Che cos’è la diversità? Quali sono i fattori che ci rendono diversi rispetto agli altri? A queste domande è diffilicle dare una risposta.
La motivazione principale? La paura. Il timore per il diverso, per l’ignoto, per ciò che noi non siamo. Tutto ciò che, imporvvisamente, può cambiare le nostre abitudini, minare le nostre certezze, ci spaventa nel nostro inutile tentativo di restare sempre gli stessi.
A dimostrazione dell’insensatezza di un concetto del genere, l’Inclusive Design si propone di mostrarci quanto l’inclusività sia una vantaggio per tutti.
Ma cosa si intende per design inclusivo?
Sviluppato nel secolo scorso per mettere in luce le difficoltà dei soggetti con disabilità nel dover vivere in un ambiente che non li tiene in conto, oggi, la definizione di Inclusive Design si è evoluta per includere una moltitudine di situazioni diverse.
Si potrebbe sintetizzare nell’idea di “disegnare soluzioni che possano andare a soddisfare le necessità del maggior numero possibile di soggetti”.
Oggi è una pratica talmente diffusa che la J.W. Thompson l’ha inserita nella Futures100del 2019, ricerca che l’agenzia pubblica annualmente per sottolineare i maggiori trend per il futuro. Ma quali sono le best practice che ogni designer, e di conseguenza ogni azienda, dovrebbe seguire per creare un’esperienza veramente inclusiva?
Lillian Xiao, in un suo articolo del 2019 sulla rubrica UX planet di Medium, ce le spiega in sei punti:
- Cerca di capire il motivo per cui le persone vengono escluse dall’esperienza che hai disegnato.
- Individua in quali situazioni dell’esperienza si potrebbe occorrere in una esclusione del pubblico.
- Includi persone di realtà diverse nella fase progettuale per evitare discriminazioni.
- Offri diversi modi per partecipare all’esperienza.
- Crea esperienze equivalenti, ma diverse, per includere tutti.
- Tieni a mente che partendo da una soluzione per una fascia minorotaria, potresti scoprire che questa sia in verità adatta a tutti.
Per poter seguire una progettualità di questo tipo è necessaria una forma mentis che abbia il coraggio di mettersi “nei panni” di altre persone, scoprendo le loro (e le tue) debolezze in contesti diversi. Quello che però si tende ad ignorare è che, con questo approccio, si scoprono anche i punti di forza propri e altrui. Se affrontiamo l’argomento da un punto di vista aziendale, questi si traducono poi in guadagni, sia umani che economici, di gran lunga superiori alle spese per un design che richiede più tempo e risorse.
A dimostrazione di ciò, vediamo ora due case studies agli opposti.
Un esempio di design non inclusivo fu il lancio del Kinect di Xbox in Giappone. La proposta di un accessorio per il riconoscimento dei movimenti era, ai tempi, estremamente innovativa. Quello che però i designer non avevano preso in considerazione nella progettazione erano le caratteristiche culturali del pubblico. Infatti, la lente del Kinect era stata sviluppata per essere usata nelle grandi stanze americane, mentre si rivelò completamente inutile nei piccoli appartamenti giapponesi. Un errore di progettazione che non teneva conto delle diversità culturali e che costò a Microsoft milioni di dollari.
Un esempio positivo è invece la case study di Gillette che, con il suo rasoio Treo, ha affrontato un tema ignorato da molti. Il concetto alla base è molto semplice; non esistono rasoi, tranne la lama singola da barbiere (difficile da utilizzare), progettati per essere usati su persone che non riescono, per problemi fisici, a radersi. Preso coscienza di ciò, i suoi designer hanno disegnato una soluzione, unica sul mercato, che ha permesso a Gillette di guadagnare una grossa fetta di mercato inesplorata e una bellissima immagine agli occhi del pubblico. In definitiva, progettare per gli altri è progettare per se stessi.
L’obiettivo delle aziende, per natura, è quello di riuscire a raggiungere il maggior numero di persone possibile; la bellezza dell’Inclusive Design è che ti permette di farlo migliorando le loro vite, perché una UX di valore deve valere per tutti.
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