La consultazione

La Rai che vorrei. E. Nardelli: ‘Contribuisca all’alfabetizzazione digitale’

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Il MIUR ha un piano, il CINI ha le braccia. Se la RAI ci mettesse la voglia, l’Italia farebbe un eccellente investimento per il suo futuro.

Il 6 Maggio 2016 scade l’attuale Convenzione tra Rai – Radiotelevisione Italiana e lo Stato italiano. Ed è per questo che abbiamo deciso di lanciare su www.key4biz.it un confronto che contribuisca concretamente alla Consultazione attraverso la pubblicazione di articoli di studiosi, addetti ai lavori, esperti, che offra idee e sollecitazioni ai rappresentanti del Ministero dello Sviluppo Economico, alla Commissione Parlamentare di Vigilanza, ai vertici Rai.

Chi tra i lettori fosse interessato a contribuire al dibattito può scrivere all’indirizzo serviziopubblico@key4biz.it. Tutti i contributi saranno raccolti in un eBook dall’editore goWare. Clicca qui per leggere gli articoli precedenti. 

Ho apprezzato molto, nell’intervento di Stefano Cuppi, la lucidità di visione sul ruolo della RAI in relazione al multimediale. Egli infatti auspica “Eppure il Maestro Manzi oggi farebbe questo, lavorerebbe per abbattere l’analfabetismo digitale che incombe nel nostro paese. Il servizio pubblico multimediale dovrebbe svilupparsi in questa direzione: educare, divertire ed informare, anche mettendo a disposizione dei ragazzi e delle scuole il grande patrimonio digitale delle proprie teche, insegnare loro a manipolare i contenuti digitali degli archivi, spingere le nuove generazioni verso la conoscenza dei linguaggi di programmazione, incentivare la produzione di algoritmi per la fruizione e lo scambio di informazioni e contenuti.

Come professore universitario di informatica ed osservatore privilegiato del progetto MIUR “Programma il Futuro”, che proprio Cuppi cita come esempio di un’alfabetizzazione in cui la RAI dovrebbe essere coinvolta (lo coordino per conto del soggetto attuatore CINI – Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica, insieme al collega Giorgio Ventre) vorrei svolgere alcune considerazioni per rilanciare ed estendere quanto sopra citato.

Le tecnologie digitali negli ultimi venti anni hanno invaso la società come conseguenza della rivoluzione informatica, che sintetizza ed integra due delle maggiori rivoluzioni del passato, quella della stampa e quella industriale. Ne ho parlato più estesamente su questa pagina.

I cambiamenti che la rivoluzione informatica ha messo in moto nel corso del Novecento sono di portata ancora maggiore delle precedenti, perché si tratta di una rivoluzione che incide sul piano cognitivo. Essa sarà probabilmente ancora più incisiva delle altre due, dal momento che offre la possibilità di replicare non più soltanto la conoscenza statica dei libri e la forza fisica di persone e animali, ma quella “conoscenza in azione” che è il vero motore dello sviluppo e del progresso.

Col termine “conoscenza in azione” intendo quel sapere che non è soltanto una rappresentazione statica di fatti e relazioni ma un processo dinamico e interattivo di elaborazione e di scambio dati tra soggetto e realtà. Grazie alla rivoluzione informatica, questa “conoscenza in azione” – un tempo limitata al “maestro” che la possedeva – viene riprodotta e diffusa sotto forma di programmi software, che possono poi essere adattati, combinati e modificati a seconda di specifiche esigenze locali. Gli sviluppi di questa rivoluzione sono ancora più impetuosi di quelli scatenati dalle due precedenti, come dimostrano ciò che accade nel settore del “free software” e il continuo fiorire di società start-up focalizzate sull’informatica.

Giustamente Cuppi ha ripreso nel suo intervento le affermazioni di Michele Mezza, che ha sottolineato l’importanza del ruolo del software, ormai onnipresente nella selezione e promozione delle notizie. In particolare, una frase è centrale per quanto dirò nel seguito: “La BBC produce almeno il 50% degli algoritmi che adotta in casa. … Un servizio pubblico audiovisivo non è dato se non ha pieno controllo dei propri linguaggi.

La società contemporanea, grazie all’automazione di molti aspetti informativo-cognitivi del lavoro umano, si sta trasformando in una “società dei servizi”, che sarebbero impensabili senza le tecnologie digitali. Ma questa meccanizzazione pone diverse problematiche. In estrema sintesi: non basta produrre software, è essenziale gestirne l’evoluzione. Questo vuol dire che è cruciale capire che i sistemi software – in misura largamente maggiore rispetto ad ogni altro sistema costruito dall’uomo – sono sistemi in continuo adattamento, per il quale il ruolo dell’essere umano continua ad essere essenziale. Ciò è vero nonostante gli impressionanti avanzamenti dell’intelligenza artificiale e fintanto che vogliamo che continui ad esistere una società di persone e non di macchine. Per chi volesse approfondire, ecco il testo dell’intervento, discusso nel convegno di Informatics Europe del 2010.

Inoltre, non è sufficiente produrre algoritmi in casa.

Bisogna far sì che si diffonda nell’intero Paese quella cultura di base che rende poi possibile formare chi scrive quegli algoritmi. I quali sono di importanza strategica sia per l’attuale sistema delle comunicazioni che per tutti gli altri sistemi informatici che sempre di più pervadono la nostra società.

Non si tratta quindi di diffondere il patrimonio digitale solo degli archivi RAI, ma quello di un’intera nazione, che custodisce nelle proprie biblioteche e musei un patrimonio ineguagliato da ogni altra. Non si tratta di incentivare solo la conoscenza di linguaggi di programmazione, ma di far sì che ogni persona sia in grado di rendere fruibile a tutta la comunità la propria “conoscenza in azione”.

Provate a pensare all’effetto di moltiplicazione esplosiva che avrebbe avuto nel Rinascimento italiano la disponibilità di una tecnologia per la comunicazione e la diffusione dell’informazione quale quella che vediamo adesso.

È necessario diffondere in tutta la società una vera comprensione delle fondamenta culturali e scientifiche delle tecnologie digitali. Altrimenti rischiamo – soprattutto in Italia – di essere consumatori passivi ed ignari di tali servizi e tecnologie, invece che soggetti consapevoli di tutti gli aspetti in gioco ed attori attivamente partecipi del loro sviluppo.

La formazione su questi aspetti fondamentali, che nel nostro progetto denominiamo “pensiero computazionale”, riprendendo un termine introdotto da Seymour Papert e popolarizzato da Jeannette Wing, è altrettanto importante, nella società contemporanea, di quella svolta nel corso del secolo passato sulla matematica, fisica, biologia e chimica. Esse sono state introdotte nel secolo scorso come materie obbligatorie nella scuola secondaria, con un’introduzione ad esse effettuata nella primaria, non per far diventare tutti gli studenti dei matematici, fisici, biologi o chimici, ma perché la formazione su queste discipline era un fattore chiave per lo sviluppo della moderna società industriale.

Il progetto “Programma il Futuro” ha portato questo tipo di formazione nelle scuole italiane, come sperimentazione inquadrata nelle iniziative de “La Buona Scuola”. In un anno e mezzo il responso è stato entusiasmante, nonostante la scelta di aderire sia stata lasciata all’autonomia didattica dei docenti e non siano stati assegnati fondi ad hoc alle scuole. Nell’anno scorso 300.000 studenti coinvolti, quest’anno già più di 600.000. Nel Piano Nazionale Scuola Digitale, rilasciato ad ottobre scorso, è stato inserito l’obiettivo di far svolgere a tutti gli studenti delle scuole elementari 10 ore l’anno di pensiero logico-computazionale. Obiettivo ambizioso, ma fondamentale per la crescita culturale (ed anche economica – per quanto prima detto) dell’Italia.

È certamente auspicabile che anche la RAI dia il suo contributo.

D’altro canto, proprio le nuove tecnologie didattiche rendono possibile sviluppare la formazione in modi che ne consentono la replicabilità e la diffusione in numeri irraggiungibili con approcci tradizionali.

Nel nostro progetto siamo partiti dal materiale didattico che ha realizzato il Code.org negli USA, ovvero l’iniziativa “Hour of Code” che ha fatto programmare il primo presidente USA della storia e condotto in 3 anni 200 milioni di studenti in tutto il mondo ad avvicinarsi all’informatica. Adattando questo materiale all’Italia e fornendo un servizio di supporto siamo riusciti a far arrivare questi primi “semi” di formazione al pensiero computazionale a quasi un milione di studenti.

Se un partner tipo la RAI si facesse ispirare, come Cuppi e Mezza hanno ricordato, dall’esempio della BBC ma lavorasse sul software invece che sull’hardware basterebbe meno di un decimo del costo per estendere il progetto a tutti gli insegnanti ed a tutte le scuole italiane.

Il pensiero computazionale ha il grande vantaggio di poter essere insegnato molto efficacemente mediante la tecnologia digitale. Bisognerebbe sfruttare questa caratteristica per inserire nella scuola, risolvendo i vincoli organizzativi, la formazione su aspetti essenziali per lo sviluppo di cittadini in grado di comprendere bene la complessa società contemporanea.

Per quanto riguarda il pensiero computazionale, nelle primarie è relativamente più facile inserirlo, nelle secondarie inferiori potrebbe trovare uno spazio nell’area delle tecnologie, nelle superiori c’è pochissima flessibilità. Ma, ripeto, con le nuove tecnologie una parte delle lezioni che tradizionalmente svolge il professore in aula potrebbero essere realizzate dagli studenti in autonomia, lasciando alla classe il momento della discussione, del confronto e della verifica. Nel nostro progetto, un corso MOOC di formazione per gli insegnanti, realizzato dal collega Alessandro Bogliolo, ha avuto migliaia di insegnanti al seguito. I nostri video didattici sul canale YouTube viaggiano ormai sulle quasi 10.000 visualizzazioni al mese, avendo già superato le 100.000 in totale.

A pensarci bene, di uno sforzo di questo genere non ne beneficerebbe solo la scuola e la RAI del futuro. Chiunque che volesse avere una riqualificazione professionale (e l’informatica continua ad essere uno dei mestieri con le maggiori possibilità occupazionali ed i migliori livelli salariali), a qualunque età, potrebbe accedere ad un tale programma di formazione. Avete pensate al patrimonio di conoscenza e di esperienza che vi è in una popolazione magari non anziana, ma semplicemente matura, espulsa brutalmente dal mercato del lavoro e che potrebbe, grazie ad una tecnologia che non è limitata dai vincoli della materialità, ritrovare un suo spazio lavorativo, ritrovare speranze e re-infondere senso nella propria vita?

Si dovrebbe fare.

Si può fare.

Il MIUR ha un piano, il CINI ha le braccia. Se la RAI ci mettesse la voglia, l’Italia farebbe un eccellente investimento per il suo futuro.

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