Abbiamo più foto di quante la nostra memoria ne potrebbe ricordare, a volte dimentichiamo gli innumerevoli scatti che facciamo ogni giorno, se non quelli che hanno avuto più successo in termini mediatici e che il web ci ripropone spesso con cadenza rituale.
Un selfie particolare, spesso ricercato per sorprendere il nostro pubblico, che ha reso una marea di follower, o di like che hanno incrementato la mia dose di dopamina e che mi spingono a crearne altri estremi, a volte anche, soprattutto per sulla spinta dell’istintualità adolescenziale molto pericolosi.
Partendo dalla considerazione generale che i nuovi device sono stati creati dall’uomo per agevolare la qualità di vita dell’uomo, nello scambio tra uomo e macchina sono stati modificati usi, abitudini, necessità e bisogni che vengono riplasmati dall’efficienza degli strumenti pronti ad adeguarsi al cambiamento e sollecitare nuove richieste e nuove attese. La capacità dei device di essere sempre a nostra portata di mano, ci ha trasformato tutti in abili fotografi specializzati in selfie, rilevatori di immagini, abili realizzatori e fruitori di video, con un terzo occhio teso sempre su di me e sull’altro all’interno dei nuovi codici comunicativi che la digitalizzazione ha generato.
Uno dei tanti cambiamenti del paradigma culturale, relazionale, ludico e cognitivo che si sta conformando in seguito alla rivoluzione digitale è la creazione di nuovi linguaggi comunicativi che vedono oggi il primato dell’immagine sulla parola.
Si comunica in modo diretto che le immagini, con foto che arrivano in modo vettoriale al cuore dell’emotività di ciascuno grazie alla veridicità della canale non verbale che trasmette e veicola le emozioni. Il mondo che ci circonda del resto è quello che vediamo, e quello che oggi viene amplificato dalla cassa di risonanza degli ambienti digitali. Sono triste e posto la mia immagine triste, sono felice e faccio vedere a tutti quanto lo sono e se voglio farti un dispetto, se voglio oscurarmi, scappare, trasmettere il mio periodo nero a tutti, oscuro la mia foto e mi assento dalla comunicazione virtuale dando traccia del mio essere out.
Già Plinio nel suo Naturalis Historia aveva affermato che l’organo della vista non è l’occhio ma la mente. E la mente per tanti adolescenti, nonché per tanti adulti, va alla ricerca di attribuzioni, di letture psicologiche dietro alla comunicazione diretta di immagini che sono prese come comunicazioni dirette su un non detto verbale che rischia di incrinare l’apertura relazionale nell’incontro nel qui ed ora.
Se mi vedo con te sapendo già chi sei, cosa fai, quali sono le tue abitudini, i tuoi gusti, le tue scelte anche relazionali, tolgo naturalezza all’incontro e se il nostro rapporto si struttura su un continuo riflesso tra il dentro e il fuori, tra la foto delle nostre mani unite postate su Instagram e i nostri silenzi che disturbano e che vengono nascosti dalla ricerca del consenso di coppia online, allora il rischio di costruire un mondo interno virtuale che ridefinisce l’esterno è alto.
Forse il ricordare come agisce il cervello nella costruzione del pensiero, della consapevolezza di se, può aiutarci a ridefinire usi compulsivi della meccanicità mediatica che mantengono i contorni vitali all’interno di un’essenza relazionale, nonché di una coerenza interna, che rende le immagini un ricordo di se e non un mezzo per ottenere consensi e plausi esterni. Che uso ne faccio delle tante foto che faccio? Foto conservate nella galleria del telefono per conservare ricordi o per diffondere nel web ricordi?
Foto di paesaggi, o di noi, che servono ad ottenere compiacimenti o per scambiare intimità emotiva con chi mi è vicino sapendo che nel web tutti possono essere vicini?
Di nuovo, come mia prassi operativa e riflessiva, gli insegnamenti dei grandi maestri della psicologia scientifica, sono presi a modello per individuare falle di fondo all’uso inconsapevole e spesso compulsivo dei device, che costituiscono i rischi principali di un malessere diffuso in cui la tecnologia si allontana dalla strumentalità e viene investita di deleghe mediatiche nocive.Foto che catturano i momenti M di cui parlava Daniel Stern, che sono i momenti interattivi che andranno a costituire il nucleo della consapevolezza del sé del bambino e saranno sedimentati, per mezzo della ripetizione dell’esperienza, nelle Rappresentazioni Interne Generalizzate (RIG), ovvero nei ricordi dei tanti Momenti M che hanno dato, e danno linfa vitale al nostro essere al mondo. Alcune di questi come, il Natale, la prima comunione, i primi giorni di scuola hanno testimonianza diretta con foto che fissano l’esperienza arricchendola di vividezza testimoniale forse dalla nostra mente dimenticata.
Foto fotocopia diretta dell’esperienza che calca solo il canale visivo, senza poter registrare altri elementi dell’esperienza sensoriale che sono fondamentali per il nostro magazzino dei ricordi della memoria a lungo termine.
Viviamo Momenti M nel qui ed ora e la mente agisce come agile macchina fotografica di immagini che ridefinisce sotto forma di ricordi un cui entrano tanti altri sensi come l’odorato, il tatto, il suono. Possiamo dimenticare come eravamo vestiti in quel determinato Natale, il nostro primo giorno di scuola ma non dimenticheremo l’odore, il sapore, e il gusto del nostro piatto preferito, o il calore e il profumo dell’abbraccio di mamma e papà. Memorie storiche registrate e sedimentate all’interno del rilevatore di immagini più funzionale per eccellenza che è la nostra mente.
Se interrompiamo il lavoro mentale della registrazione sensoriale con la delega allo strumento per scattare le immagini più belle, più veritiere, più attendibili per conservare in archivio digitale, che paradossalmente, molto spesso sarà dimenticato, allora rischiamo non solo di perdere foto, ma anche ricordi e soprattutto di destrutturare il lavoro mentale della focalizzazione dell’attenzione, creando risvolti ai danni del sé, della poesia della costruzione mentale, della fantasia, dell’immaginazione, sotto la spinta di una capacità di sintesi tecnologicamente affidabile che però depaupera pensieri.
Se poi lo scatto è proiettato sul dopo, su quello che se ne farà dell’immagine, l’asse strutturale dal dentro di me viene spostato nel fuori di me, e nella ricerca di consensi narcisistici che fanno della mia immagine il biglietto da visita e il curriculum digitale del digito, posto quindi sono a svantaggio del cogito ergo sum.
Poco pensiero, poca consapevolezza, verso una vetrina di immagini che ancora troppo spesso mi allontanano dalla costruzione di me, vuoi che sia un me adolescenziale o un noi genitoriale, conformandosi su scatti fotografici che possono rassicurare rispetto alla perdita di momenti M, ma il più delle volte li fanno perdere con essi il centro di sè, dietro la ricerca e l’interpretazione dello sguardo dell’altro.
Si acquisiscono immagini si perde la focalizzazione dell’attenzione su ciò che è sta accadendo di veramente importante in noi, fuori di noi e tra noi. Educare al digitale significa anche procedere sul nuovo terreno della comunicazione digitale in cui l’educazione all’immagine è un tassello chiave. Scattiamo meno e pensiamo di più.