A metà febbraio si gioca l’ultima partita per la previdenza dell’informazione. Siamo nel pieno della fase terminale di una lunga crisi che i giornalisti (e gli editori), colpevolmente hanno prima esorcizzato e poi banalizzato. L’INPGI non è solo in una crisi contabile e finanziaria, ma subisce un avvitamento culturale e professionale.
Il deficit del suo bilancio, irrimediabile e irreversibile nel perimetro dato della categoria, è l’indicatore della miopia sindacale e politica dei giornalisti italiani, di chi li rappresenta e da chi pretende di rappresentarli. Sarebbe facile, parafrasando le mille cronache scritte o registrate dai giornalisti sulle crisi aziendali di questi trenta anni, cavarsela con la battuta “E’ il mercato, bellezza”.
Un mercato che sta sostituendo, in tutto il mondo e in tutte le professioni, lavoro vivo con lavoro morto, come avrebbe detto un filosofo tedesco di metà Ottocento. Più prosaicamente si sta automatizzando l’attività artigianale e discrezionale dell’uomo. Quando è iniziato questo processo? Un anno fa? Cinque anni fa? Venti anni fa? Ancora prima, in realtà: Internet agisce ormai da 50 anni, le prime forme di intelligenza artificiale efficiente nel campo dell’informazione da almeno vent’anni.
Era così difficile capire cosa sarebbe accaduto? Era davvero così lontana la crisi dieci anni fa, quando si costruivano contratti sindacali e si tamponavano le prime lacerazioni nel sistema previdenziale con soluzioni del tutto arcaiche o inutili. O quando si avallavano centinaia e centinaia di prepensionamenti, spesso richiesti non solo dalle aziende ma anche dai comitati di redazione: per cacciare i “vecchi”. E uccidere, con l’Inpgi, le pensioni future di chi votava a favore di quegli accordi, sempre avallati dalla Fnsi. Operazioni di corto respiro, disastrose nel medio lungo periodo.
Ancora oggi si persevera. Con ultimatum dati al Governo o ad altre categorie, come quelle dei comunicatori o delle pr, ingiungendo di salvare l’Inpgi. Ma perchè? E per chi? Certo, sappiamo bene quanto conti avere una piena autonomia previdenziale per un mestiere sul confine degli equilibri costituzionali. Ma occorre evitare di involgarire il tutto con sospetti di scelte corporative, o, ancora, peggio, di mera bottega o poltrona.
L’Inpgi si salva se non si parte dall’Inpgi.
La base contributiva deve essere allargata. Ma non (solo) per salvare le pensioni dei giornalisti.
L’obiettivo deve essere quello di dare al Paese un sistema di informazione globalizzata e digitale, autonoma e sovrana, dove saperi e competenze possano combinarsi dando ai mestieri dell’informazione protagonismo e potere negoziale. Va preso atto del fatto che oggi si produce informazione in molti modi. Uno di questi è il lavoro in redazione con un direttore responsabile. Uno fra i tanti. Un altro è diffondere comunicazione in territori, istituzioni e comunità. Un altro è promuovere relazione per rendere trasparenti servizi e produzioni o decisioni. Un altro è costruire sistemi che connettano cittadini e intelligenze per ottimizzare una città. O un sistema di servizi.
Si tratta di profili, attività, tradizioni e culture diverse ma sempre più convergenti. Devono avere contratti paralleli ma affini, soprattutto devono avere una cultura e un’etica comune. Da qui dobbiamo partire per costruire un nuovo e più ampio mondo dell’informazione, senza monopoli o posizioni di rendita, con contratti coerenti, principi integrati, valori condivisi, previdenza integrata. In questa logica di revisione e ridefinizione dell’informazione, giornalisti, comunicatori, ma anche professionisti della P.A., o dei sistemi informatici e degli spazi sul Web potranno convergere non per necessità ma per realismo, rispondendo al bisogno di valorizzare la propria identità e professione rispetto ad un uso strumentale e misero dei processi tecnologici, visti solo come risparmio di lavoro e non come arricchimento di opzioni e libertà.
In occasione delle prossime elezioni i sottoscrittori di questa lettera voteranno per i candidati che si impegneranno a rispettare questo progetto: quello di una profonda ristrutturazione del contratto nazionale di lavoro dell’Informazione, che preveda un pluralismo di figure e contesti d’impresa; un pluralismo di identità e ambiti professionali; una stretta convergenza di valori e di principi etici; una graduale convergenza nei percorsi previdenziali. Si aprano la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti ad un dibattito stringente e operativo, ad esempio sull’accesso all’Albo e alla professione, che renda il caso Inpgi una straordinaria opportunità di innovazione dell’intero sistema Italia e non una emergenziale opera di soccorso contabile