Tra i molti compiti che spettano ad una televisione di servizio pubblico c’è anche quello di offrire ai cittadini e alle cittadine una adeguata educazione visiva.
Per far crescere il gusto e le capacità comunicative audiovisive del pubblico, una televisione di ampio respiro e tradizione come la Rai ha a disposizione diverse opzioni e tra queste una delle più coinvolgenti e funzionali, e negli ultimi decenni colpevolmente abbandonata, è la produzione documentaristica. Infatti la nostra Tv pubblica ha sempre svolto un ruolo fondamentale nel promuovere e supportare il cinema italiano e lo fa ancora oggi, anche se con meno coraggio e meno attenzione alla realtà del Paese.
I documentari sono stati però progressivamente abbandonati e sono scomparsi dalla programmazione. La Rai ha sostanzialmente smesso di realizzarli, con rare eccezioni che hanno dimostrato la miopia di questa scelta, data la qualità e anche il successo di alcune delle opere prodotte.
Ma il suo potenziale di educazione visiva il documentario non lo dispiega solo in singole grandi opere, anzi, il patrimonio di indagine e conoscenza della realtà per immagini che è in grado di offrire al pubblico può sviluppare tutto il suo potenziale se pensato non come evento eccezionale bensì come approccio quasi quotidiano al racconto dei fatti e delle persone.
La Rai, produttrice di cultura visiva, dovrebbe tornare ad impiegare anche questo linguaggio che è uno dei linguaggi del cinema, il primo e più spontaneo, dotato di grande potenza narrativa e capace di insegnare a pensare per immagini. Il servizio pubblico può, con questo genere cine-televisivo, mettere in grado il pubblico di comprendere meglio la comunicazione della quale è target ma con la quale può interagire costruttivamente se viene dotato degli strumenti culturali adatti. E proprio perché oggi quasi tutta la comunicazione mediatica passa proprio attraverso le immagini, la Rai deve farsi carico di questo ruolo in quanto servizio pubblico, che appunto per definizione non dovrebbe inseguire la Tv commerciale ma offrire altro, ciò per cui tutti i cittadini e le cittadine pagano il canone: non fare profitti o strappare qualche punto di Auditel a costo di rinnegare la propria identità, ma dare la possibilità a tutti e tutte di conoscere il proprio mondo e il proprio tempo. Se fatto nei modi e con i linguaggi giusti, il premio degli ascolti diventa una conseguenza.
L’assenza dei documentari, ideati e prodotti dalla nostra prima azienda culturale, e non solamente acquistati all’estero, non può essere una scelta per nessuna emittente al mondo. Non si fa televisione senza fare documentario. Questa assenza ha portato il pubblico a dimenticarlo e a identificarlo con i documentari naturalistici o folcloristici che hanno altro fine e altro impatto, oppure a credere che il reportage giornalistico e in generale l’informazione televisiva di approfondimento siano sostanzialmente equivalenti al documentario. Ma sono cose diverse, con fini e stili differenti. La Rai dovrebbe ridimensionare quantità e raggio dell’indagine giornalistica (che propone in modo massiccio e forse eccessivo, investendola anche di compiti che non le sono propri) indirizzando le risorse così risparmiate verso una nuova proposta documentaristica, ideata e realizzata pensando al pubblico generico e non solo alla nicchia di spettatori con una cultura visiva già ricca e formata. Con forme snelle di racconto e durate anche ridotte per adattarsi ai palinsesti non solo in forma di evento serale o festivo ma anche di contenuto per la programmazione feriale e generalista.
Infatti il documentario è un prodotto versatile e di grandi possibilità. Unisce qualità proprie di altre discipline: l’attendibilità del giornalismo, la spettacolarità del cinema e l’interpretazione creativa dell’arte. E’ quindi un formidabile strumento espressivo, informativo ed educativo. Bisogna investirci sopra soprattutto nell’era che viviamo, epoca della comunicazione visuale e della sua massiccia manipolazione ad opera dei media. E bisogna farlo avendo in mente la grande platea.
Il documentario costituisce la prima forma di rappresentazione della realtà per immagini in movimento, è l’approccio originario che la cinepresa e la telecamera hanno verso il Mondo. Filma il presente che trova davanti all’obiettivo e quindi parla della realtà. Per conoscere la realtà, oltre le immagini spettacolari del cinema di fiction e oltre le immagini a corto respiro del giornalismo televisivo, servono le immagini documentaristiche. Immagini che permettono a chi guarda di apprendere, di conoscere, perché nelle immagini documentaristiche la dimensione etica (ciò che vedo è vero e utile) e quella estetica (ciò che vedo è bello e coinvolgente) si fondono nello stesso linguaggio. E non è una questione secondaria, la conoscenza. Perché è la conoscenza a rendere libere le menti. Anche del pubblico televisivo.