Scrivere di televisione pubblica dopo Flavia Barca è sempre una bella sfida ed obbliga – credo – a compiere uno sforzo di umiltà. In ogni caso ciò non vieta di provare a spostare l’accento su una lettura, forse più pessimistica, ma anche più libertaria di quelli che oggi si chiamano Public Service Media, proprio a indicare in che direzione stiano andando le emittenti pubbliche per effetto dei più recenti sviluppi tecnologici.
A partire dalla metà degli anni Ottanta in Europa, le televisioni pubbliche si sono dovute adattare ai profondi cambiamenti dell’ambiente mediale, finendo quasi sempre per operare in un mercato competitivo che, grazie ai rapidi sviluppi tecnologi, è presto divenuto multipiattaforma e multicanale. La diffusione delle nuove piattaforme, come la televisione via cavo e satellitare, ha rappresentato allo stesso tempo un’opportunità e una minaccia per le emittenti pubbliche. Da un lato, le tecnologie nascenti hanno aperto e accresciuto il livello di concorrenza del mercato, obbligando i broadcaster pubblici a ripensare le proprie strategie, finendo in molti casi per sviluppare un’offerta simile a quella commerciale, necessaria per rimanere competitivi ed attrarre audience. Dall’altro lato, soprattutto nei contesti europei dove l’emittenza pubblica era più radicata, le piattaforme digitali hanno favorito un processo di progressivo svecchiamento del servizio televisivo pubblico. Questa duplice spinta – alla commercializzazione e all’innovazione – si è amplificata ulteriormente con lo sviluppo del Web e di tutto ciò che ne ha comportato per il mercato televisivo: trasformazione della filiera, nascita di nuovi competitor provenienti da mondi esogeni al broadcasting, sperimentazione di nuovi linguaggi, necessità di declinare le narrazioni in modo uniforme in ambienti diversi e per pubblici iper-frammentati, e via dicendo.
In alcuni Paesi, come il Regno Unito, la Norvegia, la Svezia e in parte la Germania, agli inizi degli anni Duemila il broadcaster pubblico è stato un importante traino per lo sviluppo delle tecnologie emergenti. La BBC, per esempio, nel Regno Unito ha assunto una funzione di guida per tutti i broadcaster free-to-air, favorendo prima la nascita della piattaforma Freeview per il digitale terrestre, poi quella di Youview[1] (ex progetto Canvas), piattaforma over-the-top. Le reti pubbliche tedesche, ARD e ZDF, fin dal 2003 hanno svolto un ruolo strategico per favorire la diffusione del digitale terrestre in Germania, mentre la tv pubblica norvegese, NRK, che gode di un ampio consenso da parte dell’opinione pubblica nazionale, ha avuto funzioni di leadership nel plasmare le politiche nazionali sulla televisione digitale. In Italia, la Rai, nonostante tutte le sue problematicità, è stato tra i primi broadcaster nazionali ad aver investito in modo massivo sullo sviluppo di una piattaforma online, con finalità sia di archivio, sia di catch-up tv, per i contenuti più recenti.
Ma in questo contesto, caratterizzato da un’offerta in costante crescita, sia in termini di quantità e qualità dei contenuti, sia in termini tecnologici e di opportunità di accesso, è inevitabile che si vada oggi riaprendo il dibattito sull’effettiva necessità di un’emittenza pubblica. Al di là di come ogni singolo Paese abbia risposto agli stimoli della convergenza, infatti, i broadcaster pubblici sono soggetti a una serie di sfide su tutti i fronti. Come osservano Ferrell, Lowe e Steemers (2012), anche in Europa, politici e altri stakeholder hanno ormai accettato la logica commerciale come la normale modalità per l’organizzazione del broadcasting. Ciò comporta tentativi sempre più frequenti di smantellamento o ridimensionamento del ruolo e delle funzioni delle emittenti pubbliche. Liberisti e conservatori si schierano da anni a favore della privatizzazione del servizio pubblico radiotelevisivo, considerandolo superfluo rispetto alla complessità della società contemporanea e alla vastità dell’offerta garantita in modo spontaneo dal mercato[2]. Se queste posizioni rispondono a una precisa linea politica, non condivisa da tutti gli osservatori, è invece ormai convinzione comune che le istituzioni dei PSB europei stiano attraversando una profonda crisi[3], entro cui si registra un generale smarrimento rispetto alla mission originaria, che era quella di garantire un servizio universale e di favorire i processi democratici, attraverso un’offerta ricca e sfaccettata (pluralista), non soltanto orientata all’intrattenimento, ma anche alla formazione culturale e all’informazione del pubblico. Da qui nasce l’esigenza da parte di molti studiosi di ridiscutere il ruolo stesso della televisione pubblica, declinandone una nuova essenza, che ripensi il servizio in funzione delle opportunità offerte dai new media (si veda Debrett, 2010 per una serie di casi di studio a livello mondiale; si veda invece Nissen, 2006; Iosifidis, 2007; Bardoel e d’Haenens, 2008; Ferrell Lowe e Steemers, 2012, per un focus sull’Europa).
Anche nel dibattito nazionale attualmente in corso si tende a mettere in luce l’importanza di una Rai con una mission rinnovata, sempre più orientata alla sperimentazione dei linguaggi da una parte e alla promozione di un rapporto dialogico tra istituzioni e cittadini dall’altra. Si tratta di proposte sicuramente attraenti, ma poco si dice sul modo in cui concretizzarle. E soprattutto poco si dice sull’effettivo valore aggiunto che un modello ideale di public service media possa realmente portare alla società civile che lo finanzia. Insomma, il prezzo che siamo chiamati a pagare per una tv pubblica interattiva, democratica e sperimentale ci consentirebbe di avere qualcosa in più oltre a quanto il mercato offre già a un costo quasi nullo per la società?
L’innovazione – tutta – e quindi anche la rivoluzione tecnologica che ha investito i mercati televisivi – ha dato la possibilità ai broadcaster pubblici di divenire Public Service Media, cioè non più televisioni ma realtà multipiattaforma capaci di declinare le proprie storie in diversi ambienti e per pubblici svariati. Niente di più e niente di meno delle possibilità offerte e cavalcate dalle emittenti private commerciali.
Perché costringere la società a pagare per sperimentazione e innovazione quando il mercato sembra già assolvere in buona misura questa funzione?
Un intervento pubblico è sensato nelle cosiddette aree bianche, o a fallimento del mercato, ovvero per quei prodotti e quei servizi che il libero scambio non è in grado di sviluppare.
Ma è davvero questo il caso dell’industria dei media contemporanea?
In effetti i segnali che questa – pur essendo, per la natura strutturale dei costi, un mercato molto concentrato – stia vivendo una momento di forte rinnovamento (perfino con la progressiva entrata di nuovi attori) sono innegabili.
Se parlare di sperimentazione del linguaggio in casa Rai non sembra poter apportare nessuna novità stravolgente rispetto a quanto già può e potrà offrire il mercato, è opportuno valutare se il servizio pubblico possa favorire un migliore dialogo tra istituzioni e cittadini, rispondendo a una domanda di democratizzazione dei processi politici e sociali. Forse, proprio in questo campo, la mission del servizio pubblico potrebbe ritrovare una sua identità specifica, ma non è chiaro in che modo la Rai possa concretamente favorire, per esempio, un dialogo diretto tra un governo e i suoi elettori o – ancora più difficile – i suoi contestatori. Ancora meno chiaro è in che modo una nuova Rai possa assolvere questa funzione in maniera più fluida e trasparente di quanto già non accada grazie alle piattaforme social – come Facebook e Twitter, che negli ultimi anni, non possiamo negarlo, sono progressivamente riuscite ad abilitare la voce di moltissimi gruppi sociali prima inascoltati, senza la necessità di alcun soldo pubblico.
Insomma, senza voler dare adito a polemiche, l’idea di una mission rinnovata per la Rai sembra oggi abbastanza utopica. Tutto ciò che un servizio pubblico avrebbe potuto promuovere e sostenere: innovazione dei linguaggi, narrazioni transmediali, contenuti di nicchia dedicati a specifici gruppi sociali, mediatore nei rapporti tra istituzioni pubbliche e cittadinanza, ormai in Italia sta prendendo forma e ciò soprattutto grazie ai servizi erogati da qualcun altro sul mercato, senza dover ricorrere necessariamente a un’imposta vessatoria, come il canone.
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