Meloni va in Africa ma la crisi in Medio Oriente fa slittare il Piano Mattei
Poche righe della Farnesina per annunciare che la Conferenza Italia-Africa, fortemente voluta dal governo Meloni, è stata spostata a un vago inizio dell’anno che verrà. La conferenza era in calendario a novembre, ma gli ultimi sviluppi geopolitici, in particolare la guerra che sta sconvolgendo il Medio Oriente con ricadute inevitabili a livello energetico, hanno consigliato l’Italia e i partner africani di procrastinare l’appuntamento che avrebbe inaugurato ufficialmente il Piano Mattei, cavallo di battaglia della premier da quando si è insediata a Palazzo Chigi. Lo slittamento della Conferenza non ha impedito alla presidente del Consiglio di volare in Congo e Mozambico, là dove l’Eni ha una sfera di operatività ai massimi livelli, e di portare avanti discorsi energetici intavolati da più di un anno. Non è neppure casuale che ad accompagnare Meloni nel suo blitz sia proprio Claudio Descalzi, l’amministratore delegato del Cane a sei zampe, manager che ha massime aderenze africane e totale conoscenza del territorio. Va da sé che il progetto di trasformare l’Italia in hub Mediterraneo del gas subirà un forte rallentamento perché negli ultimi mesi poche tessere del mosaico sono andate al loro posto.
Era già difficile prima, figurarsi adesso, la sintesi del pensiero di Descalzi, esplicitato alla festa dei 70 anni di Eni. Se la guerra Russa-Ucraina ha spinto fortemente verso il Piano Mattei, il conflitto che ha coinvolto Israele sta scombussolando tutte le strategie, non tanto perché Israele sia un nostro fornitore diretto (il gasdotto Leviathan non ci coinvolge, come nemmeno il giacimento di Tamar chiuso in via precauzionale) quanto per la situazione di instabilità che si è venuta a creare nell’area mediorientale, per le relazioni con i paesi arabi, per la posizione assunta dall’Algeria pro Gaza, per la necessità di Tel Aviv di cercare altre forme di carburanti alternative. La summa di queste anomalie non può che allarmare, al punto che la premier si è detta preoccupata per uno shock energetico destinato a rendere ancora più delicata la gestione dei prezzi di gas e petrolio. Il Piano Mattei non può più essere una priorità ma non può neppure finire al fondo di un cassetto perché ha una sua valenza strategica per l’Italia e una sua bontà in termini di interessi nazionali. Evidentemente, però, alle porte dell’inverno le priorità sono altre. Rimane un punto, che rientra nel Piano ma che – alla bisogna – può anche essere ‘estratto’ dal Piano stesso. Sono i giacimenti di gas che ci sono in Italia, ancora non trivellati, bloccati da molti vincoli non solo ambientali.
Israele, Tajani: evitare una frattura tra Occidente e mondo arabo
Il pericolo maggiore, più imminente, “è quello di un allargamento del conflitto in Libano“, ma guardando più in là, nel lungo periodo, “si deve soprattutto evitare una frattura tra l’Occidente e il mondo arabo“. Lo sottolinea in una intervista alla Stampa il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che spiega come questa divisione “è esattamente quel che vuole Hamas. Vuole proseguire questa guerra per tagliare i ponti che si stavano costruendo tra il mondo arabo moderato e Israele. Noi dobbiamo lavorare nella direzione opposta”. Per Tajani occorre “isolare i terroristi. Dobbiamo far capire che c’è un popolo arabo diverso, che non ha niente a che fare con loro”. “Si deve tornare a lavorare alla soluzione dei ‘due popoli, due Stati’“, secondo il ministro. Una formula che molti analisti ritengono accantonata ma che secondo Tajani “domani mattina sarebbe inutile proporla, questo è chiaro. Ma quello dev’essere il nostro obiettivo. Io continuerò a lavorare in quella direzione”. Quanto ai rapporti con l’Algeria, principale fornitore di gas per l’Italia e vicino ad Hamas, Tajani chiarisce: “Ho parlato con il ministro algerino e continuiamo ad avere buoni rapporti. Dobbiamo far sì che non si creino divisioni tra l’Occidente e il mondo arabo. Conto molto, in questo senso, sul lavoro diplomatico che possono fare Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Marocco, Emirati Arabi, Turchia, Qatar“. Queste dichiarazioni fanno da preludio alla visita, prevista per oggi, dello stesso ministro Antonio Tajani in Israele che si aggiungerà a quelle già programmate da parte della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, della presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, della ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock e dell’omologa canadese, Melanie Joly.
Lunedì la manovra va in Cdm. I margini sono stretti
La guerra in Medio Oriente e il perimetro della manovra. Questi i dossier sul tavolo di palazzo Chigi durante la riunione di governo e di maggioranza terminata dopo mezzanotte. Le incognite sono tante, legate soprattutto al conflitto tra Israele e Hamas e tra la Russia e l’Ucraina. Nessun dubbio, però, è arrivato nell’incontro sul posizionamento del nostro Paese, che punta ad essere al fianco di Netanyahu e di Zelensky. L’Italia lavora alla de-escalation pur difendendo il diritto di Israele a difendersi. Ma la ferita aperta dopo l’attacco di Hamas porterà delle conseguenze, non solo dal punto di vista economico. Il timore è quello di una recrudescenza del terrorismo, pur non essendoci segnali di questo tipo. Per questo motivo i leader hanno concordato, si apprende, sulla necessità di rafforzare la sicurezza ma anche di investire maggiori fondi a sostegno di tutto il comparto. Del resto, Palazzo Chigi aveva annunciato che nel primo consiglio dei ministri arriverà un sostegno finanziario ad hoc. Previsto, dunque, un intervento, si vedrà se inserirlo nella legge di bilancio oppure in un altro provvedimento. Al momento gli spazi sulla manovra sono strettissimi, ma non solo per la maggioranza.
“I cordoni sono chiusi anche per la minoranza”, osserva un esponente delle forze che sostengono l’esecutivo. “Sarà – sottolineava ieri una nota di palazzo Chigi – una manovra seria che, nel quadro della sostenibilità della finanza pubblica, concentrerà la sua attenzione su redditi e pensioni medio bassi, sulla famiglia e sulla sanità, in continuità con il lavoro portato avanti dal governo fin dalla precedente legge di Bilancio”. Ogni proposta di modifica dovrà essere a saldi invariati, è il ‘refrain’ nell’esecutivo. La legge di bilancio punterà soprattutto sul cuneo fiscale tramite il coinvolgimento anche delle parti sociali che saranno ricevute nella sede del governo dai ministri Giorgetti, Urso e Calderone. L’obiettivo, infine, è di stringere i tempi, per non arrivare lunghi dopo Natale. Rinviate, invece, le discussioni sul salario minimo e sul Mes, e anche sulle riforme la ‘road map’ del governo è quella di iniziare il lavoro entro dicembre ma non in tempi brevissimi.
Il Cnel affossa il salario minimo. Spaccatura tra i sindacati
Il Cnel affossa il salario minimo la cui assemblea ha approvato a maggioranza il documento finale, che arriva entro i 60 giorni indicati dalla premier Giorgia Meloni. Contro hanno votato Cgil, Uil e Usb; Legacoop si è astenuta. In particolare, 62 (su 64) i componenti presenti: 39 i sì, 15 i no, mentre 8 consiglieri non hanno partecipato al voto. E intanto l’opposizione insorge. “Ringrazio il presidente Brunetta e tutti i consiglieri del Cnel per il puntuale e celere lavoro svolto” afferma invece Meloni. Dall’analisi tecnicaricevuta emerge che il mercato del lavoro italiano rispetta pienamente i parametri previsti dalla direttiva europea sul salario minimo adeguato. La contrattazione collettiva, al netto dei comparti del lavoro agricolo e domestico, copre infatti oltre il 95% dei lavoratori del settore privato. Da ciò si evince che un salario minimo orario stabilito per legge non è lo strumento adatto a contrastare il lavoro povero e le basse retribuzioni”. Nel testo si valorizza “la via tradizionale” della contrattazione collettiva e si sostiene che “la mera introduzione di un salario minimo legale non risolverebbe né la grande questione del lavoro povero né la pratica del dumping contrattuale. E la premier Meloni spiega come “occorra piuttosto programmare e realizzare, nell’ambito di un piano di azione pluriennale, una serie di misure e interventi organici”.
Nel pomeriggio, inoltre, non passa in assemblea la proposta presentata dai cinque esperti, tra quelli nominati dal presidente della Repubblica, sulla sperimentazione della “tariffa retributiva minima” nei settori più critici. Nel lavoro sul documento il Cnel “è partito dalla direttiva europea e non dai dibattiti parlamentari”, sottolinea Brunetta, sostenendo che avere una contrattazione “forte è l’unica garanzia per un mercato del lavoro efficiente, equo”. Sotto i riflettori la spaccatura sindacale. Va invece all’attacco l’opposizione, che rilancia la necessità di introdurre un salario minimo per legge con la paga oraria non inferiore ai 9 euro l’ora. Mentre si va verso un rinvio in commissione alla Camera: la maggioranza sarebbe orientata ad avanzare la richiesta la prossima settimana, quando è prevista la discussione in Aula del ddl sul salario minimo mercoledì 18 ottobre.
“Oggi si compie il delitto perfetto. Il Cnel di Brunetta, come immaginabile, ha fatto da sponda e rinvia la questione alla contrattazione collettiva”, attacca il presidente del M5S, Giuseppe Conte. “Aspettiamo al varco governo e maggioranza. Non ci stancheremo di incalzarli se decideranno di fuggire, ancora una volta, rimandando il disegno di legge in commissione”, assicura la segretaria del Pd, Elly Schlein. “Il Cnel si è spaccato. Ora tocca a Giorgia Meloni dire una parola sulla posizione del governo”, ma “evitiamo se possibile uno scontro parlamentare”, afferma il leader di Azione Carlo Calenda. Dal fronte sindacale, insiste il numero uno della Cgil, Maurizio Landini: il salario minimo va fatto all’interno di una legge sulla rappresentanza”. Per la Uil “il vero obiettivo è stata la negazione del salario minimo. Ma il problema resta aperto”. Dall’altra parte, per il leader della Cisl, Luigi Sbarra, l’impostazione del documento Cnel è “condivisibile, in linea con gli orientamenti” di via Po secondo cui il tema va affrontato e risolto “restando nella cornice delle buone relazioni sindacali e nella contrattazione collettiva”.
Giorgetti alla riunione del Fmi ha parlato anche di privatizzazioni
L’Italia porta i numeri dei suoi conti pubblici all’assemblea annuale dell’Fmi-Banca Mondiale dove si svolgono anche le riunioni del G7 e del G20 finanza e sul tavolo mette anche il tema privatizzazioni. Incalzato dal Fondo, che si dice preoccupato per il taglio delle tasse, a fare uno sforzo maggiore sul fronte della riduzione del debito, il governo Meloni, che varerà la manovra in deficit lunedì nel CdM, si presenta a Marrakech con il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti. Il ministro ha difeso la posizione di ricorrere al deficit per tagliare il cuneo contributivo e sostenere famiglie e imprese. Negli incontri, ha affermato il ministro, si è parlato “anche di privatizzazioni”. Fra le riunioni tenute il Mef ha segnato quella con il presidente del colosso bancario International, Bank of America, Bernard Mensah, che è anche ceo di Merril Lynch. Poi il ministro sarà di ritorno a Roma per il tavolo a Palazzo Chigi con i sindacati. Oltre a questo, i lavori dell’assemblea sono incentrati sui problemi che il rallentamento dell’economia unito a tassi di interesse elevati causerà ai paesi più vulnerabili, specie dell’Africa e sulla marcata frenata dell’economia europea (e cinese).
L’attenzione dei mercati resta alta con lo spread italiano a 197 e il rendimento al 4,75. Il governatore della Banca d’Irlanda e membro della Bce, Gabriel Makhlouf assicura che Francoforte “è molto focalizzata” sulla salita del Btp e dello spread italiano ma che i mercati sono preoccupati dall’eccessiva spesa pubblica e da misure come la tassa sulle banche varati dall’esecutivo. La Bce, sotto crescenti pressioni di forze politiche e sociali, appare comunque divisa se proseguire sul rialzo dei tassi come la Fed oppure prendersi una pausa. Una divisione che emerge sia dalla lettura dei verbali della Bce sia dalle dichiarazioni, in ordine sparso, del folto numero di governatori presenti a Marrakech e nei suoi eventi collaterali. Opinioni fra le quali non appare quella del componente della Bce e futuro governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, che non ha voluto parlare di temi monetari. Su un punto i componenti della Bce (e le istituzioni internazionali e le agenzie di rating) concordano: i deficit di bilancio devono essere ridotti da parte dei governi anche per ridurre l’impatto dell’inflazione, dando così una mano alla politica monetaria. Una visione che appunto non sembrerebbe giocare a favore dell’Italia.