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La Rai che vorrei. Emmanuele Curti: ‘Collettiva e corale’

di Emmanuele Curti, Archeologo ed Esperto di discipline umanistiche |

E' tempo di capire come immaginare un nuovo eventuale rapporto con il più grande strumento di comunicazione di ‘Stato’.

Il 6 Maggio 2016 scade l’attuale Convenzione tra Rai – Radiotelevisione Italiana e lo Stato italiano. Ed è per questo che abbiamo deciso di lanciare su www.key4biz.it un confronto che contribuisca concretamente alla Consultazione attraverso la pubblicazione di articoli di studiosi, addetti ai lavori, esperti, che offra idee e sollecitazioni ai rappresentanti del Ministero dello Sviluppo Economico, alla Commissione Parlamentare di Vigilanza, ai vertici Rai.

Chi tra i lettori fosse interessato a contribuire al dibattito può scrivere all’indirizzo serviziopubblico@key4biz.it. Tutti i contributi saranno raccolti in un eBook dall’editore goWare. Clicca qui per leggere gli articoli precedenti. 

I miei genitori avevano messo il piccolo televisore (rosso!) in sala, dietro al divano, in una posizione quasi nascosta, temendo forse un’invasione eccessiva nelle nostre tranquille dinamiche familiari. A noi, le mie due sorelle ed io, era concessa un’ora di televisione al giorno: ci portavamo le sedie, sedendo quasi in punta. La scomodità era parte essenziale di questo rapporto con la RAI, quasi a non dover gioire di questa intrusione, a non farci abituare a dialettiche diverse.

Il mio primo ricordo della televisione italiana, dopo essere rientrati dagli USA quando avevo 4 anni, non è purtroppo piacevole: ho ancora negli occhi le immagini del funerale di stato delle vittime della strage di Piazza Fontana, con la sfilata di bare, la folla, il tutto immerso in un grigiore lacerante che andava ben oltre la scale dei grigi della televisione in bianco e nero. Un’immagine che mi ha segnato, e che purtroppo ho dovuto poi, quasi in loop, rivedere nelle varie stragi e attentati che hanno segnato la mia (nostra di comunità) adolescenza.

Poi gli occhi si sono assuefatti agli Zecchino ‘D’Oro, ai Carosello, e via via ad altri programmi, nell’incedere della televisione.

Ma questa presenza del dolore ‘pubblico’, del racconto della prima grande tragedia nera italiana, è rimasta dentro, facendomi uscire dalla dimensione intima dell’incontro infantile con la morte (i funerali di prozii e amici di famiglia), proiettandomi in un livello partecipato, largo, condiviso.

Lì stavo scoprendo l’Italia.

A più di 40 anni di distanza, il rapporto con la RAI si è lentamente dissolto: non è questo il luogo per discutere le varie ragioni di un distacco anche sentimentale, per i ritmi che mi dettava da bambino con la sua finestra quotidiana oltre la dimensione mia locale. Ma, seguendo le sollecitazioni di Flavia Barca, è tempo di capire come immaginare un nuovo eventuale rapporto con il più grande strumento di comunicazione di ‘Stato’.

La RAI è entrata in crisi nel momento stesso in cui lo stato moderno occidentale è entrato in una crisi identitaria, del modello democratico in primis. Si pensi ad esempio al dibattito sulla scomparsa della figura degli ‘intellettuali’ (voci autorevoli che parlavano spesso proprio attraverso la RAI, che dal ‘centro’ educavano la comunità). A quell’assenza, segno comunque di un vuoto, dobbiamo però saper rispondere prendendo consapevolezza di un sapere diffuso che va recuperato.

Una volta la RAI era la finestra sul mondo esterno: poi altre finestre si sono aperte, contaminando e diluendo anche la relazione fra televisione (di stato) e senso di cittadinanza.

Oggi dobbiamo recuperare questa dimensione guardando in positivo all’enorme varietà di media (finestre) che abbiamo a disposizione per ‘vedere e sentire’ altro: la frammentazione non significa necessariamente dispersione, ma può essere intesa, se vista in chiave interattiva, anche come coralità.

Le nuove generazioni sono proiettate ad una nuova dimensione visiva: come ci dice Simone Arcagni ‘la società digitale e connessa ha decisamente incoronato l’audiovisivo come la forma di contenuto principale della comunicazione.. nel 2019 il video rappresenterà l’80 per cento dell’intero traffico sulla Rete’. Tutto questo nelle sue forme più diverse, passando non solo per gli strumenti visuali più disparati (televisione, telefonini, tablet, cinema, ecc.), ma anche con tempi diversi. Se una volta la comunità guardava fuori da sé attraverso le finestra televisiva in tempi condivisi (stessa ora, stesso giorno), ora l’approccio è diventato più individualistico, con ognuno che sceglie i propri tempi per guardare ciò che vuole.

La RAI potrebbe innanzitutto lavorare su questo aspetto: attraverso una maggior diversificazione della propria programmazione su media diversi, potrebbe comunque ‘riunire’ la comunità rispetto a percorsi comuni. Il suo compito potrebbe essere quello di far uscire il singolo dal suo isolamento affrontando percorsi di coinvolgimento che radunino le voci sparse, armonizzando un racconto collettivo che riparta dai luoghi, dagli spazi, senza imporre una ‘visione’ unica.

Rompendo anche quella ‘religiosità’ di un tempo (una rapporto peraltro consumata a partire dagli anni ’80), e generando nuove forme di relazione ed, eventualmente, di ritualità.

Le storie da raccontare sono mille: da quelle delle pratiche quotidiane a quelle innumerevoli che nutrono la stratigrafia infinita del nostro territorio (andando oltre la iper conservazione, che tacita il monumento o l’oggetto, per riscoprire il tratto umano dietro a loro).

L’importante è che questa miriade di finestre sappiano raccontare sé stessi rispetto ad un senso di collettività, nutrendo l’abitare (il territorio) in maniera condivisa.

Una volta avevamo bisogno di persone come Alberto Manzi, che, con la sua trasmissione Non è mai troppo tardi, affrontava uno dei problemi cruciali dell’Italia del dopoguerra, l’analfabetismo, insegnando la grammatica come elemento essenziale del dialogo. Oggi, seppur abbiamo un problema di ritorno di una certa ‘ignoranza’, il sapere pervade il territorio in maniera molto più diffusa e abbiamo la capacità di produrre conoscenza dal basso. E scuole e università devono tornare al centro di questo discorso, uscendo da una loro rigidità di luogo, e pensarsi come spazio aperto e dinamico di produzione della conoscenza (e non solo di apprendimento), con gli studenti coinvolti durante e non solo alla fine del percorso di studi, uscendo dal complesso del titolo legale come certificazione del sapere.

Ed è proprio la nuova generazione, quale che comunica sempre più attraverso i sistemi audiovisivi, che sta ‘imparando’ anche tecnicamente a parlare in queste forme: da Instagram, alle mille applicazioni del ‘parlare attraverso immagini/video’, nascono oggi centinaia di videomaker che spesso partono proprio dallo sguardo su ciò che li circonda, divenendo nuovi ‘cantori’.

La capacità tecnica è in crescita, in un processo naturale che va oltre il nostro controllo: o meglio, è lì che potremmo aiutare i processi, immaginandoci laboratori/ luoghi di formazione che stimolino determinati percorsi. .

Compito nostro (e della RAI) è quello di pensare il tutto in una dimensione pubblica: come ci ha sollecitato Marianna Mazzuccato – citando il caso della BBC come maestra dell’industria del documentario in Gran Bretagna –  dovremmo ripensare il ruolo dello Stato innovatore (e quindi RAI?) come plasmatore di nuove dimensioni socioeconomiche anche in queste realtà. La RAI potrebbe prendersi il ruolo di catalizzatore di queste spinte, mettendole in connessione. Perché non pensare alle sedi RAI regionali non solo come luogo di descrizione, ma come spazio di ricerca del territorio, come laboratori di tessitura locale, di recupero delle competenze, della produzione locale? Perché non vedere una RAI che si affianca alle mille esperienze visuali, e le stimoli, le accompagni, le produca per una nuova narrazione veramente popolare (come, su una altro settore, peraltro intimamente connesso, quello della letteratura, ci stimola Michela Murgia)?

Perché non immaginare nuove sinergie, con i posti deputati alla narrazione e allo sguardo?

Qui penso ad esempio ad i musei. Ultimamente, la questione museale è al centro del dibattito, anche a causa delle ultime riforme ministeriali delle soprintendenze. Nella dicotomia che si è venuta a creare ad esempio fra Poli Museali e Soprintendenze territoriali (vittime a mia parere anche di un vecchio concetto del museo come luogo di bigliettazione e quindi consumo, secondo un antiquata interpretazione del fenomeno turistico) si è aperta una lacerazione che, anche se sofferta, può aprire nuove visioni. I musei sono fondamentalmente il luogo dello sguardo e della parola, e attraverso questo, in teoria, della creazione di un vocabolario per la comunità: se andassimo oltre la dimensione ‘conservativa’ e pensassimo questi luoghi come veri laboratori da cui partire per esplorare i territori (creando peraltro nuove sinergie con le Soprintendenze), perché non pensarli anche come luoghi di produzione anche visiva? Perché non trovare una nuova sinergia anche qui con la RAI?

E’ anche su queste riflessioni che stiamo costruendo qui a Matera il percorso verso il 2019 come Capitale Europea della Cultura. Cultura intesa come spazio primario di costruzione di un senso di comunità, lavorando proprio su nuovi modelli di produzione. Dal laboratorio nazionale della School of Digital Cultural Heritage a possibili nuovi accordi con la RAI (ben oltre la non felicissima esperienza del Capodanno), ad altre sintonie, stiamo immaginando nuovi percorsi di narrazione, nei quali l’aspetto ‘visivo’ è cruciale. Non come selfie di una cultura vuota, di eventi momentanei, di un’estetica rifatta: ma come sperimentazione di nuova produzione, ridiscutendo il vocabolario di base.

Ripensandoci come italiani ed europei, in una ricerca che sappia anche rispondere alla crisi del modello del pensiero occidentale (e quindi dello Stato, e quindi della RAI). Dobbiamo saper ripartire però dalla necessaria creazione di nuove narrazioni, oltre il finto modello dello storytelling, che sappiano allo stesso tempo essere momento di ricerca e di produzione, anche economica.

Nostro compito è, nella visione di Openfuture (motto del dossier), ricomporre le visioni, togliendole dalle teche della conservazione, e ripercorrere anche un passato per costruire nuovi sensi di cittadinanza. In tutto questo una televisione nazionale, la RAI, avrebbe potenziali amplissimi spazi nel rifondarsi, stimolando, mettendo insieme, le mille voci che attraversano queste esperienze, verso una nuova coralità.

E allora non avremmo più paura di sederci sulla punta della sedia, come facevo da bambino, ma ci sentiremmo partecipi di una plurima costruzione collettiva.

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