Il presente intervento risponde all’invito di Flavia Barca e prende spunto dal suo ricchissimo articolo sulla definizione della nuova mission di Rai, in seno al concetto di servizio pubblico. Più che vere e proprie risposte, vorrei suggerire alcune domande e provocazioni, con l’intento di inquadrare il tema da una prospettiva differente, affine alla mia formazione di semiologo e ai miei interessi professionali di analista del pubblico e dei suoi bisogni. In questo senso, lungi da una prospettiva socio-politica o di economia dei media, vorrei fare luce su alcuni aspetti – anche terminologici – che ad oggi mi paiono fortemente problematici:
- Il significato – o i significati – attribuiti alla dizione “servizio pubblico”, ben al di là del suo contesto legislativo legato alla concessione governativa;
- Il ruolo e lo spazio che Rai sino ad oggi si è ritagliata entro il perimetro di significato che andremo ad identificare;
- I bisogni e le aspettative degli spettatori in seno a Rai in quanto concessionaria di servizio pubblico specificatamente televisivo (come fulcro del panorama mediatico in quanto produzione e combinazione di “testi audiovisivi”).
Tutto questo, certamente, finalizzato a delineare qualche possibile ottimizzazione del posizionamento di Rai, tutt’ora piuttosto scontornato nella mente degli italiani, ambivalente tra la missione di servizio pubblico e le preoccupazioni commerciali di un’azienda che è sul mercato pubblicitario.
“Le parole sono importanti”, e definire Rai come servizio pubblico apre a conseguenze fortissime che rischiano di diventare allo stesso tempo gabbia e capo di accusa per l’azienda. Partiamo dunque dalle definizioni, per poi capire in che modo una media company può e/o deve agire per aderire alla definizione, in termini di produzione di contenuti e di selezione/combinazione degli stessi in uno o più palinsesti.
“Servizio pubblico” è innanzitutto “servizio”: cioè un servizio che deve essere rilevante per diversi pubblici. In questo scenario parziale, tutto sembra facile per la Rai di oggi. È un dato di realtà che Rai è La televisione generalista, utilizzando questo aggettivo nella sua connotazione più positiva possibile: la televisione di tutti, per tutti (del resto: “Rai, di tutto, di più”). Relativamente al mondo televisivo, infatti, basta guardare agli ascolti e allo share per notare come, anche nell’odierno panorama di offerta iperframmentata, circa il 40% della platea si rivolge quotidianamente ai canali Rai. Si obietta continuamente che la quantità della domanda soddisfatta (= il numero di teste) sia cosa ben diversa dalla qualità dell’offerta e che piegarsi alla logica dell’audience rischi di far ricadere in un’involuzione populista, dove si dà al pubblico “solo” ciò che il pubblico vuole. Dal mio punto di vista, Rai non può e non deve rinunciare agli ascolti, non solo per ragioni commerciali, ma anche perché verrebbe meno a qualunque logica di servizio stesso: in qualunque mercato, infatti, la domanda si concentra laddove l’offerta è più rilevante per i consumatori, cioè in grado di rispondere ai loro bisogni; detto altrimenti, Rai adempie tanto meglio al suo servizio quanto più risponde ai bisogni di un numero significativo di spettatori.
Le ricerche di mercato usano spesso un esercizio proiettivo (la cosiddetta “deprivation”) per valutare la rilevanza di un prodotto nella quotidianità delle persone: immaginate cosa verrebbe a mancare a tutti noi in un domani senza Rai… sono sicuro che le risposte siano molto interessanti. La lista delle mancanze avvertite è probabilmente lunga, non solo perché alcuni programmi sono ormai parte dell’immaginario collettivo nazionale, ma anche perché verrebbero meno alcune funzioni mediatiche tanto scontate quanto fondamentali: non solo l’informazione più istituzionale (se accade qualcosa di importante, i canali Rai sono i primi ad essere “accesi” nella maggior parte delle case italiane), ma anche l’intrattenimento (alcuni programmi sono veri e propri rituali collettivi capaci di riprodurre e celebrare, consolidare e cementare la cultura del nostro Paese: è fin troppo banale citare il Festival di Sanremo, …) e non ultima la narrazione finzionale (Rai Fiction è non a caso un punto di eccellenza aziendale e il successo di produzioni come Montalbano e Don Matteo – non solo in Italia ma anche come esportazione dell’audiovisione Made in Italy – parla da solo), …
“Servizio pubblico”, però è anche e soprattutto accento sull’aggettivo “pubblico”. E è in questo secondo scenario che le cose si fanno molto più complicate. Soprattutto perché nel termine “pubblico” si celano vaghezza, ambiguità e polisemia che non aiutano né il posizionamento attuale di Rai, né la costruzione della sua mission futura:
- Per “pubblico” si intende “azienda pubblica” e dunque di stato? Dunque “controllata”, da chi e in che misura?
- “Pubblico” vuol dire contenuti realizzati con le finanze derivate dal canone obbligatorio pagato dai cittadini?
- “Pubblico” significa che tutti hanno libero accesso? O al contrario che ci sono clausole di un patto stabilito con qualche non meglio specificata istituzione che va a regolare contenuti e distribuzione dei medesimi per garantire l’audience sotto qualche rispetto, anche in questo caso non meglio definito?
- “Pubblico” ha inoltre – come termine singolare – la pretesa di indicare un fruitore di media omogeneo e monolitico, per certi versi addirittura passivizzato che di certo non corrisponde all’attualità. Non è forse un caso che Rai in quanto servizio pubblico concepito in questo modo sia più debole con i target che richiedono risposte mirate: i ragazzi, i giovani, i giovani adulti…
Questa nebulosa semantica è madre di svariate accuse mosse all’azienda, che sembra ricavare benefici e agevolazioni rispetto ad altre aziende sul mercato, pur non avendo chiaramente definito i suoi obblighi (o dovendo gestire obblighi che non appaiono interessanti per l’audience). Più concretamente, nella percezione di gran parte degli italiani in qualche modo ideologicamente “ostili” a Rai, a creare problemi è l’imposizione di un canone obbligatorio in concomitanza con la presenza di pubblicità.
A monte di questo, ci si può persino interrogare sulla necessità della specifica “pubblico” all’interno di un servizio nello scenario mediatico attuale. Ha ancora senso, in un contesto ricco di editori e persino di produttori indipendenti (quali quelli presenti in internet) un servizio mediatico “garantito”, “protetto”, “sicuro”? Detto altrimenti, anche riconoscendo l’eccellenza e il primato di Rai come fornitore di un “servizio”, essa non potrebbe limitarsi ad essere una media company assimilabile agli altri player? Quale è il beneficio goduto dagli italiani in virtù dello statuto “pubblico” del servizio reso da Rai? Non basta la “mano invisibile del mercato” nel contesto ipermediatizzato di oggi dove il pluralismo è un dato di fatto enormemente facilitato dalla digitalizzazione?
La posizione che esprimiamo segue quella di Flavia Barca: non basta. Una Rai di servizio pubblico è necessaria perché solo astraendosi – parzialmente, ma molto più chiaramente di quanto non faccia ad oggi – da una logica di mercato, si riesce a ragionare in termini prospettici. Solo con una logica da servizio pubblico ci si può permettere non tanto di rientrare nel vecchio “patto” pedagogico di un tempo (dal quale personalmente rifuggo), ma piuttosto in un patto di vera innovazione, sperimentazione, liberazione della creatività. Ad essere cruciale è il concetto di “industria dell’immaginario” (intendendo con questo termine tutto ciò che riguarda la produzione culturale e il “capitale culturale”: informazione, fiction, storie, ma anche le modalità tecnologiche per metterle in atto) e il posizionamento di Rai come protagonista di questa industria: se sono costantemente e in tutta la mia programmazione guidato dalle “vendite” immediate, vale a dire dal successo di pubblico e quindi dal ritorno pubblicitario, non sono del tutto libero di sperimentare nuovi linguaggi audiovisivi, nuove modalità di trattamento, nuovi format, nuovi volti, nuovi autori… La certezza del successo di programmi passati o la facile accessibilità (anche e soprattutto economica) di alcuni contenuti eventualmente importati dall’estero rischia di cannibalizzare il portato di innovazione culturale italiana.
Se Rai ad oggi primeggia nel rendere un servizio mediatico, è vero che questo servizio rischia di avere respiro corto nella produzione e nella definizione dei palinsesti: costruisce solo per il “qui e ora”, senza pensare al “domani”, e all’estero. Certamente devono contare gli indici di ascolto che ogni mattina alle 10 arrivano sulle scrivanie dei dirigenti, ma deve pesare altrettanto il “capitale culturale” prodotto per la collettività italiana, tramandato ed esportabile. Si parla tanto di colonizzazione culturale da parte di prodotti editoriali stranieri e di impoverimento della creatività italiana, ma non lo si mette mai in correlazione con le opportunità celate nella buona realizzazione di un servizio pubblico radiotelevisivo. Non è possibile continuare ad importare idee audiovisive straniere e riadattare format inventati in altre culture. Occorre tornare con più forza a produrre contenuti italiani e innovazioni tecnologiche in grado di veicolare al meglio i trattamenti e le esecuzioni di questi contenuti.
Se l’Italia è conosciuta come “popolo di poeti e navigatori”, un servizio pubblico mediatico non può arrendersi a tradurre poeti e navigatori di altri paesi: non per mero sciovinismo o autarchia culturale, ma per l’opportunità e la ricchezza che deriva dall’iniettare nel dialogo internazionale anche una voce italiana più risonante, e – perché no – più innovativa.
In questo modo, Rai si porrebbe autenticamente come interfaccia e volano del sistema culturale italiano, creando connessioni con produttori, distributori, ma anche autori, singoli ed istituzioni che possono e vogliono sperimentare e creare. Il sito ray.it con la sua apertura ad autori vari e differenti, anche lontani dal classico mondo Rai, con la sua sperimentazione nelle “forme brevi audiovisive”, con le sue narrazioni cross e trans-mediali, in questo senso contiene davvero piccoli germogli fertili, ed è un peccato sia ancora quasi sconosciuto.
Per concludere, dunque, il ruolo di Rai come servizio pubblico non può appiattirsi attorno all’ideologia che nega la logica quantitativa degli ascolti. Ma non può neanche rifugiarsi nell’aleatorio concetto di qualità per come è misurato sino ad ora. Si è passati dalle ricerche di studiosi esperti riuniti nei volumi delle collane editoriali VPT/VQPT a indici quantitativi della qualità (prima dell’IQS poi del Qualitel, tuttora in essere): strumenti da non sminuire, ma che obiettivamente non bastano ad inquadrare il concetto di qualità e sono spesso stati utilizzati, nei fatti, più come alibi e adempimento necessario che non come leve di monitoraggio diagnostico e springboard di innovazione.
- I volumi hanno il rischio di trattare tematiche del tutto slegate tra loro, senza una logica di monitoraggio: solitamente di grande spessore intellettuale, sono più utili alla didattica e al “sapere” che non alla propulsione del “fare” o del “fatto” (e lo dico con tutta la consapevolezza che senza un “sapere” manca un “saper fare” e dunque un “fare”). Senza standardizzazione della metodologia di raccolta e studio del dato, senza intervalli di tempi regolari in cui raccogliere il dato, si perde la comparabilità del risultato necessaria alla diagnostica qualitativa.
- Gli indicatori quantitativi della qualità diventano delle blackbox con pretesa di esaustività su tutta la programmazione che non dicono davvero nulla su cosa funziona e cosa no e per quali ragioni un programma è percepito come qualitativamente superiore. Dati peraltro mai davvero pubblicizzati (sono pubblicati, ma mai dibattuti, mai pubblicamente commentati…) che rischiano di essere niente più di una costosa tassa da pagare da parte dell’azienda rispetto alla concessione governativa.
In questo senso, gli spunti da cui ripartire nella definizione del ruolo di una Rai del futuro, che si inquadra come servizio pubblico di qualità, possono essere così riassunti:
- Parlare a tutti: non solo “un programma per tutti”, ma anche “tanti programmi per ciascuno”, offrendo una “variegata” dieta di generi, contenuti, volti
- Continuando a cercare l’eccellenza e il primato degli ascolti (perché come era solito dire Sandro Curzi “non c’è servizio pubblico se non c’è pubblico”)
- Monitorando la qualità nel tempo, con strumenti capaci di essere autenticamente qualitativi anche nella raccolta del dato, ma riproducibili nel tempo
- Mettendo a esponente la capacità di innovazione, contaminando generi e linguaggi e investendo anche in quei territori di contenuti che non assicurano ritorno (di ascolti e dunque economico) nel breve periodo.