2 milioni di imprese, 33 milioni di posti di lavoro e il 60% di crescita delle produttività. Sono questi i numeri principali del settore manifatturiero europeo.
Uno dei pilastri dell’economia del Vecchio Continente si trova ad affrontare quella che ormai è definita come la quarta rivoluzione industriale e che, come sottolineato di recente dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, costituisce sia una minaccia che un’opportunità, tanto per le imprese quanto per l’economia dei Paesi europei. “Se l’Europa non riuscirà a sfruttare la trasformazione digitale a proprio vantaggio, le perdite potenziali della non digitalizzazione per i paesi UE-17 potranno superare i 600 miliardi di euro entro il 2020, un valore equivalente alla perdita di oltre il 10% della base industriale del continente”, ha affermato il ministro.
Trainata dalle nuove tecnologie (5G, cloud computing, internet delle cose, tecnologie dei dati…), la digitalizzazione incrementerà le entrate annuali delle imprese europee di oltre 110 miliardi di euro nei prossimi cinque anni e avrà un impatto significativo non solo sulla manifattura, ma anche sui più svariati settori di attività dall’agricoltura al turismo, dall’energia alla moda, dalla mobilità alla sanità.
In Italia, che pure presenta uno scarso livello di ‘maturità digitale’ delle imprese, la manifattura intelligente vale 1,2 miliardi di euro, ossia poco meno del 10% del totale degli investimenti industriali complessivi, e dovrebbe crescere quest’anno del 20% (dati Osservatori.net).
Bene, si dirà. Invece no, perché il nostro paese, non solo deve recuperare un grosso divario in termini di investimenti rispetto alle altre maggiori economie europee e mondiali ma, soprattutto, è caratterizzato da un tessuto produttivo formato in gran parte da PMI e deve imparare a fare sistema, creando ‘Innovation Hubs’, valorizzando i centri di eccellenza e favorendo la ‘contaminazione’ delle conoscenze e dell’Innovazione.
Il ministro Calenda, in audizione alla Camera, ha presentato una serie di misure di intervento in 5 aree (Investimenti in innovazione; Fattori abilitanti; Standard di interoperabilità, sicurezza e comunicazione IoT; Rapporti di Lavoro, salario e produttività; Finanza d’impresa) su cui si dovrebbe concentrare l’azione di policy del Governo per favorire gli investimenti 4.0 (il gap è stimato in circa 8 miliardi annui nei prossimi 5 anni).
La Commissione europea, dal canto suo, ha lanciato recentemente un pacchetto di misure per sostenere e collegare le iniziative nazionali per la digitalizzazione dell’industria e dei servizi connessi in tutti i settori e per stimolare gli investimenti attraverso reti e partenariati strategici.
La Ue, in particolare, vuole concentrarsi – oltre che su 5G e cloud – anche sullo sviluppo di progetti pilota volti a potenziare l’internet delle cose, i processi produttivi avanzati e le tecnologie in ambiti quali città intelligenti, domotica, automobili connesse o sanità mobile.
Il piano varato dalla Ue ambisce a mobilitare investimenti per 50 miliardi: 37 miliardi per accelerare l’innovazione digitale; 5,5 miliardi per gli investimenti nazionali e regionali nei digital innovation hubs; 6,3 miliardi per la produzione di componenti elettronici e 6,7 miliardi per l’iniziativa European Cloud.
Oggi, il Commissario Gunther Oettinger ha twittato anche sull’importanza della robotica e dei supercomputer: “se l’Europa vuole prendere sul serio la digitalizzazione dell’industria deve concentrarsi sull’HPC: la nostra ambizione è di stare nella top 3 globale nel settore del supercomputer entro il 2020”.
Al momento però è la Cina il paese che fa più progressi in questo campo: non solo piazzando il suo Sunway TaihuLight al primo posto nella classifica Top500 dei supercomputer più potenti al mondo (il 30% più veloce del più performante sistema americano) ma consacrandosi come il paese con il maggior numero di supercomputer inseriti nella top 500, con 167 sistemi, tra i quali oltre al primo, anche il secondo in classifica. Seguono gli Stati Uniti (165), il Giappone (29), la Germania (26), la Francia (18) e la Gran Bretagna (12).
L’Europa, come dimostrano anche questi dati, non viaggia unita, ma come un insieme frammentato di Stati e storie.
Anche nel campo della digitalizzazione dell’industria, diversi Stati membri hanno già varato strategie nazionali senza tener conto che solo con un approccio globale a livello europeo si potrà beneficiare delle evoluzioni del digitale come l’internet delle cose.
Certo, ogni paese – anche l’Italia – deve trovare una propria via sulla base delle caratteristiche del proprio tessuto produttivo, ma guardando al contesto europeo come riferimento, anche economico.
La Ue però, come l’Italia, ha un problema: tutti procedono in ordine sparso, si fatica a ‘fare sistema’.
Serve, dunque, una strategia che faccia da collante per favorire – o quanto meno non creare problemi – la transizione verso un’economia ‘smart’; per preparare la prossima generazione di prodotti e servizi; per accelerare la capacità d’innovazione dell’industria; per creare standard in grado di imporsi a livello internazionale.
Partire insomma dalla iniziative già attive a livello nazionali (si pensi a Fabbrica Intelligente in Italia, Industrie 4.0 in Germania, Smart Industry nei Paesi Bassi e in Slovacchia, o Industrie du Futur in Francia) per mettere a fattor comune risorse e competenze e, forse, uscire dall’impasse tecnologica in cui l’Europa e molti dei suoi Stati sono ancora confinati.