Ben oltre la “riproducibilità tecnica” dell’opera d’arte e le sue conseguenze secondo Walter Benjamin, come la “perdita dell’aura”, oggi l’arte sembra sottrarsi alla stessa mano dell’uomo, con sempre più sofisticati software, reti neurali capaci di generare immagini e contenuti anche di alta qualità, e altri tipi di creazioni artistiche, che rivelano capacità di percezione, rielaborazione e finanche immaginazione. Creatività umana e algoritmi, saperi umanistici e scientifici, dialogano nelle sperimentazioni artistiche che coinvolgono l’IA, dove nel migliore e più auspicabile dei casi artisti e programmi “collaborano”. Resta un dibattito aperto se si tratti di vera arte, ma nel caso dell’arte contemporanea questi dubbi vengono spesso sollevati anche verso creazioni dell’uomo. E certo è significativo il fatto che creazioni di valore prodotte da Intelligenze Artificiali siano messe in mostra o circolino nel mercato dell’arte.
Tra le espressioni artistiche resilienti a questa deriva del contemporaneo – che non necessariamente rappresenterà il futuro dell’arte come già non ne esaurisce il presente – e anzi generative, seppure ancora forse poco comprese dal grande pubblico, c’è la Performing art. Che si traduce in manifestazioni transitorie, a volte fortemente impattanti o scioccanti, in cui gli artisti si mettono in gioco con il proprio corpo, la propria voce, davanti ad altre persone, spesso coinvolgendole e attraendole fin nell’interno della performance stessa. Le stesse Fiere dell’Arte e manifestazioni come le Biennali dedicano intere sezioni alla Performance, come ha fatto Arte Fiera a Bologna lo scorso febbraio, quale forma creativa capace, anche, di intervenire nella società stimolando il pensiero critico. Si potrebbe forse dire che la Performing art incarni due dimensioni essenziali del contemporaneo: con la sua transitorietà l’ineffabilità verso cui spesso muovo oggi l’oggetto artistico, e nella sua ricerca dell’incontro con il pubblico la rivalutata relazione, riconosciuto fulcro di una comunicazione autentica e umana.
Frammenti (Fragments of Being, 2011-2023) è una performance che la Performance artist Daniela Beltrani ha concettualizzato e realizzato per la prima volta nel 2011 in Malesia, a Singapore, e che ha riproposto a Roma sabato scorso al pubblico presente al Finissage de “L’addio della Duchessa” di Antonia Di Giulio, a Spazio all’arte di Capitolium Art , nell’ambito della Rome Art Week.
Come spiega la performer, “l’intenzione artistica è la condivisione sensibile del concetto di illusorietà di unità e fissità dell’essere. Uno specchio viene frantumato per rivelare i nostri mille volti e ricostruito imperfettamente sul mio viso”. E i visitatori sono stati singolarmente invitati, ad uno ad uno, a specchiarsi, prima nello specchio integro, poi nel viso dell’artista, reagendo in modo diverso alla sollecitazione.
Protagonista di “Frammenti” anche il tempo, o meglio la sua dilatazione. Chi vi ha assistito è stato invitato alla pazienza, a rallentare quel frenetico ritmo di vita che ben conosciamo per recuperare una dimensione puramente sensibile, e sensoriale, prima ancora dell’intervento di qualsiasi elaborazione intellettuale o bagaglio culturale. La performance sarebbe durata venti minuti e più, perché, spiega ancora l’Artista, “la performance art è poesia in azione, un’occasione artistica per dilatare il presente e viverlo in piena, presente consapevolezza. È un’arte smaterializzata che sfugge alle dinamiche consumiste della nostra società. È l’arte dell’incontro per eccellenza, essenzialmente relazionale ed effimera come le nostre vite. Un incontro indubbiamente diretto e immediato, poiché è un incontro con la nostra essenziale umanità”.
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L’esibizione di Daniela Beltrami è stata di passaggio in Via delle Mantellate 14b. La mostra “L’addio della Duchessa”, con le grandi tele di Antonia Di Giulio e le fotografie di Mario Schifano, resta visitabile a Spazio all’Arte fino al 14 novembre, dalle 10.00 alle 13.30 e dalle 14,30 alle 19.00.