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La Rai che vorrei. A. Contri: ‘Cancelliamo il vecchio modello e lanciamo la TV nel nuovo ecosistema dei media’

Alberto Contri

Alberto Contri

Per ‘La Rai che vorrei’ oggi pubblichiamo il contributo di Alberto Contri, Docente di Comunicazione Sociale alla Iulm di Milano, già consigliere Rai con delega ai nuovi media e dal 2003 al 2008 Amministratore Delegato e Direttore editoriale di Rainet.

Una risposta sensata alla domanda “Qual è la Rai che vorrei” richiede prima una modifica alla domanda, che potrebbe diventare “Qual è la Rai che vorrei nell’attuale contesto dei media e dei social media?”.

Sottintesa ci starebbe pure una riflessione riguardo al ruolo di un moderno Servizio Pubblico in tale contesto.

Durante una audizione in Commissione di Vigilanza, Carlo Verdelli, neo-direttore editoriale per l’Offerta informativa, ha detto: “Dal punto di vista dell’informazione, è come se l’orologio della Rai si fosse fermato nel ’900. Questo è evidente, è proprio un problema tecnico. Nei fatti siamo in un altro secolo e in un’altra civiltà”.

Di rincalzo, la Presidente Monica Maggioni ha dichiarato: “Noi non riusciamo a parlare con il pubblico tra i 15 e i 35 anni. C’è bisogno quindi di colmare un gap che è generazionale ma anche digitale”.

Chi andasse a rileggere documenti e interviste di quando ebbi l’onere e l’onore di partecipare a quella specie di amministratore delegato collettivo che era il CdA Rai presieduto da Zaccaria dal 1998 al 2002, potrebbe sorprendersi nel trovare affermazioni simili.

La mia risposta di oggi a queste domande non può non tener conto di quella esperienza e di quella successiva, che mi portò a rilanciare Rainet dal 2003 al 2008.

Ero approdato a quel CdA dal mondo della pubblicità in una maniera del tutto al di fuori del manuale Cencelli (sono certo che fu un momento di distrazione della politica) ed ero fresco del successo del provider Tin.it di cui, con l’agenzia Mc Cann Interactive che dirigevo, avevo fatto crescere gli abbonati da 30.000 a 3.600.000 in meno di due anni. Va detto che era il 1996, quando quasi nessuno sapeva settare un modem o usare la posta elettronica, e quindi di fatto (insieme all’A.D. di Tin.it Andrea Granelli e al Direttore Marketing Marcella Logli) abbiamo fatto conoscere internet agli italiani.

Arrivato nel CdA Rai, al momento della distribuzione delle deleghe che allora erano molto operative, mi feci assegnare insieme al collega Stefano Balassone la delega ai nuovi media. Grazie alla buona conoscenza del mercato americano, visto che lavoravo da tempo in una multinazionale della pubblicità basata a New York, ho contribuito in maniera significativa a disegnare Rainews24, Rai New Media, Rainet, RaiClick.

Purtroppo RaiNews24 fu da subito infedele al modello che era stato progettato. Secondo me, e questo vale anche oggi, un canale All News dovrebbe essere un rullo informativo continuamente aggiornato, da poter essere consultato con interesse in ogni momento, sicuri di trovarci notizie fresche, e – se del caso – brevi approfondimenti. Una sorta di Televideo, peraltro oggi ancora molto guardato, ma di carattere televisivo, pronto ad aprire finestre su eventuali eventi straordinari, che oggi proprio non mancano. Invece prevalse l’impostazione del primo direttore, Roberto Morrione (pace all’anima sua, ma quante discussioni e anche litigate abbiamo fatto in merito) che ne volle fare una piccola rete generalista, di fatto una duplicazione delle altre reti, con lunghi approfondimenti, magazine di cultura e spettacolo, e persino documentari sui lupi marsicani… Questa impostazione fu avallata dai sindacati, me lo si lasci dire, contrari di default a qualsiasi tipo di innovazione, ancorché continuamente invocata nei loro comunicati.

Intromissioni della politica a parte, la resistenza al cambiamento è una delle chiavi di lettura che serve a capire perché la Rai appare così “fuori sincrono” rispetto al paese e al nuovo contesto dei media, come ha rilevato Carlo Verdelli. Ho da raccontare un aneddoto illuminante in proposito. Nell’ambito della mia delega avevo fatto un rapido tour per i principali servizi pubblici d’Europa, scoprendo che i giornalisti (quelli radiofonici, per cominciare), erano già dotati di registratori digitali, e una volta tornati in redazione si montavano da soli i propri pezzi. Quando il dg Pier Luigi Celli si convinse a comprare un po’ di questi apparecchi, apriti cielo: i montatori temevano di perdere il loro lavoro (e anche il loro potere…) e i giornalisti ritenevano fosse una bassa manovalanza il fatto di doversi montare i pezzi.

Da un lato ricevevamo comunicati sindacali che invocavano investimenti in innovazione, dall’altra proteste contro le nuove prassi lavorative che erano parte integrante dell’innovazione insieme alle nuove macchine. Esattamente come accadeva per gli Art Director della pubblicità, che volevano rimanere artisti non coinvolti nel lavoro produttivo: una posizione semplicemente antistorica, perché con software come Photoshop, Illustrator e inDesign era chiaro che il momento ideativo avrebbe ben presto coinciso con quello produttivo. Così per un po’ i registratori rimasero a prendere la polvere. Dopo tanti anni, la situazione non è cambiata di molto: se è vero che oramai i giornalisti di RaiNews24 escono da soli con la loro mini-telecamera, è anche vero che una volta tornati in redazione devono poi fare la fila per impetrare un turno presso le salette di montaggio.

Che ci vuole per organizzare per loro un corso perché imparino a montarsi i pezzi da sé?

Ci sono molte migliaia di ragazzini che si sanno montare egregiamente con iMovie (un software basico presente di default sui computer Apple) i loro video virali da postare su Youtube. Dal canto loro i montatori possono essere riconvertiti a fare altro…

 

Ma c’è un’altra questione, anch’essa legata alla resistenza al cambiamento.

La si avverte girando per i corridoi della Rai alle 10 del mattino. A quell’ora la domanda che rimbalza da un ufficio all’altro, che corre sui cellulari e sulla posta elettronica è: quanto ha fatto?

Che significa “quanto ha fatto di share” questo o quel programma della sera prima. Dal direttore di rete all’ultimo funzionario, tutti sono unicamente interessati al dato dell’Auditel, che purtroppo sta invecchiando insieme alla tv che dovrebbe rilevare.

Certamente è il miglior sistema di rilevazione oggi a disposizione…ma solo perché non ne è stato ancora creato uno in grado di rilevare le nuove abitudini dei teleutenti, che guardano la tv facendo anche altro (cellulare, computer, tablet).

Oltre a “pesare” il valore dell’attenzione, le aziende che investono in pubblicità avrebbero bisogno di un metodo di rilevazione in grado di intercettare cosa guarda durante la giornata un consumatore su tv, tablet, cellulare e computer.

Fantascienza? Intanto, nonostante la tv sia sempre meno centrale nella vita delle persone, la Rai, rimasta anche per motivi di introiti pubblicitari un’azienda prettamente televisiva, è inevitabilmente legata sia in termini di pensiero autorale che in termini industriali ad un mondo che va lentamente scomparendo. Seth Godin, uno dei più affermati guru della comunicazione, ha scritto nel suo saggio “Siamo tutti strambi” già nel 2011: “Migliaia di uomini di marketing (e le loro marche) con in testa soltanto la televisione sono paralizzati e disorientati perché dipendono dalla massa, ma la massa non c’è più… La riprova è che oltre il 60% del fatturato della seconda agenzia di pubblicità del mondo (il Gruppo Omnicom) proviene da attività diverse dalla pubblicità televisiva. Game Over.”.

Concetto più di recente ribadito da Patrick Goldstein, autorevole firma del Los Angeles Times: “Oggi siamo una nazione di nicchie. Esistono ancora film blockbuster, programmi televisivi di successo, e CD che vendono bene, ma sono sempre meno gli esempi di eventi che catturano lo spirito della cultura popolare condivisa. L’azione è altrove: il paese guarda la tv via cavo o legge blog rivolti ad un pubblico specifico”.

In una lectio magistralis del 2010, avevo condensato il tutto in questo aforisma: Il Peak Time diventa My Time. Incurante dei Godin e dei Goldstein, il pachiderma Rai continua a muoversi con una pesantissima e pur comprensibile inerzia televisiva, per di più con programmi da molti anni uguali a se stessi. Anche in termini di Servizio Pubblico ci sono stati veri e propri delitti, come l’eccessiva insistenza su crimini efferati (non si contano le puntate di Porta a Porta su Cogne!) o quelle terribili trasmissioni sui piccoli cantanti che imitano in maniera grottesca gli adulti, per pura ricerca di una facile audience. Quanta soddisfazione nel leggere che la nuova dirigenza ha già deciso di por fine all’abuso della cronaca nera e di eliminare i programmi con i piccoli mostri, che sono semplicemente diseducativi, sia per figli che per i genitori.

Quanto alla missione di Servizio Pubblico, consiglierei di non buttare via un altro bel lavoro che il nostro CdA fece in una lunga riunione milanese, cercando di riscrivere per punti la missione della Rai. Al primo punto fu scritto: “Elevare il senso critico del paese”. Ogni programma, ogni progetto dovrebbe tendere a questa aspirazione. L’unico motivo per cui si giustifica il canone.

Quanto al nuovo corso, le prime indicazioni che si intravvedono paiono buone, e ovviamente tanto lavoro attende i nuovi amministratori, sapendo che un treno così pesante e complesso non si rimette in moto cambiandogli destinazione in poco tempo. Visto che è stato detto, occorre però riflettere accuratamente su questa faccenda del ringiovanire le reti. Auspicare di intercettare il pubblico dai 15 ai 35 anni è come auspicare un ossimoro. Attenzione: non è che la Rai non lo intercetta solo perché non ne è capace, non lo può intercettare perché questo cluster di popolazione semplicemente guarda sempre più raramente la televisione generalista.

Da quindici anni insegno Comunicazione Sociale in università ai ventiduenni. Ogni anno inizio sempre il corso con un sondaggio sulla dieta mediatica dei miei studenti. Ecco i risultati dell’ultimo, di pochi giorni fa (e non molto diverso dai precedenti): su 70 studenti, il 100% sta su internet, il 100% tiene una radio accesa in sottofondo, il 15% guarda una pay-tv (Sky, Mediaset Premium, Netflix) lo 0,5% guarda la tv generalista. Nessuno legge un quotidiano cartaceo, solo alcuni un quotidiano on line, tutti si informano ascoltando i brevi notiziari radiofonici all’ora e leggendo soprattutto le breaking news inviate sul cellulare dai provider telefonici. Fatto molto importante, per fruire dei contenuti sui social network come Facebook o Youtube, usano il computer al massimo per un’ora al giorno, perché per dieci o dodici ore e anche più usano il cellulare. Certo è un campione piccolo, ma ho già parlato con diversi colleghi che mi confermano questi dati. Per maggiore attendibilità somministreremo il questionario in tante altre Facoltà, e ben presto disporremo di una ricerca sui 20-25enni fatta su una base statisticamente assai significativa di molte migliaia di studenti. Sono informazioni che gli editori della carta stampata ben conoscono, e che stanno facendo venire i capelli bianchi a molti manager.

Quindi occorre fare molta attenzione a non fare sforzi inutilmente pericolosi nel tentativo di andare a cercare un pubblico che sulla tv generalista non c’è quasi più, almeno in misura significativa e anche utile per la pubblicità. E’ noto che lo zoccolo duro dei telespettatori della Rai è nel cluster degli ultrassessantacinquenni, per di più concentrati al sud e con una scolarità molto bassa. Solo Raitre scende a 55 anni. Sarebbe quindi già un bel traguardo ringiovanire la tv riuscendo ad allargare stabilmente la platea ai quarantenni, che oltretutto sono un target commerciale molto interessante, visto che la Rai non vive di solo canone. Anche perché non sono operazioni facili: si contano sulle dita di una sola mano le fiction che piacciono ad una ampia fascia di spettatori: Montalbano, Una grande famiglia, Braccialetti Rossi, la soap Un posto al Sole. Con operazioni di ringiovanimento troppo drastiche si rischia di perdere il pubblico anziano (quello che gli americani hanno battezzato couch potatoes, le patate sul divano) senza conquistarne di giovane in numero sufficiente, come nel caso della fiction “Tutti pazzi per amore“, che infatti è stata chiusa nonostante fosse un buon prodotto, ma perché era troppo “giovane”.

Questo non significa che la Rai debba dimenticarsi dei giovani.

Perché il modo per raggiungerli c’è, ed è pure coerente con l’obbiettivo di fare dell’azienda di Servizio Pubblico un polo multimediale: è il web.

Ma non è che non ci abbiamo provato. Dico “ci abbiamo”, perché oltre a contribuire a disegnare gli asset dei nuovi media come consigliere, ero riuscito in 5 anni (dal 2003 al 2008) a mettere le basi dell’ambìto polo multimediale, che però è stato di recente pure smantellato.

Sto parlando della società partecipata Rainet, aperta dal nostro CdA nel 1999, ma che nel 2003 ancora boccheggiava, perché i programmi e le redazioni interessati al web si facevano i loro sitarelli, ciascuno rivolgendosi ad una società esterna di fiducia. Il che aveva fatto crescere pure una foresta di software di gestione diversi, che inoltre non dialogavano tra loro.

Avevo già terminato da un anno il mio mandato da consigliere, e dopo molte insistenze, per pura disperazione di quelli che avevo sfinito, fui nominato A.D. di una scatola quasi vuota, credo anche perché non c’erano da distribuire posti per soubrette, giravano pochi soldi, e soprattutto nessuno aveva la minima idea di cosa si trattasse.

Quindi niente potere, e solo tanti problemi da risolvere.

Riuscii con molta fatica a costruire un hub di eccellenza, soprannominato ben presto “il sottomarino tutto rosa“, perché ci mancava poco che dovessimo rubare i computer e persino il personale per lavorare, in un ambiente ostile perché del tutto tv-oriented.

Senza nemmeno una delibera consiliare di indirizzo, dopo aver costruito qualche case-history di successo, da un certo momento in poi si sviluppò un movimento centripeto: tutti volevano venire a farsi fare il sito da Rainet. Appena arrivato dall’America, Gianni Riotta mi chiamò subito per rifare il sito del Tg1. Ma occorre ricordare che fino a poco tempo prima i suoi colleghi direttori non volevano scrivere l’indirizzo web sotto la testata perché dicevano che gli sporcava il logo!

In cinque anni siamo riusciti a gestire poi centralmente 450 siti, con un aumento di utenti unici del 500%; al momento di lasciare, nel 2008, avevo già messo in piedi un altro portale oltre a Rai.it, chiamato Rai.tv, con sette canali di web tv e oltre 30 milioni di video caricati dalle Teche. Non c’era un motivo al mondo per chiudere quella società, come invece è poi avvenuto. Last but not least, oltre che a costituire un centro di eccellenza, come società partecipata consentiva pure un risparmio fiscale. E il personale specializzato che avevamo faticosamente riunito e formato è stato così disperso nel corpaccione della Rai.

La morale di questa storia fa capire che se non si torna a quel modello, potenziandolo, non se ne verrà mai fuori.

Nel 2006 feci un secondo giro in Europa, trovando solide conferme alle mie intuizioni, in particolare alla BBC e a France Television Interactive. Ricordo le precise parole del direttore Laurent Souloumiac: “Se non ti lasciano fare quello che mi stai raccontando, non ci riuscirete mai. Perché tutti in Europa facciamo così”. Infatti “tutti” avevano già un hub di professionisti specializzati, tutti avevano server dedicati e computer potenti, tutti stavano già creando una programmazione ad hoc per il web, mentre noi avevamo uno sparuto gruppetto di specialisti dell’informatica, del lavoro editoriale e giornalistico, e molti bravi precari da far turnare in continuazione.

Dal punto di vista tecnico, computer qualunque, e pochi modesti server alloggiati in una cantina di via Teulada, raffreddati con un piccolo pinguino De Longhi, protetti da una porta di legno come quelle dei fienili, con una vecchia chiave di ferro battuto…Chiunque avrebbe potuto entrarci e manometterli. Mentre, a titolo di esempio, i server di Repubblica.it stavano e stanno – come quelli della BBC – in una struttura attrezzata e supercondizionata alle porte di Milano, blindata e addirittura a prova di missile!

Dovevamo inoltre combattere ogni giorno con una mentalità in voga tutt’ora: la radicata convinzione che le attività sul web debbano soprattutto portare pubblico alla tv generalista.

Ho un altro curioso aneddoto che fa capire l’andazzo complessivo: nel 2006 ci venne in mente che sarebbe stata una bella innovazione mettere sul sito Rai.it le clip delle canzoni di Sanremo e poi farle votare anche in differita dal pubblico. Ne parlammo con la Divisione Produzione (4500 dipendenti) che ci chiese sei mesi di tempo per uno studio di fattibilità e un costo per Rainet esorbitante (sic).  Ma non ci demmo per vinti: secondo le abitudini un po’ corsare del nostro sottomarino tutto rosa, realizzammo in casa in pochi giorni un piccolo accrocco hardware/software, che ci permetteva di catturare il segnale da un normale televisore e inviarlo ad un computer. L’operatore doveva solo cliccare all’inizio e alla fine della canzone, che un secondo dopo appariva sul sito di Sanremo pronta per essere votata.

Violando tutte le normative aziendali sull’uso del segnale tv, ottenemmo un successo tale che i nostri poveri server andarono in tilt diverse volte per qualche minuto.

Un semplice, basilare esempio di sfruttamento parallelo dei contenuti su media diversi, che ci permise di raggiungere proprio il pubblico più giovane ma nella forma a lui gradita. Niente di più rischioso cercare di inseguirlo sulle reti generaliste. Primo, perché, come già ribadito, oramai fino ai 35 anni almeno, la tv generalista non la guardano quasi più. Secondo perché il mezzo che usano di più i giovani anche per guardare i contenuti audiovisivi è il cellulare. Un mezzo compatibile solo con storie corte, girate con campi stretti, dialoghi brevi e fulminanti, mezzi digitali poco costosi. Da un lato c’è il problema che i giovani non riescono più a concentrarsi per troppo tempo (ecco un altro motivo a giustificazione dei formati brevi), dall’altro c’è una questione di carattere squisitamente industriale: se si realizzano contenuti apposta per il web, è ovvio che non possano essere realizzati con i costosi mezzi con cui si realizzano le fiction, che sono poi quelli del grande cinema. Anche perché, purtroppo, è sempre più valido l’aforisma americano che dice: “I dollari sulla tv diventano centesimi su internet“.

Ragionando anche su questo punto la Rai può trovare particolare giustificazione del canone come qualcuno ha detto, e con molta ragione. Davvero il web può essere il maestro Manzi di oggi, che parli ai giovani, basta però non aspettarsi particolari ritorni pubblicitari.

Ma allora bisogna essere capaci di creare contenuti studiati appositamente, che non siano frutto degli avanzi della produzione televisiva, meglio piuttosto se pensati in sinergia, e svincolati dall’idea che debbano solo servire a promuovere i programmi tv. Tutto questo richiede un ripensamento organizzativo, industriale, produttivo, autorale. Avevamo già cominciato a farlo, poi è successo quello che è successo, grazie a vertici che non avevano nemmeno il sospetto di come stesse mutando il contesto della comunicazione.

Ma il modello, che aveva dimostrato di funzionare in un contesto difficile per non dire ostile, può essere ripreso con maggiore fortuna, perché oggi la situazione è diversa.

Intanto cominciano a esserci società di produzione che hanno capito come essere “in sincrono” con le modalità di fruizione del pubblico giovane: come non citare, a titolo di esempio, “Il Candidato” e le web serie di Cross Production?

E poi va detto che oggi ai posti di comando della Rai ci sono manager esperti della materia che hanno a portata di mano una occasione unica. Molto difficile, ma unica. Come li invidio…

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