Se ne parla da molti mesi, se non da anni, ed evocare un gigante del business mediale qual è “Netflix” (oltre 20 miliardi di dollari Usa il fatturato 2019) produce meccanicamente una ricaduta comunicazionale importante: auspicare e teorizzare, poi, una “Netflix italiana” stimola un senso di orgoglio nazionale, di riscatto italico rispetto alle logiche della globalizzazione planetaria… Se, poi, si prospetta una “Netflix della cultura italiana”, si raggiunge con entusiasmo il picco delle belle intenzioni.
La prima sortita in questa prospettiva risale al Governo Conte 1, allorquando l’allora titolare del Ministero del Lavoro e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, in un intervento sul “Blog delle Stelle”, il 1° luglio 2018, scriveva (profetico?!): “come ministro dello sviluppo economico con delega alle telecomunicazioni, dico che è tempo che in Italia si inizi ad anticipare il futuro e a fare investimenti che vanno nell’ottica delle nuove tecnologie e non di quelle vecchie…Se la prossima Netflix sarà italiana dipende dagli investimenti che facciamo oggi. Penso a dare un’opportunità alle giovani imprese che si occupano della creazione di nuovi format e di contenuti multimediali, a quelle che realizzano applicazioni in questo settore, a quelle che inventano da zero nuove tecnologie. In definitiva, a stimolare creatività e competenze tecnologiche in questi ambiti… Se riusciremo anche a sviluppare delle piattaforme italiane che hanno successo mondiale sarà un ritorno incredibile su tantissimi fronti. Su questo devono interrogarsi anche le grandi aziende culturali del Paese, in primis Rai e Mediaset”.
Non ci risulta che l’auspicio – evocato retoricamente – abbia avuto seguito…
Come spesso accade, in Italia quasi sempre, il passaggio dalla “teoria” alla “pratica” evidenzia l’esistenza di un mare di criticità, anzi di un oceano di problematiche.
In questi giorni, stanno trapelando indiscrezioni giornalistiche che segnalano non soltanto una trattativa tra Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (Mibact), ma un’intrapresa quasi formalmente avviata, tra Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e la piattaforma italiana di video “on demand” Chili Tv. Ricordiamo che, durante l’edizione del 18 aprile 2020 della trasmissione televisiva “Aspettando le parole” (condotta da Massimo Gramellini su Rai3), il titolare del dicastero Dario Franceschini annunciava, in pieno “lockdown”: “stiamo ragionando sulla creazione di una piattaforma italiana che consenta di offrire a tutto il mondo la cultura italiana a pagamento, una sorta di Netflix della cultura, che può servire in questa fase di emergenza per offrire i contenuti culturali con un’altra modalità, ma sono convinto che l’offerta online continuerà anche dopo: per esempio, ci sarà chi vorrà seguire la prima della Scala in teatro e chi preferirà farlo, pagando, restando a casa…”.
Franceschini: 10 milioni per la piattaforma digitale per la cultura italiana
Sicuramente il Ministro ha deciso di assegnare 10 milioni di euro all’iniziativa, nell’economia del “Decreto Rilancio” (annunciato dal Presidente Giuseppe Conte il 13 maggio 2020, all’articolo 187-quater, “Misure per il settore cultura”, c’era anche la “piattaforma”; si ricordi che il decreto constava di 464 pagine, per 256 articoli, e metteva in moto risorse per 55 miliardi di euro…) per “la piattaforma digitale per la cultura italiana”. Questo il testo: “al di fine di sostenere la ripresa delle attività culturali, il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo realizza una piattaforma digitale per la fruizione del patrimonio culturale e di spettacoli, anche mediante la partecipazione dell’Istituto nazionale di promozione di cui all’articolo 1, comma 826, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, che può coinvolgere altri soggetti pubblici e privati” (l’“Istituto Nazionale di Promozione” è di fatto Cassa Depositi e Prestiti).
Dichiarava il Ministro il 10 luglio 2020: “tutto ciò che permette di allargare il pubblico, aumentando l’offerta a pagamento live on line, aiuta gli artisti e gli autori nel periodo dell’emergenza e in prospettiva garantisce di raggiungere potenziali spettatori in tutto il mondo. Una piattaforma che possa offrire in abbonamento o a singolo evento offra tutta la cultura italiana, dalla musica al teatro, dal cinema alle visite virtuali dei musei, ha delle potenzialità enormi ed è una bella sfida…”.
La decisione veniva così rivendicata, più recentemente, in un’intervista a Franceschini del 14 novembre 2020 al quotidiano “il Riformista”, a firma di Umberto De Giovannangeli: “per questo stiamo investendo per rendere possibile il godimento di una mostra, di un museo, di una rappresentazione teatrale o di un concerto pienamente compatibile con l’esigenza di ridurre al minimo i contatti sociali e la mobilità. La piattaforma digitale per la promozione della cultura italiana ha esattamente questo obiettivo. È la prima volta nella storia dell’umanità che la cultura ha potenzialmente la possibilità di raggiungere il pubblico nel corso di un’epidemia. E questo tipo di funzione, si badi bene, non vuole essere sostitutiva, ma complementare a una partecipazione dal vivo”.
La conferma di una trattativa è stata data dal quotidiano romano “il Messaggero” nell’edizione di venerdì 17 novembre (pag. 19), firmato “R. Dim.” (ovvero Rosario Dimito), dal titolo “Via Goito e Chili danno il via alla Neflix della cultura italiana”, che segnala la costituzione (avvenuta o imminente) di una “newco”, di cui sarebbero azionisti Cassa Depositi e Prestiti con una quota del 51 % e Chili Tv con una quota del 49 %, partner che apporterebbero (tra “cash” e “know-how”) 9 milioni di euro ognuno, a fronte del Ministero della Cultura che apporterebbe – non è dato sapere in che forma (e con che ruolo, se non di “regista”? ma andando a sedersi nel Cda della novella impresa?!) – 10 milioni di euro.
Cdp e Chili, il gigante e il topolino?!
Una strana alleanza, tra un gigante ed un topolino, un “player” da decine di miliardi di euro ed un “player” da decine di milioni di euro…
Basti ricordare che il Gruppo Cdp (controllato per l’83 % dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, per il 16 % dalle Fondazioni Bancarie, e per un 1 % con azioni proprie), secondo il bilancio 2019 approvato a fine aprile 2020, ha mobilitato risorse per 34,6 miliardi di euro, con un utile netto consolidato a 3,4 miliardi di euro. Gli uomini-chiave sono Giovanni Gorno Tempini, Presidente, e Fabrizio Palermo, Amministratore Delegato.
Secondo queste anticipazioni giornalistiche, la piattaforma avrà come obiettivo quello di distribuire in “streaming” tutta la cultura e l’arte italiana nel mondo (!!!): dagli scavi di Pompei al Palio di Siena, da Capodimonte alla Mostra del Cinema di Venezia, dai musei e le mostre di arte al teatro, ai concerti, al cinema, passando per la “visual art”, le performance, gli Uffizi, la musica leggera, il turismo, l’opera, il balletto o il territorio: tutto con un sistema di “ticketing”, a cura di Chili (che già lo fa per i “film al cinema” o in “streaming”) per chi, ad esempio, voglia assistere alle opere o ai concerti al teatro alla Scala in presenza fisica o in “streaming” dall’estero, senza dimenticare la possibilità di acquistare “merchandising”, promozioni, “vouchering”…
Tutto molto bello. Sulla carta.
Non è stato mai pubblicato un bando, un avviso pubblico per verificare se sul mercato italiano vi fossero, vi siano, altri potenziali partner. E Chili Tv che valore aggiunto esclusivo può apportare?!
Si ricordi che Chili Tv è stata fondata da Stefano Parisi (già dirigente di Confindustria, ex candidato sindaco di Milano per il centro-destra) come “spin-off” di Fastweb, ed è nata con l’ambizione di diventare – in qualche modo – “l’alternativa italiana” a Netflix e Sky. Dal 2019, è entrata in partnership con Tim per ampliare il suo pubblico, ma ancora a settembre 2020 registrava l’ottavo bilancio consecutivo in perdita, oltre 19,5 milioni di euro, che sono andati a sommarsi al rosso pregresso di 52,5 milioni circa.
Si tratta di una piccola società, basta ricordare i dati essenziali di fatturato, che pure evidenziano un trend di crescita assolutamente positivo: meno di 2 milioni di euro nel 2013, saliti a 6,8 milioni nel 2015, raddoppiati a 13,2 nel 2017, e raddoppiati ancora nel 2018 raggiungendo quota 28,5 milioni, e 55 milioni di euro nell’anno 2019.
Si tratta di una impresa che naviga in acque incerte, in un mercato tutto da “guadagnarsi”.
Nel gennaio 2020, ha chiuso un aumento di capitale di 6,4 milioni di euro, sottoscritto da Negentropy Sicav (3,4 milioni di euro); Torino 1895 della Famiglia Lavazza (1 milione), che nel gennaio 2018 aveva investito 25 milioni di euro per il 25 %, Ferruccio Ferrara, Presidente di Negentropy Capital Partners (900 mila euro), il fondo Antares Private Equity (446mila euro), la lussemburghese Capsicum, emanazione del fondo Negentropy (273mila euro) e Investinchili, che raggruppa le quote di investitori privati (275mila euro). Tra i privati più noti, soci di Chili, segnaliamo Antonio Belloni, Direttore Generale di Lvmh nonché braccio destro del “patron” Bernard Arnault; Francesco Trapani, socio in Tages Holding, ex presidente di Clessidra Sgr; la famiglia del Ceo di Illimity, Corrado Passera; e la Famiglia Chiarva, ex proprietaria di Stella-Jones Inc.. All’aumento di capitale, non hanno partecipato Brace srl, la holding che fa capo a Stefano Parisi e Giorgio Tacchia (co-fondatore ed Amministratore Delegato di Chili Tv), che prima dell’aumento aveva il 30 % della società, né i soci di minoranza 20th Century Fox, Warner Bros, Viacom-Paramount e Sony Pictures Entertainment. L’ultima “major” ad essere entrata nella società, nel marzo del 2019, è stata la 20th Century Fox (multinazionale poi passata sotto il controllo di Disney) con una quota del 4 % del capitale, sborsando circa 6 milioni di euro.
Che nel capitale sociale di Chili Tv siano presenti alcune “major” evidenzia che non stiamo comunque trattando di una intrapresa velleitaria, ma, semmai, visionaria. Molto visionaria. E quindi molto rischiosa.
Nell’aprile del 2019, le “major” avevano quote per 17,2 % del capitale (Warner Bros 4,6 %, Paramount/Viacom 4,6 %, Fox / Disney 4,6 %, Sony 3,3 %), a fronte della Famiglia Lavazza con il 19,4 %, investitori finanziari con il 35,8 % ed il management con il 27,6 %.
La piattaforma vantava 2,5 milioni di “clienti “registrati” a metà anno, e puntava a 4,1 milioni per fine anno. Chili è presente anche in altri Paesi, a parte l’Italia: Germania, Regno Unito, Austria, Polonia…
Vera verità o bolla di sapone?!
Lo “scoop” dell’accordo formale tra Cdp e Chili Tv va attribuito ad una delle firme storiche del Gruppo Class, ovvero a Claudio Plazzotta, che, sull’edizione odierna (1° dicembre 2020) del quotidiano economico-finanziario “Italia Oggi”, segnala che la società sarebbe stata costituita de facto, seppur non ancora di fronte al notaio: il placet da parte del Consiglio di Amministrazione di Cdp ci sarebbe stato giovedì 26 novembre.
Va però segnalato che curiosamente non esiste alcun comunicato ufficiale, né da parte di Cdp né da parte di Chili Tv.
Alcuni sostengono che si sarebbe trattato di una accelerazione “mediatica” promossa da Chili Tv, altri malignano che si tratterebbe di una bolla di sapone, di un castello di carte, di un fuoco d’artificio.
Lo scenario complessivo, tra cinema ed audiovisivo, digitale e spettacolo dal vivo
Che la pandemia abbia costretto tutti a ri-ragionare sulle modalità tradizionali e storiche di fruizione della cultura – tra cinema ed audiovisivo e spettacolo dal vivo (teatro, musica, danza…) – è ormai evidente, e basti pensare alla mutazione che sta vivendo il ricco tessuto dei festival italiani, che hanno nei mesi scorsi spesso dimostrato la capacità di re-inventarsi (sarebbe preziosa una ricerca su questo tema culturologico).
Che si sia convinti che il web possa essere il luogo per eccellenza del miglior incontro tra domanda ed offerta e che quindi anche la “cultura” possa trovare nell’economia digitale una sua forma di rigenerazione è già tesi che diviene più ardita (basti pensare al “caso Amazon”, che indiscutibilmente rende più agevole l’accesso alle merci, ma al tempo stesso determina la morte delle botteghe di prossimità): inoltre, se per quanto riguarda l’audiovisivo ovvero specificamente il cinematografo il passaggio dal “grande schermo” al “piccolo schermo” (o anche grandino, dato ormai monitor da 55 pollici sono alla portata di quasi tutti) può essere considerata una forma di fruizione parallela (secondo alcuni addirittura evolutiva, per la preziosità della comoda dimensione domestica), è arduo ragionare seriamente su una fruizione che non si caratterizzi per gli aspetti – fondamentali – della materialità, ovvero spazialità, presenza fisica, immagini e suoni e finanche odori. Il teatro via web è una forma espressiva altra rispetto al teatro in sala: ci si può arrampicare sugli specchi, ma si tratta di fruizioni radicalmente differenti, anche per la forma genetica del teatro, che prevede una fruizione collettiva, un palcoscenico, una platea, una multidimensionalità, una interazione (almeno potenziale) tra l’attore e lo spettatore. Ed altresì dicasi – forse a maggior ragione – per la lirica, la danza, la musica…
Accantonando ogni filosofeggiamento mediologico ed elucubrazione estetologica, è evidente che il digitale consente un accesso semplice e semplificato ad una massa enorme di potenziali fruitori, ma ricordiamo sempre che in Italia si stima che circa un quarto della popolazione non accede ad internet (come certifica Istat).
È evidente che, in caso di perdurante pandemia, il digitale possa consentire una sorta di fruizione minore, e possa anche provocare una forma di mantenimento di contatto “virtuale” (appunto) tra chi crea, organizza, offre spettacolo – anche spettacolo dal vivo – e la platea degli spettatori.
È altrettanto evidente che l’Italia è ricca di un patrimonio di belle arti, cose museali, patrimonio artistico, paesaggi e panorami che la rendono uno dei Paesi più belli del mondo, e la convergenza tra “i beni” e “le attività” culturali rappresenta senza dubbio un potenziale enorme di attrazione, culturale in sé e finanche turistica.
Date queste premesse, però, con quale logica si può pretendere di anche soltanto evocare ed emulare Netflix, che resta un caso unico al mondo, per capacità di “previsione scenaristica” (anzi, preveggenza!) di un mercato che, fino a qualche anno fa, era piccolo ed assai poco esplorato?!
Per lo studio più completo disponibile in italiano su Netflix, si rimanda al saggio curato da uno dei più qualificati studiosi di economia dei media, il professor Alberto Pasquale (insegna alla Bocconi ed alla Luiss), per i tipi della rivista del Centro Sperimentale di Cinematografia (Csc), “Bianco & Nero”, nell’edizione monografica “Neflix e oltre” (n. 594-595), maggio-dicembre 2019.
Differenti modelli di business: Netflix = “all can you eat” vs Chili “à la carte”
Anzitutto, va segnalato che il modello di business di Netflix è basato sul cosiddetto “svod”, acronimo che sta per “subscription video on demand”: si paga un abbonamento mensile per avere accesso ad un grande portafoglio di contenuti, alcuni dei quali in esclusiva sulla piattaforma (“content” originale sulla quale la piattaforma investe somme impressionanti, essendo divenuto nell’arco di pochi anni uno dei più grandi produttori dell’intero pianeta).
Sarà questo il “business model” della novella intrapresa, partenariato tra pubblico e privato?!
Per capirci – con metafora alimentare – Sky e Netflix operano in logica “all you can eat” (ti abboni e “mangi” quel che vuoi), mentre Chili Tv “à la carte” (paghi specificamente quel che vuoi vedere, nessun abbonamento, compri quel singolo titolo): si tratta di business radicalmente differenti. Sostanzialmente, si potrebbe sostenere che l’offerta di Chili Tv si pone come complementare a quella dei servizi “svod”.
Si ricordi che Netflix costa 7,99 euro al mese, che salgono a 15,99 per una offerta “premium”… Disney+ propone un abbonamento mensile a 6,99 euro… E sul mercato ci sono anche Now Tv (che consente di accedere all’offerta Sky senza decoder a 14,99 euro), TimVision (che offre programmi propri, ma anche a quelli di Now Tv e Disney+ per circa 30 euro al mese), Infinity di Mediaset (a 7,99 euro al mese)… E ci sono, ancora, Amazon Prime Video, Apple Tv, Google Play, Huawei Video, Rakuten Tv… Non è agevole, per l’utente finale, orientarsi.
Secondo stime di inizio anno, ai 5 milioni di abbonati di Sky Italia ed ai 2,2 milioni di abbonati Netflix, si affiancano i 2,5 milioni di “clienti registrati” di Chili Tv, i 2,2 milioni di Tim Vision, 1,5 milioni di Amazon Prime, i circa 500mila di Infinity ed altrettanti di Now Tv, ma si tratta di dati non certificati. E c’è una bella differenza – evidentemente – tra un “abbonato” ed un cliente “registrato”.
Quale sarà il “business model” della novella intrapresa italica?!
Non è dato sapere.
Trasparenza zero, opacità tanta, e – maligna qualcuno – annunci roboanti a fronte di grande confusione. Col rischio di farsi ridere dietro…
Quel che si sa, fino ad oggi, è che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (Mibact) apporta un investimento di 10 milioni di euro, ed entra come “regista” (?!) dell’iniziativa, che verrebbe affidata ad una partnership tra Cassa Depositi e Prestiti ed un operatore di un business specifico, qual è Chili Tv, ovvero una piattaforma di tipo “tvod”, acronimo che sta per “transactional video on demand” (cioè si paga, di volta in volta, per il noleggio digitale di un singolo prodotto).
E naturale sorge il primo quesito: perché un piccolo “player” come Chili Tv e non quel che sembrerebbe poter essere il partner naturale, ovvero Rai (attraverso RaiPlay o un’altra formula e finanche intrapresa)?!
Interrogazione parlamentare leghista: e perché non è stata coinvolta Rai / RaiPlay?!
Non a caso, non appena è apparsa la conferma della notizia della concreta progettualità tra Cassa Depositi e Prestiti e Chili Tv un qualche parlamentare ha immediatamente presentato, ieri 30 novembre, un atto di sindacato ispettivo, ovvero una interrogazione urgente. L’interrogazione n. 4-07662 ha un titolo esplicito e chiaro: “Interrogazione sull’idea del Ministro per i beni e le attività culturali e il turismo, Dario Franceschini, di creare una piattaforma italiana allo scopo di offrire a tutto il mondo la cultura italiana a pagamento, una sorta di Netflix della cultura”. È firmata dai leghisti Cristina Patelli, Angela Colmellere, Sara De Angelis, Germano Racchella, Luca Toccalini. I parlamentari segnalano che, al di là degli “annunci, non è stato reso disponibile alcun dettaglio aggiuntivo in merito alla proposta: non si sa, infatti, chi si stia occupando della creazione della piattaforma, a chi sia destinata, quanto costerà alle casse dello Stato in tutto, se davvero verranno utilizzati i soldi del Recovery Fund, chi ne curerà i contenuti, ma soprattutto non si conosce il punto di vista dei creatori dei contenuti culturali i quali, a leggere alcune reazioni, sembrano tutt’altro che entusiasti dell’idea”. I leghisti ricordano – sembra quasi con un pizzico di ironia! – che “in Italia esiste una società pubblica che si occupa di produzione, creazione e distribuzione di contenuti culturali e di intrattenimento; tale società si chiama Rai – Radiotelevisione italiana S.p.a., che è concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo in Italia ed il quinto gruppo televisivo d’Europa; all’interno dei servizi Rai, il 13 novembre 2019 ha debuttato nella sua nuova veste RaiPlay, un portale che secondo gli ultimi dati ha registrato numeri importanti: 4 mila titoli e migliaia di ore di visione, 600 documentari, 256 titoli di teatro, 300 di musica, film fiction e serie e contenuti per i ragazzi che sono stati raggiunti da almeno 23 milioni di persone, di cui almeno 16 milioni sono fidelizzati…”.
Non entriamo qui nel merito del successo o meno di Rai Play (le analisi portano a risultati controversi), ma indubbiamente sorge spontaneo il quesito: il Ministro Dario Franceschini ha affrontato la prospettiva “Netflix della cultura italica” con l’Amministratore Delegato Fabrizio Salini, come sarebbe stato assolutamente naturale?! Non è dato sapere, ma abbiamo ragione di ritenere che così non sia stato, anche perché ormai l’Ad di Viale Mazzini è inviso al Partito Democratico tutto, che sta procedendo alacre nel suo defenestramento.
Nessuna conferma, nessuna smentita… Franceschini rilancia: piattaforma europea?!
Nessuna conferma e nessuna smentita da Cassa Depositi e Prestiti e nemmeno da Chili Tv, e nemmeno dal Mibact.
Eppure oggi stesso, nel pomeriggio, il Ministro Dario Franceschini, in occasione del Consiglio informale dei Ministri della Cultura europei (svoltosi in videoconferenza sotto la presidenza del Ministro federale della Cultura della Repubblica Federale Tedesca, Monika Grütters), ha dichiarato: “L’Europa intera è il più grande produttore di contenuti culturali. In un contesto sempre più digitale, accelerato dalla pandemia, è venuto il momento di costruire una piattaforma comunitaria che offra la cultura europea on line. Noi l’abbiamo fatto in Italia, finanziando con 10 milioni di euro una piattaforma pubblica che partirà nei prossimi mesi, che offrirà tutta la cultura italiana on line: prosa, teatro, danza, musica, concerti. Ma è evidente che tutt’altra forza deriverebbe dalla scelta dell’Unione europea di costruire una piattaforma che offra la cultura europea, capace di farci confrontare con i giganti della rete”.
Bene, si rilancia alla grande. E precisa il Ministro, senza perplessità: “tutta la cultura italiana on line”. Oscuro permane però il “come”: con quali progettualità, con quali obiettivi concreti, con quali target, con quale modello di business, con quali alleanze pubblico-private?!
Dobbiamo forse attendere la risposta di Dario Franceschini all’interrogazione leghista di ieri, per fare luce nella nebbia?!
Quel che ci sembra evidente è che un ragionamento serio – basato su accurate analisi di scenario e studi di fattibilità realistici e, ancora, di un ragionamento di “strategia Paese” rispetto al sistema culturale nazionale – non sia stato sviluppato, perché una “Netflix italiana della cultura” promossa dal Mibact dovrebbe mettere intorno al tavolo anzitutto Rai, ma anche altri “big player” come Mediaset e Sky Italia e La7, nonché le associazioni imprenditoriali (dall’Anica all’Agis) e degli artisti ed autori (dalla Siae ai 100autori all’Anac), e molti altri protagonisti dei vari settori culturali e delle varie industrie creative… E non ci risulta che ciò sia avvenuto.
Auguriamoci quindi che non si tratti di annunci roboanti soltanto, o di piccole iniziative, velleitarie e discretamente confuse. Si resta in attesa degli auspicabili chiarimenti.