“Imaginarea” è la finestra quotidiana di Inarea, la società di design, leader nel campo del branding, che ci accompagnerà quotidianamente con immagini e storie, scandendo ricorrenze, curiosità ed eventi legati a quella particolare data.. .
di Antonio Romano
“chi governa deve aver a cuore massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini.”
Costituto di Siena, 1309
Scrivere sulla bellezza è un compito sempre difficile. C’è già una estesissima letteratura poiché il tema investe l’orizzonte di senso dell’individuo e della collettività. È innegabile infatti la sua soggettività, ma esistono dei codici condivisi all’interno di contesti sociali omogenei e i criteri che la definiscono sono a loro volta assoggettati alle variabili temporali. Debbo tuttavia esprimere un mio punto di vista e, per farlo, cerco di ricondurre a sintesi la mia esperienza di designer. Il “gettare avanti” contenuto nella parola progetto non è altro che una promessa di futuro, quella che dà senso e direzione alla vita stessa.
Come esseri umani, soddisfatti i bisogni primari, ci sentiamo vivi perché desideriamo, ma desiderio significa consapevolezza rispetto a ciò che manca. La bellezza è perciò la nostra parte mancante a cui aspiriamo, in grado di stupirci, sorprenderci e soprattutto completarci.
Siamo costretti a misurarci con la realtà, ma le preferiamo la rappresentazione. Così, il continuo desiderio di bellezza ci induce a vestire i nostri pensieri con le parole più appropriate, a far parlare per noi gli abiti che indossiamo, le case che abitiamo e i loro arredi… assegniamo cioè a ogni punto di contatto con gli altri un segno della nostra identità, implicito o esplicito che sia, in grado di rappresentarci nella relazione.
Questo insieme è la nostra personale promessa di futuro poiché, proprio sul binomio rappresentazione/relazione, si è costruita la nostra civiltà e la sua espressione più visibile e concreta è la città. L’architettura è d’altro canto l’organizzazione dello spazio ed è questo a generare appunto relazioni.
Quando guardiamo, anche con occhi distratti, il costruito di una qualsiasi realtà urbana, cogliamo facilmente il messaggio implicito che gli abitanti hanno voluto trasmettere nelle varie epoche: erano e sono le loro promesse di futuro. Non a caso, “civis” accomuna cittadino e civiltà perché la città è da sempre il luogo delle idee, lo spazio deputato al dibattito. Politica non deriva forse da polis?
Lo “spazio pieno di tempo” (Bob Wilson), costituito dalle nostre città, ci permette quindi di leggere il racconto di secoli e spesso di millenni che i nostri antenati ci hanno consegnato e che noi dovremo tramandare.
Ma, accanto alla nozione “nobile” di bellezza della città, ce n’è un’altra, apparentemente meno importante, ed è quella con cui siamo più a diretto contatto, camminando a piedi o muovendoci con i mezzi di trasporto. È la città delle strade e dei marciapiedi, della segnaletica orizzontale e verticale, dei negozi e delle loro insegne, dei semafori, delle automobili e dei mezzi pubblici, sia in movimento sia fermi, dei parchi, delle aiuole, degli arredi urbani, dei citofoni e delle cassette delle lettere…
Anche questa è una narrazione, per quanto frammentaria ed eterogenea, in grado di farci cogliere in maniera pressoché immediata quel senso di promessa di futuro, insita nel desiderio di bellezza.
Rammento la ringhiera di un condominio di periferia, tempestata da una trentina di cassette delle lettere, una diversa dall’altra, disposte senza alcun ordine logico. Un episodio di scarso rilievo, certamente, ma evocativo di una mancanza assoluta di dialogo tra gli sfortunati abitanti di quello stabile: se non c’è comunicazione, non ci può essere relazione e manca quindi il riconoscimento.
Fino a quando siamo in grado di fare e di ricevere promesse, siamo al cento della vita; le persone molto anziane, i malati, i diseredati smarriscono il loro desiderio di bellezza perché, in assenza di promesse, sentono di essere invece alla periferia della loro esistenza.
Estendendo il concetto alla città, quando il senso di periferia, nella sua accezione più deleteria, si fa spazio anche nelle aree centrali, diventa tangibile la percezione del degrado.
In questo senso, quando si afferma che Roma sia una città bellissima, è impossibile essere contraddetti. Si tratta tuttavia di una sineddoche perché il riferimento si limita al centro storico, al costruito immediatamente adiacente alle mura aureliane e ad altri quartieri o “brani” urbani di eccellenza.
Gli scempi edilizi, che si sono susseguiti dagli anni ’50 del ‘900 in poi, hanno generato un tale furto di bellezza, prima al paesaggio e quindi alla città, da trasformare la cementificazione in un vero e proprio contagio, che dalla periferia si è propagato verso il centro.
Via Sistina, ad esempio, è un asse voluto da Papa Sisto V per collegare idealmente il Pincio e Trinità dei Monti con Santa Croce in Gerusalemme, passando per la basilica di Santa Maria Maggiore. Un gioiello rinascimentale, progettato da Domenico Fontana, vincendo un’orografia che rimanda alle strade di San Francisco: un saliscendi che dà vita a prospettive bellissime, grazie anche alla qualità del costruito e alla presenza di non pochi monumenti.
Si affacciavano sulla via grandi alberghi, gallerie d’arte, orafi e negozi di qualità. Fortunatamente, almeno nella parte alta, prossima a Trinità dei Monti, esiste ancora un’unitarietà coerente con la qualità del passato. Ma, scendendo verso Piazza Barberini, la morfologia delle attività commerciali degrada a sua volta in negozi senza porte, che vendono souvenir a un euro, minimarket aperti fino alle ore piccole, dove i minorenni possono comprare alcolici, negozi di abbigliamento che propongono griffe taroccate e ristoranti per turisti, dotati di tutto il corredo kitsch di un’ipotetica cucina italiana: tovaglie a quadretti rossi, fiaschi di vino dal collo lunghissimo e pasta fresca esposta per strada…
Il degrado di Roma è tutto nell’aver abituato lo sguardo e piegato i comportamenti a un’estetica del brutto che, attraverso il moltiplicarsi delle situazioni, di fatto legittima la perdita di decoro, non solo urbano.
Viene meno di conseguenza anche il ruolo pedagogico della bellezza: un bambino di oggi, per tornare al caso di Via Sistina, non sa cos’era quella strada prima e darà per acquisito lo stato attuale, assumendolo a standard.
È compito di chi amministra la città, perciò, definire una promessa di futuro per la capitale, in grado di rilanciarla in termini di bellezza contemporanea.
In caso contrario, il declino può divenire irreversibile.
Ci sono invece situazioni dove fortunatamente il contagio diventa virtuoso e produce forme di bellezza contemporanea. Milano vent’anni fà era ancora alle prese con l’espiazione dell’incubo, provocato dagli scandali di “Mani pulite” del decennio precedente. Grazie alla lungimiranza degli amministratori di allora e al coraggio di alcuni imprenditori, la città ha radicalmente cambiato il proprio skyline e, con esso, la percezione, i comportamenti e il senso di appartenenza dei cittadini.
Agli interventi di Santa Giulia, Porta Nuova e City Life se ne sono aggiunti tanti altri, in una sorta di rincorsa alla bellezza, che ha trovato nell’Expo del 2015 il suo amplificatore mondiale.
Milano ha insomma ritrovato la propria promessa di futuro ed è tornata a essere la città-guida del Paese, proponendosi con una rappresentazione in linea con le più importanti metropoli.
Ma il tema della bellezza e quello della città vivono ora un passaggio epocale a cui stiamo assistendo tutti, ma non riusciamo ancora a leggerne gli effetti.
La pandemia non ha solo inciso nelle nostre vite in termini sanitari, economici e sociali, ha anche svolto un ruolo di acceleratore di fenomeni che preesistevano e che ora si manifestano con una presenza molto più incisiva nella nostra quotidianità.
Come ha osservato Papa Francesco, “questa non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca”. La nozione di spazio, ad esempio, da più di vent’anni ha conosciuto la dicotomia tra reale e digitale. Ci siamo accorti d’un tratto che impegniamo più della metà del nostro tempo attivo in quello immateriale dei nostri device e abbiamo capito durante il lockdown che la distinzione si va annullando a favore di una progressiva integrazione.
C’è insomma una nozione di spazio ancora da esplorare, ma capace di generare una massa di relazioni, impensabile prima. Tutto questo è già promessa di futuro. Prepariamoci perciò a un nuovo desiderio di bellezza: il bello, è il caso di dire, deve ancora venire.
Pubblicato su “Sulla bellezza così antica e così nuova della città”, Quaderno 14, Fondazione Dioguardi, a cura di Vincenzo D’Alba, Silvana Kuhtz, Francesco Maggiore, Vanna Maraglino, pp. 100-103, 2022.
ISBN 978-88-6922-184-2