Il cuore della nuova Rai sarà digitale. Lo ha ribadito il Presidente Monica Maggioni a febbraio in occasione della presentazione dello studio Censis ‘La trasmissione della cultura nell’era digitale – Una inchiesta sul sapere’, dedicato proprio alla trasformazione in corso nei mass media e, di conseguenza, nel modo in cui informazione, immaginario collettivo e intrattenimento si diffondono presso un pubblico che non è più quello della tv tradizionale. Per quanto, secondo la suddetta indagine, sia ancora bassa la porzione degli italiani che si sente a proprio agio nel nuovo contesto (18,1% di cosiddetti “residenti digitali”) o che prevede un rapido sorpasso dei mezzi informatici rispetto a quelli analogici (17,7% di “evoluzionisti”), è indubbio che la rete stia assumendo un ruolo ormai imprescindibile per tutto il settore delle comunicazioni.
La concorrenza sul tempo
Il predominio assoluto della tv tradizionale cede gradualmente porzioni di terreno ai nuovi canali di fruizione domestica dell’audiovisivo. Il digitale terrestre di cui fa uso ben il 94% della popolazione, ha ceduto l’1% rispetto al 2014, mentre ribassi più accentuati hanno riguardato il satellite, con un -3,1% nel bacino di spettatori che sono pari al 42% degli italiani. Parallelamente, modesti ma significativi incrementi hanno riguardato le varie forme di fruizione dei contenuti televisivi online: la web tv ha ottenuto +1,6 punti percentuali e una penetrazione del 23,7% (40,7% tra i giovani), mentre la mobile tv ha visto una crescita addirittura del 4,8% e una diffusione presso l’11,6% del pubblico, cioè quasi il doppio rispetto al 2014 (Fonte Nielsen).
L’utilizzo di smart tv, ovvero di apparecchiature televisive a vario titolo in grado di connettersi a Internet e ricevere contenuti via streaming, è pure in salita con un incremento annuo del 6,9% e una base utenti del 10%. Collegarsi in rete, in generale, è una pratica molto più diffusa, che ormai riguarda il 70,9% degli italiani (+7,4%), con picchi del 91,9% nella fascia giovanile. YouTube, il portale video per eccellenza, vanta il 72,5% di utenti attivi nella fascia 14-29 anni, con un’evidente crescita nel biennio, pari a circa 4,3 punti percentuali.
Stiamo tagliando la corda?
Se fossimo all’estero probabilmente staremo già parlando di cord cutting, ossia del lento ma comunque progressivo abbandono della tv tradizionale a favore dei canali offerti dal web, in particolare da quegli operatori non lineari (anche detti Over-the-top o OTT) che sfruttano Internet per fornire contenuti a prezzi più convenienti e/o con modalità più flessibili rispetto a quelle della distribuzione via cavo, satellite o DTT. Nel nostro Paese la particolare forza della tv free generalista rispetto a quella pay rende il transito meno traumatico. L’Italia è il campione europeo del tempo speso davanti ai programmi dei broadcaster tradizionali con 4 ore e 20 minuti giornalieri, che aggiungendo tv online e pay tv arrivano a 4 ore e 37.
Il totale, per quanto ancora inferiore alle 6 ore degli USA, è aumentato al ritmo costante di 4 minuti e 42 secondi dal 2008 al 2014, mentre in altri contesti come quello inglese sta flettendo drasticamente. Per l’effetto combinato di servizi non lineari di vecchi e nuovi operatori, come l’iPlayer della BBC e Netflix, nel Regno Unito il “linear viewing” ha toccato il suo minimo storico scendendo di 14 minuti nel corso del 2014. La differenza, come in molti altri ambiti del nostro sistema audiovisivo, la si deve proprio alla posizione particolarmente salda dei broadcaster e del duopolio Rai-Mediaset, che insieme ad altri fattori come il ritardo nella diffusione di banda frena la migrazione verso i nuovi modelli di consumo video. Con l’arrivo dei grandi player stranieri del video on demand e con la crescente diffusione di connessioni veloci la situazione è però destinata a modificarsi, sia sul fronte dell’offerta legale a pagamento che del diverso modo di interagire con la programmazione del piccolo schermo.
Second screen
Secondo Nielsen, sono già il 47% gli italiani che navigano in rete mentre sono davanti a un programma tv facendo uso del “second screen”, ossia di altri dispositivi su cui cercare più informazioni o rendere più social l’esperienza di visione. Il commento online è diventato talmente rilevante che la stessa società, leader mondiale nel rilevamento dell’audience, ha deciso di integrare sia Twitter che Facebook nei parametri di cui tener conto per esprimere il rating sulle trasmissioni tv, e l’Italia è tra i primi mercati in cui questa novità è entrata in vigore. Secondo uno studio dell’università di Urbino per l’Osservatorio News-Italia, questa nuova tendenza a restare connessi durante la fruizione dei programmi tv non riguarda solo i momenti di pausa per le pubblicità (35% degli spettatori), è dettata anche dalla volontà di reperire più informazioni su ciò che si sta guardando (28% del campione, che arriva al 70% tra i giovani) o di verificare quelle enunciate sul piccolo schermo (29% dei rispondenti, 69% nella fascia in giovane età).
Qualunque sia lo scopo del second screen, dal social al multitasking al fact checking, di sicuro il digitale sta cambiando il concetto di pubblico e anche di share, che necessita ora di nuovi strumenti di quantificazione ma, allo stesso tempo, schiude opportunità inedite per programmi (o inserzioni) capaci di “sfondare” la barriera dello schermo televisivo tradizionale e stimolare l’engagement degli spettatori.
La convergenza
Se l’integrazione col web sembra un lento percorso per i broadcaster, sta diventando un must imprescindibile per i soggetti operanti nel ramo pay. A livello internazionale, il 2015 ha registrato movimenti tellurici sia nel settore media che delle comunicazioni, nel senso di alleanze strategiche o vere e proprie fusioni tra i fornitori di contenuti e i soggetti che li veicolano tramite le loro reti.
Parliamo del merger tra AT&T e Direct TV; della tentata acquisizione di Time Warner Cable da parte di Comcast, prima, e di Charter, poi; dell’inglobamento di Cablevision da parte di Altice e del fallito swap azionario tra Liberty Global e Vodafone, che si è trasformato invece in una joint venture per il mercato olandese. Sul fronte delle emittenti, Sky ha riunito sotto il cappello della società britannica i rami italiano e tedesco, affrontando al contempo nel Regno Unito la competizione sempre più forte dell’IPTV e in particolare di British Telecom.
Lo scenario italiano ha visto la salita in Telecom Italia di Vivendi, media company francese già alla guida di Canal Plus e del portale Dailymotion, secondo indiscrezioni prossima a un’alleanza con Mediaset per instaurare una leadership nell’audiovisivo sudeuropeo. Nel frattempo sia Telecom che Vodafone, hanno stretto accordi con i principali fornitori di contenuti tv e on demand, da Sky a Mediaset Premium fino al newcomer Netflix, nell’ottica di un rilancio del triple o quad play. I pacchetti completi di telefonia fissa e mobile, connessione a Internet e tv si stanno in pratica affermando ovunque nei mercati occidentali in un ruolo chiave per lo sviluppo delle reti broadband e ultra broadband, che necessitano dei contenuti per aggiungere valore alla propria offerta e sostenere gli investimenti infrastrutturali. Dall’altra parte, questo tipo di intese sono fondamentali sia per gli operatori OTT, gli “ultimi arrivati” del mercato audiovisivo in cerca di un posizionamento, sia per le emittenti tradizionali (come Sky in Italia, per l’appunto) che devono salvaguardare il proprio, facendo attenzione a non cedere quote di mercato.
Tale processo ha conseguenze che vanno oltre il solo ambito pay: lo scorso gennaio lo storico broadcaster americano NBC ha aperto una polemica sugli ascolti di Netflix, probabilmente per rassicurare gli stakeholder riguardo alla solidità delle emittenti tradizionali rispetto alla minaccia del cord cutting e al suo estendersi a tutto il mercato televisivo, compreso quello in chiaro. La piattaforma di streaming, dal canto suo, ha risposto non solo che le stime diffuse dal broadcaster sono inaccurate, ma soprattutto che il concetto di audience nel suo modello di business non ha alcun senso, non dovendo dar conto ad alcun inserzionista e tenendo disponibili online i contenuti in ogni momento del giorno. In questo nodo, apparentemente secondario, risiede la sfida posta alle tv tradizionali dall’avanzare del nuovo modello di fruizione digitale: quanto spazio sarà lasciato ai programmi live dal video on demand?
Avranno ancora senso i pilastri tradizionali del piccolo schermo come i break pubblicitari e lo share?
Quale sarà il destino delle forme narrative come serial, fiction e cinema, se la loro visione on demand dovesse diventare davvero la modalità di fruizione prevalente?
Quali sono le possibili sinergie rispetto a una possibile rinascita dell’IPTV, la tv via Internet che così scarsa presa ha avuto nel nostro Paese fino alla spinta propulsiva data da Netflix?
La risposta della Rai
Già nel 2013 il servizio pubblico italiano definiva il second screen come “il nuovo paradigma per la TV interattiva” e la social tv come uno strumento capace di “generare molto valore e contribuire in modo determinante al successo delle proprie iniziative, dei propri show e delle proprie campagne”, specialmente in un ecosistema digitale in veloce mutamento in cui “i consumatori oramai si aspettano maggiori livelli di coinvolgimento e parte della sfida verrà vinta da chi avrà la capacità di accontentarli”.
Da allora le iniziative prese per accontentare appunto questa nuova domanda di contenuti non sembrano essersi discostate troppo dallo stretto indispensabile per esistere sul web. Parliamo cioè del portale Rai.tv da cui accedere in diretta streaming o on demand alla programmazione dell’emittente, e di diverse app per mobile e smart tv, tramite cui fruire più o meno degli stessi contenuti del portale accessibile via browser. Si segnalano inoltre il sito dedicato ai ragazzi Rai Junior e quello a tema cinematografico Rai Cinema Channel, da cui è possibile recuperare i film programmati dalle reti RAI, alcuni classici del cinema italiano di difficile reperibilità e i Web Movies. Si tratta di una serie di titoli prodotti da Rai Cinema appositamente per la distribuzione online, in quella che potrebbe essere definita una sperimentazione all’avanguardia per il panorama italiano – era infatti il 2012 – sulla scia di quanto fatto da Netflix a livello internazionale. L’iniziativa però non è stata replicata o inserita in una strategia più organizzata di produzione di contenuti rivolti al pubblico online: un primo cambiamento di rotta in questo senso si è avuto solo l’anno scorso con il lancio di Ray, portale che oltre ai servizi di catch-up tv ospita webseries dal format anche fresco e insolito, nonché veri e propri fenomeni “nativi” della rete come The Jackal. Di sicuro un passo avanti, ma è abbastanza per cogliere i cambiamenti nell’audience così evidenti in mercati più maturi come quello americano?
La risposta potremmo darla guardando al caso inglese, dove nell’ultimo report sul servizio pubblico dell’Authority per le comunicazioni, l’Ofcom, si rileva come ben il 44% della popolazione faccia uso dell’iPlayer, la piattaforma on demand che dal 2007 permette la fruizione connessa dei programmi BBC. La popolarità del servizio è tale che si stima che sia utilizzato da 65 milioni di spettatori al di fuori del Regno Unito attraverso il mascheramento della propria geolocalizzaione, ed è la base da cui l’emittente pubblica intende tentare una monetizzazione delle proprie attività online. È di pochissimi giorni fa la notizia che la tv pubblica “oscurerà” l’applicazione per chi non paga all’erario la tassa posta sul servizio, che fino ad ora non riguardava la sola fruizione di contenuti in modalità catch-up, racimolando un introito stimato in 150 milioni di sterline. Ma si tratta di un’applicazione che nella stagione 2014-2015 ha trasmesso in streaming oltre 2 miliardi e mezzo di contenuti, con serie tv particolarmente popolari come Sherlock in grado di ottenere milioni di ascolti anche on demand… Il 2016 è stato inoltre l’anno che ha visto BBC3 passare esclusivamente online, mentre non più tardi del 7 febbraio la responsabile dei canali e dell’iPlayer, Charlotte Moore, ha confermato la crescente importanza dell’on demand nelle strategie della rete. In particolare si starebbe valutando l’ipotesi di far debuttare più programmi sul web prima che “on air”, per così dire, e la realizzazione di più contenuti dedicati all’audience di Internet. Nel frattempo BBC World ha già confermato l’intenzione di lanciare un servizio SVOD a pagamento, sul modello di business di Netflix, in modo da recuperare parte di quei 60 milioni e passa di spettatori “clandestini”, mentre in Francia un’altra strada per la monetizzazione è stata tentata dall’INA (Istituto Audiovisivo Nazionale), che ha lanciato un piccolo abbonamento di 2.99 euro per accedere all’interezza dei suoi archivi. Soluzione potenzialmente interessante per molte teche intente a sobbarcarsi i costi della conservazione del patrimonio audiovisivo.
In realtà, a ben vedere, anche all’estero la crescita dell’on demand all’interno delle reti televisive pubbliche e free è un fenomeno relativamente nuovo, di cui solo adesso si comincia a percepire l’entità e la rilevanza. La buona notizia per la Rai è che non c’è alcun pattern predefinito, nessun modello palesemente d’eccellenza da cui trarre forzatamente aspirazione. Una soluzione sul tipo BBC incontrerebbe ad esempio un pubblico non abbastanza maturo, né nella fruizione dei programmi del servizio pubblico online né per propensione all’acquisto di contenuti via web. La stessa BBC non naviga proprio in acque rosee, considerando come la sua governance sia stata messa sotto seria accusa da un’inchiesta indipendente appena conclusa, parte del processo di revisione che l’esecutivo britannico sta portando avanti sul contratto di servizio. Aggiungiamoci infine che Netflix in Gran Bretagna è arrivata nel 2012, preceduta di qualche anno da Amazon. In Italia le prime vere mosse nel comparto le hanno fatte Sky e Mediaset nel 2014, mentre il player americano è arrivato da pochi mesi e deve ancora avere il tempo di espandere il mercato ai livelli dei vicini europei. La cattiva notizia è che il cambiamento potrebbe essere più rapido di quanto previsto, col rischio di disaffezionare significativamente le nuove generazioni.
Quello che occorre è dunque una strategia il più possibile decisa e organica, ma anche ponderata rispetto alle peculiarità dell’audience italiana. L’unica presa di posizione forte nell’ambito della rete, invece, sembra essere stata la decisione di togliere Rai da YouTube con una perdita non solo in termini di differenziazione del brand ma a quanto pare anche economica come denunciato da Michele Anzaldi (membro della Commissione di Vigilanza Rai). L’azienda avrebbe perso un milione di euro a causa del divorzio col portale video, avvenuto oltre un anno e mezzo fa, senza che ci siano stati per altro riscontri riguardo a un incremento degli introiti della raccolta pubblicitaria web in grado di compensare le mancate royalties della piattaforma di Google. Questo mentre si vociferava di un piano, poi smentito, di fare entrare l’emittente pubblica sul mercato della pay-tv. Anche Mediaset – dopo anni di contenziosi – ha stretto di recente una partnership finalizzata alla presenza dei propri contenuti sia su YouTube che sul servizio Google Play.
Il canale principale della BBC su YouTube, per inciso, non solo esiste, ma ha più di 3 milioni di iscritti e oltre 3 miliardi di views, che non sono solo medagliette sulla divisa ma significano: a) introiti e b) spettatori, specialmente in fascia giovane, più facili da traghettare o fidelizzare nei confronti della tv lineare.
Maggior trasparenza sulla strategia, un lavoro sull’identità del brand nelle varie piattaforme in cui dice di voler essere presente e una visione del mercato dei media di lungo periodo, in sintesi, appaiono gli elementi chiave di qualsiasi piano che voglia dirsi incentrato sul digitale, e non sulla conservazione a oltranza di vecchie posizioni di forza messe sempre più alla prova dall’avanzata della Rete. Confortante a questo proposito le parole del direttore Digital Rai, Gian Paolo Tagliavia in Commissione Vigilanza dove ha annunciato la riapertura dell’azienda a YouTube e alle piattaforme social come Facebook. “Occorrerà trovare nuove forme di collaborazione”, ha detto il dirigente, mettendo in evidenza anche l’incremento di pubblico connesso nella fascia d’età 15-44, cresciuto dell’11% rispetto al 2013, in controtendenza con quello della tv generalista (-15% negli ultimi 3 anni sempre rispetto allo stesso target). Tagliavia ha anche aggiunto che prima di pensare a contenuti specifici per questa audience, il servizio pubblico dovrebbe assumersi il compito di “traghettare” chi ancora non è in rete verso l’online. Un motto del tipo “Non è mai troppo tardi”, tuttavia, per quanto nobile rischia di non essere valido per la tv stessa, che sembra avere ancora qualche resistenza a comprendere come la chiave del successo nell’audiovisivo non stia nella capacità di rivolgersi a un pubblico di massa (connesso o no), ma nella capacità di identificare le varie tipologie di pubblico e rivolgersi contemporaneamente a ognuna di esse con il linguaggio e il prodotto giusto. Dare allo spettatore la possibilità di ritagliarsi su misura il palinsesto è quel “plus” fondamentale che ha attirato milioni di utenti verso l’on demand, e che potrebbe anche convincere i più refrattari all’alfabetizzazione mediatica digitale.
Uscire dalla “logica palinsestocentrica”, come ha detto Tagliavia, è solo il primo step: poi bisognerà trovare il modo di connettere il singolo utente con l’immensa offerta Rai, facendo in modo che gli vengano proposti in prima istanza i contenuti per lui rilevanti, come avviene nei portali che spendono milioni di dollari negli algoritmi responsabili dei “consigli di visione” e altrettanti per capire i gusti dei loro clienti attraverso i dati di navigazione.
(Ringrazio Laura Croce per la collaborazione)