L’anno scorso l’Italia si accreditava ancora come settima potenza manifatturiera mondiale. Nonostante il contesto economico e finanziario non dei migliori, per le economie più avanzate, il nostro Paese è riuscito ad avviare il processo di trasformazione digitale dell’industria e delle imprese.
Dal 2016 l’Italia si è dotato di strumenti per lo sviluppo dell’industria e le imprese 4.0, che hanno favorito la digitalizzazione del settore manifatturiero, tra cui l’iper-ammortamento, la Nuova Sabatini, il credito d’imposta.
L’iper-ammortamento, in particolare, si legge nel nuovo Rapporto di Confindustria “Dove va l’industria italiana“ presentato ieri, è stato utilizzato in netta prevalenza da imprese con domicilio fiscale nel Nord Italia (86% degli investimenti), dove la Lombardia svetta (35%) davanti a Veneto (17%) e Emilia Romagna (16%).
Su livelli molto bassi d’investimento, invece, tutte le regioni meridionali. La Sicilia è l’unica parziale eccezione: con una quota di investimenti agevolati del 3%, si colloca, al pari del Friuli-Venezia Giulia, nella parte alta della classifica.
Diversamente da quanto si è spesso ipotizzato, non sono state prevalentemente le grandi aziende a utilizzare la misura di incentivo fiscale. Il 96% dei beneficiari, a cui corrisponde il 66% degli investimenti incentivati, è composto da imprese con meno di 250 dipendenti, ossia piccole e medie imprese (Pmi). Il 35% degli investimenti 4.0 è addirittura riferibile a imprese con meno di 50 addetti.
Le stime del Centro Studi Confindustria e del Dipartimento Finanze del Ministero delle Finanze sull’ammontare degli investimenti agevolati dalla misura in vigore nel 2017 mostrano che la misura ha riscosso un forte interesse da parte delle imprese italiane: 10 miliardi di euro per i macchinari e le attrezzature 4.0.
Più dell’80% delle imprese agevolate appartiene al settore manifatturiero. In testa il comparto dei prodotti in metallo (26% degli investimenti in macchinari e attrezzature 4.0), davanti a meccanica strumentale e chimica (entrambe al 9%).
In sintesi, le conclusioni del Rapporto indicano che “l’Europa dovrebbe tendere prima di tutto alla costruzione di un effettivo mercato unico per favorire lo sviluppo di un sistema industriale a scala continentale, per contrastare la concorrenza proveniente dai grandi complessi industriali americani e cinesi”.
Questo stato di cose restituisce un ruolo importante alla politica economica, per lunghi anni relegata al margine delle discussioni sui temi dello sviluppo industriale: “Occorre a livello europeo una strategia attiva di politica industriale che sappia costruire piani di azione e strumenti di intervento, rivitalizzando le istituzioni esistenti e creandone di nuove, e che non si limiti come finora è avvenuto ad agire a livello regolatorio sui soli fattori abilitanti di competitività o sulla concorrenza”.