Chi legge questo post e mi conosce potrebbe essere sorpreso. Immagino si chieda: «Ma come, proprio tu che sei docente universitario di informatica, la disciplina emblema dell’innovazione tecnologica, fai una simile domanda?»
Il punto è che il mio mestiere di ricercatore mi spinge a chiedere sempre il perché, a valutare se quello che tutti danno per scontato sia davvero tale. Circa dieci anni fa, poi, mi sono imbattuto nel blog “nuovo e utile” di Annamaria Testa, che mi ha aperto la mente su questo tema. Lei è uno dei grandi nomi della comunicazione pubblicitaria italiana ed il titolo del suo blog allude (credo, non ho mai avuto il piacere di discuterne con lei) al fatto che per vendere bene un prodotto in modo durevole la pubblicità ha bisogno di entrambe le caratteristiche: la novità è importante, certo, perché come esseri umani siamo sempre attirati da ciò che è nuovo, ma se questo non si rivela utile, passato il momento della novità, perdiamo interesse.
Spesso usiamo il termine “innovazione” dando per scontato che ciò che è nuovo (e che certamente – essendo nuovo – è una manifestazione della creatività di qualcuno) sia necessariamente utile. Non sempre però è così e ritengo estremamente importante, soprattutto in quest’epoca storica in cui l’evoluzione tecnologica sforna novità ad un ritmo sempre più veloce, fermarsi a riflettere che né “innovativo” né “creativo” sono sinonimi di “utile” o “migliorativo”.
Vedo una manifestazione costante di questo fenomeno nel settore dei prodotti e servizi digitali. Prodotti innovativi che dopo qualche anno vengono abbandonati perché non rispondenti alle reali esigenze delle persone. Attività che venivano realizzate manualmente per anni che, a un certo punto, vengono automatizzate con tecnologia digitale, perché così si realizza innovazione (e si taglia sui costi, anche se quasi mai si fa una valutazione dei costi sistemici di lungo periodo, le cosiddette “esternalità”), ma che spesso fanno rimpiangere la precedente soluzione.
Si chiede alla nostra pubblica amministrazione e agli imprenditori di essere innovativi: adesso è quasi diventato un obbligo, con il mantra europeo della “trasformazione digitale” e la montagna di denaro che dobbiamo spendere per realizzarla. Ci dimentichiamo però che se non insegniamo ai ragazzi l’informatica come disciplina scientifica fin dai primi anni di scuola il suo governo non sarà nelle nostre mani. Si considera l’innovazione un valore intrinseco, e non in funzione dei suoi esiti: non lo considero un approccio molto sensato.
L’innovazione a tutti i costi è un feticcio mediatico diventato ormai gigantesco nel mondo digitale. Mettiamo il “carro” dell’innovazione davanti ai “buoi” della strategia di sviluppo industriale. Fortunatamente, i nostri imprenditori, saggi e accorti, fanno innovazione solo quando è finalizzata alla loro competitività e flessibilità. I sistemi informatici, in molti casi, non sono realizzati in modo da consentire questa flessibilità a chi li usa. Questo gli imprenditori lo sanno e ne traggono le conseguenze. Su che basi oggettive si sostiene che i nostri imprenditori non siano in grado di fare o usare innovazione, quando sono stati sempre all’avanguardia in termini di macchine utensili che potessero dar loro un vantaggio competitivo sulla concorrenza? Come si pensa che si siano sviluppati i vari distretti tecnologici che sono il fiore all’occhiello di molte regioni se non grazie a un’innovazione costante realizzata giorno per giorno senza risparmiarsi nella ricerca di come migliorare (o difendere) quote di mercato e margini di guadagno?
Queste riflessioni sul ruolo dell’informatica nella pubblica amministrazione e nel sistema produttivo, che avevo sviluppato tempo fa e che sono riprese ed estese nel mio ultimo libro “La rivoluzione informatica. Conoscenza, consapevolezza e potere nella società digitale” mi sono recentemente tornate in mente a proposito del dibattito recentemente suscitato dalla constatazione che nel nuovo governo non ci sarebbe stato, come per il precedente, un Ministero per l’Innovazione e la Trasformazione Digitale.
Si è visto poi che è stato nominato un Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con competenza sull’innovazione, ma il punto in sé è che il focalizzarsi sull’innovazione in quanto tale, a prescindere dal miglioramento che apporta, sia uno scambiare un mezzo (l’innovazione) per il fine (il miglioramento).
Tutti conosciamo il famoso proverbio cinese (da alcuni attribuito a Confucio): «Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita». Per migliorare il suo bottino ittico non necessariamente deve cambiare canna da pesca per un modello più innovativo, a meno che questo non determini intrinsecamente una maggiore probabilità che i pesci abbocchino. Magari può essere più opportuno cambiare il luogo in cui pesca.
Nel mondo dello sport è abbastanza chiaro a tutti che la qualità tecnica dello strumento, per quanto importante, è raramente il fattore decisivo, a meno di un’assoluta parità (che quasi mai si verifica) di tutti gli altri fattori. “È questione di manico”, si dice popolarmente, per indicare proprio che è chi muove l’attrezzo sportivo che fa la differenza.
Tornando ai settori produttivi, mi sembra che troppo spesso ci sia una spinta verso l’utilizzo a tutti i costi di mezzi sbandierati come innovativi, a prescindere da un’analisi approfondita di come si inseriscono nell’intero ciclo di vita di realizzazione del prodotto o servizio.
Ritengo che la crescita economica di un Paese non derivi dal cercare un’innovazione fine a sé stessa, ma dal concentrarsi sullo sviluppo e sulla crescita, che dipendono dal miglioramento complessivo del sistema e nei quali l’innovazione può sì giocare un ruolo, ma a patto di avere una visione globale. Quando il miglioramento accade, c’è stata quasi invariabilmente qualche innovazione, ma non è in genere sempre vero il contrario. Si possono rinnovare strumenti e modalità operative ma ottenere un peggioramento complessivo. Con un linguaggio di tipo logico-matematico possiamo esprimerlo così: un miglioramento implica un’innovazione, ma un’innovazione non implica un miglioramento.
Pensare che basti avere l’innovazione per migliorare tutto è forse l’esempio più clamoroso di una manipolazione sempre più frequente nel mondo digitale, dove – complice anche il fatto che ormai la nostra finestra di visibilità su di esso è uno smartphone con limitate capacità di presentazione di informazioni – ci viene costantemente offerta una versione super-semplificata delle questioni in gioco, quasi uni-dimensionale. La vita è molto più complessa di così. Basta introdurre un secondo o un terzo elemento e parte il gioco delle combinazioni.
Si tratta di una spinta, apparentemente gentile ma in realtà ferocemente manipolatrice, tutta tesa a costruire una società di persone che, non pensano, ma si muovono cliccando un tasto dopo l’altro, senza valutare alternative, senza pensare criticamente.
In sintesi, non basta innovare, bisogna migliorare. Domandiamoci sempre: è nuovo, ma è utile?
(I lettori interessati potranno dialogare con l’autore, a partire dal terzo giorno successivo alla pubblicazione, su questo blog interdisciplinare.)