La consultazione

La Rai che vorrei. C. Rognoni: ‘Determinante il ruolo della politica’

di Carlo Rognoni, Giornalista ed ex presidente del Forum del Pd per la riforma del sistema radiotv |

Per definire la mission non basta la forza della sola Rai, ma ci vuole un impegno convinto e deciso della politica.

Il 6 Maggio 2016 scade l’attuale Convenzione tra Rai – Radiotelevisione Italiana e lo Stato italiano. Ed è per questo che abbiamo deciso di lanciare su www.key4biz.it un confronto che contribuisca concretamente alla Consultazione attraverso la pubblicazione di articoli di studiosi, addetti ai lavori, esperti, che offra idee e sollecitazioni ai rappresentanti del Ministero dello Sviluppo Economico, alla Commissione Parlamentare di Vigilanza, ai vertici Rai.

Chi tra i lettori fosse interessato a contribuire al dibattito può scrivere all’indirizzo serviziopubblico@key4biz.it. Tutti i contributi saranno raccolti in un eBook dall’editore goWare. Clicca qui per leggere gli articoli precedenti. 

Restare fermi: è l’unica scelta che oggi una grande impresa radiotelevisiva non può fare. Vale per tutti i servizi pubblici in Europa.

E la Rai, per rimettersi in cammino ha davanti a sé due grandi strade.

La prima è la più scontata e solo apparentemente è in pianura: cambiare sì, ma gradualmente.

La seconda è più tortuosa, in salita: da tradizionale servizio pubblico dell’audiovisivo trasformarsi in un modello, diventare il simbolo, l’esempio concreto di un’accresciuta responsabilità pubblica nel sistema delle comunicazioni dell’era digitale.

In entrambi i casi il ruolo della politica è importantissimo, ma è soprattutto nel secondo caso che è determinante.

Non si tratta tanto di passare da Broadcaster a Media Company – come si ama dire e come lo stesso attuale gruppo dirigente potrebbe orchestrare. Si tratta di impegnarsi in un ruolo, in una missione molto più ambiziosa. Per definire la quale non basta la forza della sola Rai ma ci vuole un impegno convinto e deciso della politica. In altre parole ci vuole una visione strategica di quello che è l’interesse generale a fronte della rivoluzione digitale.

Siamo alla vigilia di una grande consultazione aperta, propedeutica al rinnovo decennale della concessione del servizio pubblico alla Rai. E’ dunque questo il momento per decidere che strada prendere.

Se si sceglie la prima strada vuol dire che non si vuole uscire dal seminato, dalla propria storia radiotelevisiva, che si vuole entrare nel mondo di internet con il bagaglio delle proprie reti, con i principi che sono da sempre alla base di aziende come l’inglese Bbc, la francese Tf1, la tedesca Ard e naturalmente la Rai, ovvero “informare, intrattenere, educare”.

Siamo in presenza di una strategia – l’ho appena detto – solo apparentemente semplice. Richiede infatti comunque un gruppo dirigente molto consapevole dei cambiamenti in atto e che accetta di farsi carico della sfida dell’innovazione. E innovare oggi vuol dire ripensare, rifondare la propria azienda, intervenire su più piani sia organizzativi sia editoriali.

Mi vengono in mente almeno cinque domande per le quali è necessario trovare risposte coraggiose, che – se penso al presente della Rai – possono sembrare perfino rivoluzionarie.

Primo: ha senso mantenere tre reti generaliste, figlie di un’idea del pluralismo legata alla vita dei partiti di una volta? Vi ricordate? Una rete democristiana, una rete socialista, una rete comunista!

E quante devono essere le reti cosiddette di nicchia, specializzate (sport, minori, cultura)?

E che ne pensano i vertici Rai di una rete per l’Italia nel mondo, con programmi non solo in italiano ma anche in inglese?

Secondo: ha senso avere tre telegiornali, uno per ognuna delle tre reti generaliste, e poi avere una rete All News, interamente dedicata all’informazione?

Forse che nel solo parlarne non è già evidente il rischio di sprechi, di doppioni?

Terzo: nell’epoca del digitale è giusto mantenere la proprietà delle torri, del sistema di distribuzione del segnale? Non è forse ora di pensare a una separazione fra “Rai fornitore di contenuti” e “Rai gestore di reti”?

Perché non approfondire l’idea di un grande operatore di rete – sia pure controllato dal pubblico – che offra i suoi servizi, i suoi impianti, le sue torri, a tutti quei soggetti imprenditoriali che vogliono entrare nel mondo dell’offerta dei contenuti? E’ così insensato pensare a un accordo con Ei-Towers, solo perché è del gruppo Mediaset?

Si vuole lasciare Raiway fuori dal giro che è appena cominciato nel mondo delle torri?

Non c’è forse il rischio che il risultato finale di questa mancata scelta sia una perdita secca di valore dello stesso patrimonio di Raiway?

Quarto. Ho premesso che questa prima strada è piena di insidie, di sfide. Una che fa tremare le vene ai polsi è il rapporto con i territori, con le televisioni di prossimità. Alcune tv locali fanno già servizio pubblico, e come! Con molte meno risorse, con giornalisti mal pagati, con materiale tecnico a volte obsoleto. E tutte con l’insensata ambizione di essere gestori di reti. Forse che la Rai di domani non potrebbe diventare protagonista di accordi con le tv locali, in grado di aiutarle e farne davvero servizi pubblici di prossimità?

Quinto: non è questo forse il momento per cambiare il rapporto con i produttori indipendenti, incoraggiandoli a crescere da un punto di vista imprenditoriale, ispirandosi a modelli che sono vincenti in Francia come in Gran Bretagna e che fanno dell’industria audiovisiva di quei paesi un’industria ricca, che incoraggia e premia la creatività?

Dare risposte innovative a queste cinque domande strategiche, vuol dire sicuramente aprire un duro confronto con i partiti, con il mondo sindacale, e non è pensabile che la Rai possa essere lasciata sola ad affrontare questi “grandi temi” a cui è legato il cambiamento necessario. Da qui l’importanza che potrebbe avere l’operazione di grande ascolto degli stakeholders e di tutte quelle associazioni che sono interessate e coinvolte nel futuro del servizio pubblico. La politica per trovare la forza di battere un colpo ha bisogno di un’opinione pubblica avvertita e responsabilizzata.

La politica di oggi lasciata sola non ha la forza per uscire dalle maglie delle scelte più vecchie e scontate.

La politica che quarant’anni fa s’è inventata la Commissione di vigilanza – e allora aveva un senso – non è stata in grado di capire quanto sia tramontato e inutile oggi quel tipo di controllo parlamentare. E sul piano legislativo si è acconciata all’esistente, a una modesta e discutibile revisione della Gasparri.

Il rinnovo della concessione decennale alla Rai dovrebbe dunque essere l’occasione anche per un riscatto della buona politica. Bisogna avere la lungimiranza di sostituire la logica del “servizio pubblico” (che abbiamo visto quanto in Italia sia stata viziata dalla subordinazione ancillare e burocratica della radiotelevisione rispetto al potere politico) con la logica della “responsabilità pubblica”. E farlo adesso perché la nuova realtà tecnologica sgretola le basi di quello che è stato definito finora “servizio pubblico” ed esalta invece il costante esercizio della “responsabilità pubblica”. Una classe dirigente consapevole e all’altezza potrebbe in un colpo solo archiviare un passato incancrenito e mettersi al passo con le esigenze e le potenzialità più avanzate.

Con il web siamo entrati in una dimensione mai prima conosciuta.

E in queste nuove condizioni cambiano radicalmente i compiti del “pubblico”, le richieste che ad esso si possono rivolgere e le garanzie che esso deve fornire. Di fronte alla nuova dimensione della comunicazione, alla comunicazione digitale integrata, che comprende il web, ma lo trascende, parlare di “servizio pubblico” non ha più alcun senso. Il servizio che si può definire pubblico è costituito dall’intero universo della comunicazione con tutti i diversissimi accessi e usi che consente. Cresce enormemente la responsabilità pubblica che si complica e deve perciò esercitarsi nelle più diverse direzioni.

Con l’ampliarsi della potenza della tecnologia i doveri della politica non evaporano ma si fanno più seri e gravi e le responsabilità che la politica deve assumere si fanno ancora più impegnative e complicate.

Una tecnologia più ricca e potente richiede una politica anch’essa più ricca e potente. Molte di queste idee sono riprese pari pari da un articolo dell’ex presidente Rai Claudio Petruccioli, pubblicato in apertura di un numero della rivista Civiltà delle Macchine dedicato al servizio pubblico.

Finora purtroppo – duole dirlo – la politica non si è dimostrata all’altezza!

La classe dirigente italiana ha considerato il servizio pubblico come una delle “spoglie” a disposizione della politica, di chi detiene il potere politico.

Il servizio pubblico radiotelevisivo è stato concepito e normato (e poi di conseguenza gestito) come proiezione coerente e lineare della “Repubblica dei partiti”, la conseguenza è che la Rai o è “la Rai dei partiti” o è “la Rai del governo”.

Oggi il groviglio fra servizio pubblico e politica si è fatto umiliante e degradante.

Come non vedere che non si trova la minima traccia di un serio dibattito intorno al settore delle comunicazioni (in così rapida trasformazione e di evidente importanza strategica) e intorno a ciò che si debba intendere per “servizio pubblico”?

Se guardiamo al dopo Berlusconi saltano in evidenza due aspetti: le decisioni di Monti rivelano la convinzione che il problema della Rai sia sostanzialmente aziendale, di conto economico, di cattiva gestione. E questo spirito non è certo migliorato molto con “la Gasparri 2”, con l’intervento di Renzi sulla governance. Due posizioni diverse, quella di Monti e quella di Renzi, che tuttavia occultano entrambe le difficoltà del momento attuale: dare al servizio pubblico un orizzonte, una disponibilità di mezzi adeguati. Dovrebbe emergere – dalle scelte che si fanno per il rinnovo della concessione – l’idea che una classe dirigente ha del proprio paese, delle sue esigenze e del suo futuro.

Per farla breve sostituire la logica del “servizio pubblico” con la logica della “responsabilità pubblica” servirebbe ad archiviare un passato ormai incancrenito e mettersi al passo con le esigenze e le potenzialità più avanzate.

Nel quadro della nuova dimensione delle comunicazioni va collocato anche il tema dell’informazione.

Nella “fabbrica delle notizie” gli sconvolgimenti sono enormi. La crisi della carta stampata è solo il punto più evidente di una organizzazione della “produzione di notizie” che ha retto senza grandi cambiamenti più o meno per un secolo.

“La grammatica della Rete” è diversa da quella della carta stampata. E proprio in riferimento all’informazione prende corpo l’esigenza di una nuova specifica e molto grande “responsabilità pubblica”.

L’universo della comunicazione contiene un numero praticamente infinito di dati e informazioni. Attrezzarsi per selezionare, verificare, accreditare quel che si trova nel Web è costoso. Richiede nuovi modelli organizzativi e nuovi profili professionali.

Come affrontano il problema altri Paesi?

Nel 2009 esce il Rapporto Digital Britain discusso per mesi. Basta qualche frase per capire tono e contenuti: “Il governo crede che nell’economia di internet il solo mercato non sarà in grado di garantire il pluralismo. E questo è particolarmente vero per le news”.

E poi: “Esiste il pericolo immediato che larga parte del Regno Unito resti senza fonti di informazione professionalmente verificate”.

E ancora: “La sfida è conservare una Bbc forte e indipendente con un finanziamento a lungo termine, ma anche fornire supporto al giornalismo locale, regionale e nazionale”.

Supporto inteso come fornitura di mappe per orientarsi sul terreno! I soldi pubblici vanno usati non per aiutare il vecchio a sopravvivere ma per aiutare l’innovazione.

Investire nell’innovazione non nella conservazione del passato. Investire per favorire l’innovazione non per proteggere i dinosauri.

E in Italia, per la Rai?

Oggi nessuno finora si è proposto di definire in modo sufficientemente argomentato quale debba essere per il futuro la funzione socio-culturale della Rai.

La Rai può o no essere il perno su cui la responsabilità pubblica si incardina? C’è un documento dell’associazione Infocivica che andrebbe letto e studiato da tutti i membri del parlamento e del governo: la Rai come Hub di coordinamento, smistamento e raccordo della responsabilità pubblica rispetto all’universo della comunicazione.

La Rai potrebbe porsi l’obiettivo di operare in una nuova frontiera editoriale come punto di riferimento e canale di scorrimento, come Hub appunto fra il cittadino, i contenuti e i servizi offerti sia dal Servizio Pubblico sia da altri soggetti. Oggi informare in modo intelligente, per esempio, vuol dire tenere aperto un dialogo con l’utente circa tutti i contenuti presenti nel web. Pensare a un Hub vuol dire svolgere una funzione decisiva nel connettere, tra loro e con i cittadini, le diverse strutture culturali, centrali e locali, di ogni Paese dell’Unione Europea attraverso una piattaforma unica realizzata con il contributo di tutti i servizi pubblici. E per ottimizzare, in una virtuosa economia di scala, costi e investimenti e offerta di università, accademie, biblioteche e mediateche, scuole superiori, teatri, musei enti lirici e conservatori, film commissione film fund, distretti produttrici della creatività.

Il dialogo personalizzato con l’utente che dovrebbe essere alla base del servizio pubblico trova possibilità, inimmaginabili prima, grazie al web e in particolare consente una radicale innovazione nella comunicazione istituzionale attraverso una collaborazione su nuove basi con enti locali e realtà territoriali.

La responsabilità pubblica è concetto diverso e più ampio di quello di servizio pubblico. Se si deve intervenire è perché il mercato come è oggi, e le tecnologie come sono oggi, non garantiscono più la ricerca, la scoperta, il vaglio e la diffusione della notizia allo stesso modo in cui nella fase predigitale le ha garantite la libera impresa giornalistica della carta stampata.

Usa e Gb – culla della libera iniziativa – hanno scoperto la necessità di una responsabilità pubblica. Ci sono aspetti che hanno a che fare con la qualità della democrazia e che vanno tutelate (penso al giornalismo investigativo, per esempio, penso ai giornali come centro di formazione delle comunità locali)

La responsabilità pubblica va proclamata solennemente rispetto ad alcune conquiste storiche, che non possono essere garantite dal libero mercato.

Diamo allora alla Rai il compito di offrire un forte punto di ancoraggio, di riferimento e di propulsione della responsabilità pubblica di una classe dirigente adeguata e consapevole.

Si tratta di riempire un vuoto e nel vuoto non può vivere nessuno, neppure la Rai.

Concludo con un’osservazione che tradisce lo scarso ottimismo che inducono i tempi che viviamo.

Consapevole che grande continua a essere il deficit di buona politica, consapevole dello scarso impegno e interesse che finora ha dimostrato anche l’ultimo governo sia per il ritardo accumulato nel lanciare l’operazione di ascolto della pubblica opinione, sia per la superficialità con cui si sono affrontati alcuni aspetti del futuro della Rai, magari pensando che messo in campo un bravo amministratore delegato il governo potesse occuparsi d’altro, sarei personalmente già molto soddisfatto se venisse scelta la prima strada, quella che ho definito “in pianura” anche se so che non è un’autostrada senza molte fermate e molti caselli.

Per passare da una rifondazione del servizio pubblico dell’audiovisivo al concetto di una responsabilità pubblica nel sistema delle comunicazioni dovremo probabilmente aspettare tempi e governi migliori e più coscienti delle sfide che la rivoluzione digitale porta con sé.

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