Il Parlamento Ue da l’ok all’uso delle armi in Russia. Italiani contrari
L’uso delle armi inviate a Kiev in territorio russo allontana l’Italia dalla maggioranza all’Eurocamera. A Strasburgo la plenaria ha infatti dato via libera a un passaggio cruciale e ancora divisivo in Occidente, del supporto all’Ucraina trovando però le delegazioni italiane in larga parte contrarie. Fi, Fdi, Lega, Pd, M5S, Verdi e Sinistra, pur con numerosi distinguo, hanno votato contro il paragrafo 8 della risoluzione, relativo proprio all’uso delle armi contro obiettivi in Russia. Il voto è in linea con la posizione del Governo, tanto che è stato lo stesso ministro degli Esteri Antonio Tajani ad anticiparlo in mattinata. Sul testo finale di sostegno più generale all’Ucraina invece le delegazioni italiane si sono nettamente spaccate: i dem, gli azzurri e i meloniani si sono espressi a favore, mentre Lega, pentastellati e Verdi hanno nuovamente votato contro.
In attesa dei sì dei singoli Paesi, l’Eurocamera sul dossier ha fatto da avanguardia. Il paragrafo 8 della risoluzione “invita gli Stati membri a revocare immediatamente le restrizioni sull’uso delle armi occidentali consegnate all’Ucraina contro obiettivi militari legittimi sul territorio russo”. Ed è su questo paragrafo che gli eurodeputati italiani hanno votato in dissenso dalla maggioranza del Pe, e anche dai loro gruppi di appartenenza. Ma neanche al loro interno le delegazioni sono riuscite a mantenersi compatte. Nel Pd sono emersi tre correnti: Elisabetta Gualmini e Pina Picierno hanno votato a favore del paragrafo 8; 10 eurodeputati, incluso il capodelegazione Nicola Zingaretti, hanno votato contro, in linea con l’indicazione del partito; in 6 invece non hanno votato affatto, incluso Stefano Bonaccini. Giorgio Gori, assente, ha fatto sapere che avrebbe votato sì. Anche in Fi c’è stato dissenso: Giusi Princi e Massimiliano Salini, a dispetto del resto del gruppo, si sono espressi a favore dell’uso delle armi in territorio russo.
Sul tema sia il Pd sia Fi hanno votato in dissenso dai loro gruppi di appartenenza, Ppe e socialisti. Tanto che, alla fine il paragrafo 8 è passato con 377 voti a favore, 191 contrari e 51 astenuti, ed è stato votato perfino da una truppa di The Left, inclusa Carola Rackete. Contrari i Patrioti, mentre Ecr si è spaccata: i meloniani contrari, i polacchi del Pis a favore. Sul testo finale della risoluzione (che comprendeva anche l’articolo 8 ma manifestava nel complesso un sostegno più generale all’Ucraina) gli italiani sono invece tornati nei ranghi della maggioranza. Il Pd, con l’eccezione degli astenuti Cecilia Strada e Marco Tarquinio, Fi e Fdi hanno votato a favore del testo, Lega, M5s e Verdi hanno invece mantenuto una posizione fortemente anti-atlantista votando contro. La risoluzione ha incassato 425 voti a favore, 131 contrari e 63 astensioni, provocando l’ira di Mosca.
Meloni è al lavoro sul Cda Rai ma l’accordo ancora non c’è
Il 26 settembre, data in cui le Camere dovrebbero votare quattro membri del nuovo cda Rai, si avvicina ma l’intesa nella maggioranza e con le opposizioni non è ancora definita e resta in bilico la ratifica del futuro presidente in Commissione di Vigilanza. Il dossier è sempre sul tavolo di Giorgia Meloni, che vorrebbe chiudere la partita già la settimana prossima. Non sarà facile: l’apertura a una riforma della governance del servizio pubblico arrivata dai leader del centrodestra non sembra aver sbloccato la situazione. Le opposizioni prima di procedere alle nomine vogliono un impegno concreto sulle nuove norme di sistema e restano compatte nell’idea di votare solo un presidente di garanzia. Giuseppe Conte lo ha detto chiaramente: “Se ci fosse un presidente autorevole assolutamente non riconducibile a logiche partitiche certo che lo voteremmo, nell’interesse del servizio pubblico. Ma non mi sembra siano i nomi di cui si parla”, una chiusura neppure troppo velata a Simona Agnes, presidente in pectore in quota FI che secondo il segretario azzurro Antonio Tajani è ancora “il miglior candidato”.
Se il vicepremier insistesse sul suo nome, le opposizioni non parteciperebbero compatte al voto e alla maggioranza mancherebbero tre voti per ratificarne la nomina; è vero che l’uscita da Azione di Maria Stella Gelmini potrebbe essere d’aiuto, ma quest’ultima potrebbe dover lasciare la Commissione per rispetto della rappresentanza dei gruppi e comunque il suo voto non basterebbe. Tra i nomi di eventuali presidenti di garanzia resta in pole quello di Antonio Di Bella, ma in alternativa c’è l’ipotesi Gianni Minoli. La presidenza sembra essere lo scoglio più difficile da aggirare: per il resto, salvo sorprese, l’attuale dg Giampaolo Rossi dovrebbe essere il nuovo Ad (in quota FdI), mentre Camera e Senato eleggeranno quattro consiglieri (due per assemblea): uno in quota FdI (dovrebbe essere Valeria Falcone), uno indicato dalla Lega (che punterebbe su Alessandro Casarin o su Antonio Marano) e gli altri due appannaggio dell’opposizione (con M5S che confermerebbe Alessandro Di Majo e il Pd che invece resta in attesa di capire il quadro complessivo).
Draghi rilancia: la decarbonizzazione non ostacola la crescita
Mario Draghi sprona ancora l’Europa e lancia un messaggio molto chiaro al mondo produttivo: la decarbonizzazione è “fonte di crescita e non un ostacolo”. All’indomani dell’assemblea di Confindustria l’ex premier arriva a Bergamo, nel distretto dell’innovazione Kilometro Rosso, dove incontra moltissimi imprenditori, con in testa Alberto Bombasssei, fondatore di Brembo, e illustra il piano per la competitività dell’Europa. Nell’affrontare il tema della decarbonizzazione prende ad esempio il settore dell’automotive. È stato chiesto all’industria dell’auto di “rispettare alcuni obiettivi, ma non è stato chiesto lo stesso ai fornitori di energia che avrebbero dovuto realizzare le reti. E così ci ritroveremo con le auto elettriche ma senza una rete per la loro ricarica”, spiega tra gli applausi degli imprenditori nella sala. Ma c’è di più. Serve infatti un “piano europeo delle reti perché se questo non avverrà perderemo circa 40 volte l’energia che produciamo”.
Draghi affronta tutti i temi contenuti nelle pagine del suo piano e, sul tema degli investimenti, tiene a specificare che la stima degli 800 miliardi è stata fatta dalla Commissione Ue e dalla Bce guardando agli impegni già presi. Quindi non si tratta di “investimenti nuovi ma sono cose già approvate in molti casi dai parlamenti e quindi c’è già grande impegno politico per la realizzazione di questi obiettivi”. E proprio per riuscire a finanziare questa mole di investimenti è cruciale realizzare il “mercato unico dei capitali. È un tema di cui si parla da anni ma sono fiducioso che si andrà avanti”. Altro tema di primo piano è quello della competizione con Cina e Usa e i dazi. Il mondo della globalizzazione si è molto fratturato e la politica è “entrata negli scambi commerciali”, spiega l’ex premier. L’Europa sul fronte dell’interscambio è l’area più “aperta rispetto agli altri. Quando gli altri non rispettano le regole quelli più esposti siamo noi”; per questo non “possiamo erigere dei muri tariffari come fanno gli Stati Uniti. E questo perché noi siamo più esposti agli interscambi commerciali”.
Tajani mette i paletti sui nuovi possibili ingressi in Fi
L’uscita da Azione di quattro parlamentari contrari al campo largo è solo la punta dell’iceberg di una serie di movimenti, più o meno sotterranei, in atto al centro. L’ambizione di Fi, ribadita da Antonio Tajani, è occupare tutto lo spazio che va da FdI al Pd, un’area popolare e liberale capace di fare la differenza. La fine del terzo polo ha tolto di mezzo l’unico vero ostacolo al progetto degli azzurri e così, nei giorni in cui il partito apre le braccia ad altri due consiglieri capitolini, tra cui Rachele Mussolini (ex FdI), Tajani ammette che sono in corso interlocuzioni per nuovi ingressi anche a livello nazionale; tuttavia mette alcuni paletti: “Fi non è né un taxi né un albergo a ore, chi viene deve farlo per lavorare non per cercare un posto”. Una stoccata che non ha, ufficialmente, destinatari, ma che molti leggono come diretta principalmente a Mara Carfagna e Mariastella Gelmini, le due ex ministre forziste: uscite dal partito nel 2022 per abbracciare il progetto di Carlo Calenda, ora hanno detto addio anche a lui per incompatibilità con “il campo largo”.
Nonostante i rispettivi staff non confermino, entrambe (insieme a Giusy Versace) sarebbero in procinto di passare a Noi Moderati di Maurizio Lupi. Di più: secondo le ultime voci di corridoio, potrebbero diventare capigruppo alla Camera e al Senato. Ma allo stato nulla è ancora accaduto, e anzi Carfagna rimanda ogni annuncio alla prossima settimana: “Sul futuro prenderò le mie decisioni e di sicuro non verrà meno l’impegno con cui mi sono presentata agli elettori: rafforzare il centro moderato e mantenere saldi i valori liberali, europeisti, garantisti, popolari, contro ogni deriva estremista, rafforzando quell’area capace di guardare prima alle persone che alle ideologie”. È una risposta indiretta a Carlo Calenda che aveva puntato il dito contro le tre fuoriuscite (che hanno lasciato Az dopo Enrico Costa), ree, a suo dire, di aver “tradito il mandato elettorale” passando in maggioranza. Contro il leader di Azione punta il dito, invece, Matteo Renzi, che decreta ufficialmente la morte del centro “come spazio autonomo”.
È scontro sul maltempo in E-R. Musumeci accusa. Schlein parla di sciacallaggio
L’alluvione in Emilia-Romagna accende lo scontro politico con uno scambio di accuse tra maggioranza e opposizione. Da FdI l’attacco è diretto alla Regione governata dal centrosinistra che andrà al voto il 17 e 18 novembre: “Quanto sta accadendo in queste ore è spaventoso, inaccettabile, e per questo auspico che chi ha sbagliato paghi”, tuona la deputata Daniela Dondi, alla quale fanno eco la collega Alice Buonguerrieri e la senatrice FdI Marta Farolfi, che minacciano “esposti per accertare le responsabilità”. Per il deputato Mauro Malaguti, “la giunta regionale dell’E-R non ha imparato nemmeno la lezione del 2023, quando non spese nemmeno un terzo dei soldi stanziati per la prevenzione. Ora si dovrà anche assistere al teatrino delle opposizioni che lamenteranno scarsi fondi per gli alluvionati e scarsi rimborsi per i danni”.
Al fuoco di fila di FdI arriva una prima risposta in Aula dalle opposizioni che chiedono un’informativa della presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “Vorrei chiedere alla premier se si rimetterà ancora una volta gli stivali di gomma per andare a promettere soldi che non sono mai arrivati” dice in aula Angelo Bonelli (Avs), che rilancia: “Venga qui a dirci che cosa vuole fare, non vada da Confindustria a dire che il Green Deal e la transizione ecologica è un disastro. Siete voi un disastro che non guardate ai danni della crisi climatica”. A stretto giro replica il capogruppo FdI Tommaso Foti: “Non accettiamo speculazioni da parte di una sinistra che vuole attribuire colpe al Governo Meloni, perché il Governo ciò che doveva e poteva fare ha fatto e anche di più”; “Altre sono le responsabilità, e stanno a sinistra”, taglia corto, “non è il momento della polemica, ma è quello della verità contro la menzogna”.
Il Ministro della Protezione civile Nello Musumeci, in una conferenza stampa convocata a Palazzo Chigi per fare il punto sulla situazione, afferma che “il compito della prevenzione strutturale e infrastrutturale è di competenza delle Regioni”. A poco serve che assicuri l’intenzione di voler evitare polemiche “che qualcuno, magari sotto la spinta emotiva della prossima campagna elettorale per le prossime elezioni regionali, vorrebbe alimentare”. Al Ministro risponde la segretaria dem Elly Schlein: “Mentre gli amministratori hanno passato la notte a gestire l’emergenza, a organizzare soccorsi e sostenere la popolazione, la destra di Governo si è messa subito a fare sciacallaggio politico per fini elettorali”.