l'analisi

La “macchina che ha cambiato il mondo” si è fermata, ma va rilanciata in modo sistemico e in chiave europea

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In una generazione l’auto è stata trasformata da oggetto manifatturiero in scatola di servizi (e finanza) nel "grande passaggio" dall' endotermico all'elettrico con la leva dell’AI ma con una mutazione strutturale della mobilità oltre mercati individualizzanti e molecolari verso una "dematurazione incompiuta".

L’auto ha fatto la manifattura e “ha cambiato il mondo” – dicevano Womack, Jones e Roos negli anni ‘90 – e questa ha fatto l’Europa industriale in quattro generazioni in un fiume limaccioso di innovazioni elettromeccaniche e robotiche incardinate nel motore endotermico. Ora in una generazione l’auto è stata trasformata da oggetto manifatturiero in scatola di servizi (e finanza) nel “grande passaggio” dall’ endotermico all’elettrico con la leva dell’AI ma con una mutazione strutturale della mobilità oltre mercati individualizzanti e molecolari verso una “dematurazione incompiuta”.

Perché le batterie e il digitale hanno cambiato irreversibilmente il nostro modo di viaggiare imponendo un “core ibrido” che ha richiesto grandi investimenti da associare alla transizione verde altrimenti non realizzabile e che spinge verso i confini della “guida autonoma” con diversi modelli di business non più incardinati nella proprietà dell’auto.

Transizione dunque digitale e verde fino agli albori della “modernità attuale”, non completamente compresa né negli USA né in Europa ma ben compresa in Cina che ha investito 25 anni fa e ora ne raccoglie i frutti globali.

L’esperienza Tesla di Elon Musk è la versione “aggiornata” di questa transizione che ha spinto ad aggregazioni e delocalizzazioni dalla ricerca di mercati del lavoro a salari calanti e stati con regole ecologiche a maglie larghe (dal nord africa al Messico, dall’Europa dell’Est al Vietnam). Con azionisti in “fuga” dall’ auto che ha visto mercati calanti e Stati frenanti sugli incentivi dopo averci riversato fiumi di denaro pubblico che però non fanno decollare le vendite anche per assenza di infrastrutture.

Non ci siamo accorti di queste trasformazioni e abbiamo sottovalutato (soprattutto in Europa) le sfide tecnologiche e istituzionali necessarie a governare il cambiamento con visioni corte e in totale assenza di politiche industriali acconce da oltre 25 anni nonostante i segnali pur tardivi ma inequivocabili che nascondeva la “trappola del diesel gate” che indicava un ritardo culturale nonostante l’afflusso di sussidi oceanici all’industria e agli azionisti dell’auto in molteplici paesi europei, compresa la FIAT degli Agnelli.

Ad eccezione della GB che prima in Europa comprese l’avvio del ciclo calante dell’auto e le sue trasformazioni con Margaret Thatcher che ne avviò la ristrutturazione negli anni ‘80. Non vedemmo che la proprietà del mezzo veniva via via “sostituito” dall’affitto e che la mobilità diveniva un business eco-sistemico che richiedeva strategie industriali congiunte pubblico-privato e una visione “continentale” degli investimenti in R&S.

Non abbiamo voluto vedere la Cina che concentra oggi il 75% della produzione delle batterie globali ma in un processo durato 20 lunghi anni pensando che estetica ed efficienza tecnologica bastassero a tenerci a galla nella competizione globale. Nel 2008 in Europa si produceva il 32% dell’auto mondiale con la Cina al 4% mentre ora il “Dragone” è al 32% e noi al 17%. Le leadership e le visioni vestite da queste si sono rivelate “miopi” interessate alla sola remunerazione degli azionisti a breve e seguendo i flussi di disinvestimento con relative devastanti delocalizzazioni.

Si preparava una uscita dal settore lasciando gli Stati con il cerino in mano della disoccupazione crescente con una trasformazione epocale e montagne di incentivi inefficaci versati in oltre 25 anni ma mai tradotti in adeguate politiche di R&S con i 27 paesi UE anche in concorrenza tra loro nell’attrarre investimenti e investitori.

In Italia abbiamo visto la destrutturazione del settore con cessioni dei gioielli dalla Magneti Marelli in avanti e fino alla situazione attuale che data da oltre un decennio con fiumi di risorse a tamponare un settore in forte ristrutturazione con effetti di desertificazione industriale e conseguente ricorso sistematico alla rete di salvataggio della cassa integrazione in totale assenza di una politica industriale “manifatturiera” da allargare a servizi e infrastrutture innovative.

Azionisti “miopi” e manager “senza visione” come rivelato dal caso Tavares (anche con pervicace e arrogante irresponsabilità) hanno fatto il resto con le cadute in borsa e fuga dal settore con disinvestimenti non iniziati ieri con gli Elkann sfruttando opportunisticamente l’altra miopia – quella della politica – tra incompetenza e irresponsabilità.

Due miopie che si sono sommate dopo che i buoi erano ormai scappati dalla stalla e con la borsa. All’Europa il compito allora di ricomporre i cocci confidando che possa “compensare” almeno parte di quelle due miopie o almeno evitando di sommarle viste le derive sovraniste-populiste emergenti.

Perché le soluzioni di politica industriale riferiscono ad un eco-sistema europeo che lega inestricabilmente Germania, Francia e Italia con la Spagna ed altri paesi “produttori” perché la crisi dell’automotive è sistemica e impone soluzioni che siano altrettanto sistemiche sapendo che nel caso italiano (ma non meno tedesco o francese) che una importante fetta di export e del futuro industriale e manifatturiero di questi paesi si legano a questo settore e che va dunque “protetto” nel quadro della transizione verde con le flessibilità necessarie e risorse ed investimenti adeguati con “intelligenza e visione continentali” ricanalizzando risorse da settori non strategici come l’agricoltura e il turismo. Servono anche campioni europei certamente ma connessi alla foresta di filiere, reti ed ecosistemi di PMI che ne consentano efficienza e innovazione diffusa capace di alimentare una capacità competitiva globale.

Perché i rischi occupazionali da fusione vanno “compensati” con la crescita della foresta delle filiere e delle reti nazionali da supportare e accompagnare nella transizione 5.0, digitale ed ecologica. Perché solo questo perimetro di politica industriale potrà salvaguardare livelli occupazionali e capacità competitiva futura con una uscita dolce dal motore endotermico ossia in forme non distruttive e lungo logiche di “neutralità tecnologica”, ripartendo dal potenziale industriale che in Italia abbiamo e che va valorizzato connettendo stabilimenti ad aree industriali e ad una logistica infrastrutturale adeguata con forti politiche di formazione e riqualificazione del lavoro.

Al Governo la responsabilità di una strategia di politica industriale “negoziata” tra GigaFactory (Termoli per le batterie) e piattaforme di city-car (Pomigliano) saldando incentivi pubblici a occupazione, innovazione e formazione con Stellantis e “oltre”.

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