosi. Inoltre il giornalismo, per fare audience, non può entrare nella trappola di dividere credenti e non credenti, bensì distinguere gli uomini morali e uomini che morali non sono. È così che non abdicherà alle proprie responsabilità, ai propri doveri.

Ma c’è di più.

Il giornalismo di fronte alla politica potrebbe appoggiare forme di lavoro cooperativistico di cui la riforma del Terzo settore, che è da troppo tempo paralizzata in Parlamento, rappresenta una svolta culturale nei rapporti di lavoro.

In un tempo così complesso, di chiusure egoistiche, è premiato quel giornalismo profetico che scommette sul futuro e vince le paure. E lo sarà in quanto «essere morale».

Anche la Chiesa, attraverso il Messaggio del Papa per la 50° delle Comunicazioni sociali del 2016, ribadisce l’importanza di costruire spazi di servizio pubblico. Costruire e mantenere la pace è la vocazione ultima del servizio pubblico a cui deve sentirsi chiamato anche il giornalismo: «Ci vuole invece coraggio per orientare le persone verso processi di riconciliazione, ed è proprio tale audacia positiva e creativa che offre vere soluzioni ad antichi conflitti e l’opportunità di realizzare una pace duratura».

La parola e la strategia – che nascono dall’interno del servizio pubblico – devono allora avere tre caratteristiche: essere forti perché vera, misericordiosi se si vuole essere un ponte, pensate nel silenzio per essere cariche di vita.

[1] F. Occhetta, Le tre soglie del giornalismo. Servizio pubblico, deontologia, professione, Roma, Ucsi, 2015, 10.
[2] Thaler R.H. e Sunstein C.R., La spinta gentile, Milano Feltrinelli, 2009, 82.
[3] F. Barca, Rai e la sua missione possibile, 1 febbraio 2016 in www.civicolab.it/il-senso-del-servizio-pubblico-radiotelevisivo/
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