Si va verso la fiducia alla Commissione Ue: dentro FdI e fuori i Verdi
L’accordo tra le forze di maggioranza per il via libera alle valutazioni sui vicepresidenti della Commissione Ue lascia il tempo alla riflessione e a qualche accusa reciproca. Tutto sarà più chiaro al voto di fiducia sull’intera Commissione di mercoledì prossimo a Strasburgo, ma il quadro è già delineato: FdI, assieme ad altri di Ecr ma non il Pis polacco, voterà a favore del nuovo Esecutivo Ue, assieme a popolari (senza gli spagnoli acerrimi nemici dei socialisti e della loro esponente Teresa Ribera), i liberalie i socialisti, senza i francesi e probabilmente i tedeschi. Voteranno no i Patrioti, compresa la Lega, così come il M5S e Avs, assieme al loro gruppo The Left. Probabilmente sarà voto contrario o libero anche quello dei Verdi che sono i grandi esclusi da questa partita. Se a luglio si erano impegnati responsabilmente ad appoggiare Ursula von der Leyen nel voto di conferma alla proposta del Consiglio Ue e si erano visti riconosciuti una grande apertura da parte della leader tedesca trasposta anche nell’ampia parte dedicata alle politiche green dedicata nelle linee programmatiche, oggi sono stati tenuti fuori dal rinnovato Patto di coalizione.
L’Ue deve fare i conti non solo con i numeri dei seggi del Parlamento ma soprattutto con il colore dei Governi degli Stati membri e i Verdi non hanno alcun Capo di Stato o di Governo del loro schieramento. Al netto delle trattative, tra veti incrociati e minacce di crisi, si è tornati allo schema che il presidente del Ppe Manfred Weber aveva in mente prima delle Europee: portare a bordo la premier italiana Giorgia Meloni e FdI e sbarrare la strada ai Verdi, considerati un pericolo per l’industria e l’agricoltura. E questo è ciò che è successo, nonostante il co-presidente del gruppo dei conservatori Nicola Procaccini respinga l’idea di essere considerati parte della maggioranza von der Leyen, pur avendo ottenuto un vicepresidente esecutivo e pur apprestandosi a votare sì alla fiducia di mercoledì.
E nonostante socialisti e liberali abbiano fatto aggiungere alla valutazione di Raffele Fitto una dichiarazione in cui esplicitano di non condividere la scelta di von der Leyen di dare una vicepresidenza a Fitto. “Non c’è disponibilità della Lega a votare queta Commissione”, annuncia il capodelegazione della Lega Paolo Borchia, secondo cui il loro no non porrà problemi al Governo Meloni. Quanto ai socialisti nelle prossime settimane ci sarà una verifica interna della gestione della presidente Iratxe Garcìa Perez, rea secondo alcuni di aver portato a Bruxelles i problemi spagnoli. C’è malessere dai socialisti francesi e tedeschi che si apprestano a entrare in campagna elettorale in Germania. Insomma, la tensione per il momento non sembra calare e anzi sembra destinata ad accompagnare la nascita della nuova Commissione per le prossime settimane se non mesi.
Tensione nel Governo dopo la sentenza della Cpi su Netanyahu
La Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto per Benyamin Netanyahu e immediatamente si manifestano in Italia le divisioni tra maggioranza e opposizione sulla linea da seguire. Si percepisce anche un certo imbarazzo nel Governo che ora dovrà trovare una quadra sia sul piano interno che su quello europeo. Tanto è vero che due ministri di peso, quello della Difesa e quello degli Esteri, esprimono linee diverse; molto chiaro Guido Crosetto che, pur contestando politicamente la decisione, avverte: “Ritengo che la sentenza della Corte penale internazionale sia sbagliata” ma se Netanyahu e Gallant “venissero in Italia dovremmo arrestarli perché noi rispettiamo il diritto internazionale”. Assai più prudente si è mostrato Antonio Tajani. In sostanza, la sentenza del Cpi inserisce Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Gallant nell’elenco dei “most wanted” e l’Italia deve decidere se dare esecuzione all’eventuale arresto. Tajani prende tempo: “Noi sosteniamo la Cpi ricordando sempre che la Corte deve svolgere un ruolo giuridico e non un ruolo politico. Valuteremo insieme ai nostri alleati cosa fare e come interpretare questa decisione e come comportarci insieme su questa vicenda”, ha spiegato il Ministro.
Se il partito di Giorgia Meloni, al di là di Crosetto, resta prudentemente silenzioso c’è da registrare che la premier è sul lungo volo di ritorno da Buenos Aires. La decisione è complessa per il Governo perché sono ben 123 i Paesi che riconoscono la Corte penale internazionale, tra cui due dei cinque membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. L’Italia è stato uno dei primi Paesi a ratificarne lo Statuto. Non a caso l’Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri Josep Borrell ha ricordato che gli Stati dell’Ue sono “vincolati” a eseguire la sentenza della Corte. Ecco perché il Pd, tramite Peppe Provenzano, ha ricordato che “la Cpi è un’acquisizione fondamentale della giustizia internazionale, fondata sullo Statuto di Roma. L’Italia ha il dovere di rispettarla ma anche quello di adeguarsi alle sue decisioni”. Fuori dal coro Iv secondo cui una soluzione “non può essere raggiunta a colpi di mandati di cattura”. Tra tanta motivata prudenza ci pensa Matteo Salvini a gettare benzina sul fuoco con un attacco che non potrà essere ignorato dal Governo: è “una sentenza assurda, politica filo-islamica, che allontana una pace necessaria”.
Per sciogliere i nodi si va verso un vertice di maggioranza tra i leader
Servirà un vertice tra i leader di maggioranza per segnare il percorso della legge di bilancio in Parlamento. Tanti i temi aperti: dal taglio dell’Irpef alle pensioni, dalla flat tax per i dipendenti alla Rai. Alla premier il compito di provare a tirare le somme con gli alleati, sulla manovra e non solo, al suo ritorno dal Sud America, necessità che si fa plastica dopo lo slittamento dei tempi del decreto fiscale in Senato. Le votazioni partiranno lunedì e l’obiettivo, ha spiegato il Ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, è comunque quello di approdare in Aula mercoledì. Ma sul provvedimento, collegato alla legge di bilancio, si è registrato un braccio di ferro tra Lega ed FI sul taglio del canone. Sempre lunedì approderà in Aula della Camera il ddl concorrenza sul quale, invece, è stato trovato un compromesso sul tema dei buoni pasto.
Ad annunciare che nei prossimi giorni (probabilmente nel weekend o lunedì prima del Cdm) si terrà una riunione tra i leader è Antonio Tajani: “Ci vedremo presto con Meloni e Salvini per fare un quadro generale” fa sapere ribadendo i punti sui quali Fi chiede un intervento, taglio al 33% del secondo scaglione Irpef e ampliamento della platea, innalzamento delle pensioni minime, stop alla misura sui revisori del Mef e ripristino della soglia di fatturato sulla web tax. Così come il tema Rai: nel decreto fiscale è presente un emendamento della Lega che chiede di confermare l’abbassamento da 90 a 70 euro del canone, un punto sul quale il leader del Carroccio continua a insistere. E c’è chi parla addirittura di un possibile incrocio della vicenda con la richiesta di FI contenuta in un altro emendamento al fiscale: uno scudo penale per reati minori (l’omesso pagamento dell’Iva e delle ritenute e compensazione indebita) per chi ha regolarizzato la sua situazione fiscale.
Intanto le richieste della Lega si concretizzano anche negli emendamenti super-segnalati alla manovra. Tra gli altri quello sull’estensione a 50mila dei ricavi da dipendente sotto i quali si può accedere alla flat tax per le partite Iva. Ma anche gli ulteriori tre miliardi per il Ponte sullo stretto. Esce dalle richieste la proposta a firma Cesa per un bonus di 2mila euro per le scuole paritarie mentre Noi moderati segnala un fondo di 7,5 milioni per gli oratori. Non sono, tra l’altro, solo gli alleati di maggioranza ad avanzare richieste ma anche i ministeri: così il Ministro Paolo Zangrillo si augura che in Parlamento ci sia spazio per rivedere la stretta sul turn over della P.a. e quello della Salute Orazio Schillaci caldeggia l’ipotesi di una flat tax sull’indennità di specificità di medici e infermieri.
Il primo sì al ddl Salva-Milano spacca le opposizioni. M5S e Avs accusano il Pd
Via libera alla Camera al cosiddetto Salva Milano, la proposta di legge in materia di urbanistica e ristrutturazione edilizia, sia dalla maggioranza, compatta dopo mesi di riflessioni e tentativi di convergenza, sia da una parte consistente delle opposizioni. Ad affiancare il centrodestra nel voto favorevole sono il Partito Democratico, Azione, Italia Viva e +Europa. Si spacca così il campo largo che ha da poco trionfato in Umbria ed Emilia-Romagna. Da una parte, il Pd e i centristi schierati nel sostegno a una misura chiesta a gran voce dal sindaco di centrosinistra Beppe Sala, dall’altra, Avs e il M5S, fortemente contrari ai principi della riforma. I pentastellati attaccano i dem, sia nel merito che nel metodo: “Questo provvedimento nasce dall’inciucio delle destre con il Pd”, è la stilettata che il deputato 5s Agostino Santillo rivolge ai colleghi di opposizione nell’emiciclo di Montecitorio.
Accusa subito rispedita al mittente dai dem, che con Silvia Roggiani replicano: “Nessun inciucio con la destra, votiamo a favore perché il centrodestra è venuta sulla nostra posizione”. I toni del Movimento, però, si fanno più aspri di ora in ora e le bordate sono dirette soprattutto verso il Pd e il primo cittadino del capoluogo lombardo. Per i dem la pdl è “una norma interpretativa che dà certezza normativa e rilancia lo sviluppo urbanistico”. Roggiani respinge l’accusa di “condoni e sanatorie”, e spiega: “Abbiamo costruito l’emendamento insieme all’Anci, la casa di tutti gli italiani”. Anche il centrodestra sottolinea la “necessità” di un provvedimento volto a “superare il contrasto normativo” e a “sostenere cittadini e imprese”.
Dai governatori della Lega arriva un messaggio per Salvini: il nord prima di tutto
Prima il nord: è il grido che i governatori della Lega lanciano a Matteo Salvini. A esporsi sono Attilio Fontana e Luca Zaia, alla guida della Lombardia e del Veneto, che indicano le priorità e mettono a nudo tormenti e crepe che agitano da tempo il partito. Per Fontana, nella Lega “bisogna iniziare a mettere in considerazione il problema del nord” e insiste: “L’ho detto e lo ribadisco”. Stesso allarme dal governatore del Veneto: “La questione settentrionale è quanto mai attuale, anche perché del nord ci si occupa sempre meno”, ha detto Zaia alla platea più ristretta del consiglio federale della Lega, convocato due giorni dopo il flop delle regionali in Umbria ed Emilia-Romagna.
Tra i leghisti della vecchia guardia pesa il calo dei consensi, più smaccato proprio nelle roccaforti lombarda e veneta dove la Lega è ferma al 10, massimo 15%. Pesa pure la leadership salviniana, sempre più sott’accusa per aver trascurato l’anima più economica vicina alle imprese del nord, virando invece sul ponte sullo Stretto. Sono in molti a evidenziare come la creatura voluta al sud dal ministro dei Trasporti sia di fatto l’unico investimento chiesto dal partito nella legge di bilancio, con 3 miliardi in più. Di conseguenza, guai a perdere la regia del Veneto il prossimo anno, è l’altra denuncia dei leghisti più critici. A costo di sfidare il partito di Giorgia Meloni, ormai primo nel territorio, e correre da soli.
Lo dice esplicitamente Roberto Marcato, assessore allo Sviluppo economico in Veneto: “Non c’è alternativa a una presidenza leghista”. Marcato riconosce la supremazia elettorale di Fratelli d’Italia per cui “è assolutamente legittimo” che FdI rivendichi la presidenza del Veneto, ma è “altrettanto legittimo” per la Lega “data la presenza capillare di amministratori leghisti in tutto il territorio regionale”. Dunque, il Veneto, e in particolare il futuro di Zaia, restano i nodi più pericolosi per Salvini. Il segretario sa che un nuovo mandato del governatore è missione quasi impossibile per legge anche se gli risolverebbe più problemi, a partire dalla fronda nordista, che così verrebbe accontentata e quindi silenziata. In alternativa per lui ci sarebbero due piani B: l’offerta di un ministero, che Salvini potrebbe strappare agli alleati di governo, ammesso che incontrerebbe le ambizioni di Zaia; oppure la candidatura alla poltrona da sindaco di Venezia, dove si voterà tra il 2025 e il 26, lasciando a FdI il timone della regione. Ma su quest’opzione la proposta verrebbe con ogni probabilità considerata irricevibile.