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Impazza Sanremo, ma la Rai resta allo sbando

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Impazza Sanremo, tra nuove e vecchie polemiche, ma la deriva della Rai resta immutata. Il ‘caso Junior Cally’ sintomatico del deficit identitario del servizio pubblico.

Il Festival di Sanremo, giunto alla sua 70ª edizione, impazza, almeno nei commenti dei giornalisti, e la rassegna stampa è senza dubbio ricca, ma qualche perplessità emerge, se si vuole considerare il Festival la “cartina di tornasole” dello stato di salute della Rai, e la stessa Rai il “laboratorio politico” del Paese.

Quel che stupisce l’osservatore attento è come “il Festival” o la questione delle “nomine” dei dirigenti apicali di Viale Mazzini pare siano attualmente gli unici elementi di attenzione ed attrazione medial-politica: del futuro del servizio pubblico radiotelevisivo, di medio-lungo periodo, della sua funzione strategica come strumento di crescita della democrazia, sembra non interessarsi nessuno.

Le proposte di legge in materia Rai non vengono nemmeno assegnate alle commissioni parlamentari competenti (oppure, quando vengono assegnate, vanno a finire su binari morti), e la totalità dei quotidiani dedica spazio soltanto alle nomine “in quota” del partito di turno (al governo).

Del profilo identitario e della strategia socio-culturale della Rai pare non interessi niente a nessuno, almeno a livello politico-istituzionale: silenzio assordante.

L’ultima traccia di “vita”, nel dibattito pubblico, risale a tre mesi fa, con il convegno promosso da Primo Di Nicola, esponente del M5S nonché Vice Presidente della Commissione di Vigilanza sulla Rai (vedi “Una nuova Rai è davvero possibile?”, su “Key4biz” dell’8 novembre 2019). Ricordiamo che a metà luglio 2019 l’allora Capo Politico del M5S Luigi Di Maio aveva dichiarato “come Movimento 5 Stelle presenteremo una proposta per ridurre drasticamente il canone Rai”. Ed in quei giorni vennero annunciate le proposte di legge a prima firma Maria Laura Paxia a Montecitorio (Atto Camera n. 1983) ed a Palazzo Madama Gianluigi Paragone (Atto Senato n. 1417)… Anche di queste proposte, nessuna significativa traccia di iter (a parte la fuoriuscita di Paragone dal M5S): la proposta Paxia (il cui testo è rimasto segreto per mesi) è stata assegnata alle Commissioni riunite VII Cultura e IX Trasporti in sede referente il 19 novembre 2019, e… lì si è fermata.

La partita delle deleghe ministeriali e delle nomine nelle società controllate: 400 “poltrone”

Peraltro, se finalmente a fine gennaio il Ministro Dario Franceschini (che è il titolare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, ma anche – ben più importante – il Capo Delegazione Pd nell’alleanza di governo) ha finalmente assegnato le deleghe alle due sue sottosegretarie – Anna Laura Orrico (M5S) si interesserà di “cinema” e “industrie creative” e Lorenza Bonaccorsi (Partito Democratica) di “turismo” e “paesaggio” e “rigenerazione urbana” – al Ministero per lo Sviluppo Economico, il titolare Stefano Patuanelli (M5S) appare ancora ritentivo. Dinamica discretamente patologica, a cinque mesi dal giuramento. Di fatto, sembra essere Mirella Liuzzi (M5S) colei che sta dedicando attenzione alle tematiche televisivo-mediali-digitali, anche se in lizza permane anche Gian Paolo Manzella (Pd), mentre agli altri tre sottosegretari (Stefano Buffagni, Alessia Morani, Alessandra Todde) sarebbero destinate altre aree di attività. Niente deleghe significa nessun potere e quindi nessuna responsabilità: in sostanza, molti esponenti del Governo non hanno ancora alcun ruolo reale (almeno non ufficialmente riconosciuto).

In ogni caso, da Via Veneto (sede del Mise), su Rai, silenzio totale.

Va segnalato che l’attuale “governance” di Viale Mazzini è orfana della maggioranza di governo che l’aveva nominata, e quindi le “contraddizioni interne” sono molteplici, al punto tale che una decina di giorni fa l’Amministratore Delegato Fabrizio Salini è stato “convocato” dall’azionista di maggioranza Rai (il Ministero dell’Economia, che ha il 99,56 delle quote azionarie di Rai spa, a fronte dello 0,44 % della Siae– Società Italiana Autori Editori), e si ha notizia che il Ministro Roberto Gualtieri (Pd) abbia richiesto una accelerazione del “piano industriale 2019-2021” (che procede a rilento) e migliori garanzie di imparzialità a favore del pluralismo…

La partita delle deleghe ministeriali si intreccia con la partita, complicata ed irrisolta, delle nomine di molti soggetti controllati dallo Stato: tra marzo e aprile 2020, il Governo deve procedere al rinnovo dei vertici e dei cda di colossi come Enel, Poste, Eni, Leonardo, eccetera,oltre che alle nomine di Agcom e Autorità per la Privacy. È stato calcolato che si tratta di circa 400 “poltrone”: una partita di potere fondamentale per il Paese.

Dal “macro” al “micro”, Sanremo giustappunto…

Se le questioni “macro” della Rai sembrano essere rimosse dall’agenda politica, non resta che dedicare una qualche attenzione a quelle “micro”: Sanremo, in primis, giustappunto.

Anzitutto, i dati quantitativi, che, in un sistema mediale schiavo del mercato, vengono considerati indicatori del successo ovvero dell’insuccesso: la prima serata (martedì 4) del Festival ha registrato una share del 52 %, che risulta essere la percentuale più alta dall’anno 2015. Secondo Auditel, la media di telespettatori è stata di circa 10 milioni di persone (stessa quantità dell’edizione 2019, ma un calo di 1,6 milioni rispetto alla prima serata del 2018; si ricorda che le ultime due edizioni sono state condotte da Claudio Baglioni). Peraltro, Sanremo alimenta anche le casse della Rai dal punto di vista del fatturato: l’edizione 2019 ha prodotti 31 milioni di euro di pubblicità.

Nella serata di ieri, le agenzie di stampa hanno diramato un altro dato, inedito: secondo lo Studio Frasi (struttura di consulenza fondata dal mediologo Francesco Siliato), la prima serata del Sanremo di Amadeus avrebbe tenuto insieme “tutta l’Italia”: uomini e donne, generazioni diverse, livelli di istruzione diversi, classi sociali diverse, spettatori di provenienza geografica diversa. Lo Studio Frasi ha infatti misurato un “indice di coesione sociale”, metodologia sperimentale che risulta dal confronto tra la distribuzione degli ascolti di un programma e la distribuzione della popolazione italiana su una serie di variabili (genere, età, istruzione, indicatori territoriali, socio-economici e del tipo di attività svolta, come definite dall’indagine Auditel, che è basata anche sui valori Istat relative alla popolazione). L’indice di “coesione di genere” risulta del 91,2 %, l’indice di “coesione generazionale” dell’85,6 %, l’indice di “coesione per istruzione” del 94,2 %, l’indice di “coesione socio-economica” del 98,2 %, l’indice di “coesione territoriale” del 94,6 %. Dall’unione di questi dati, il sintetico “indice di coesione sociale” risulterebbe del 91,5 %. Sarà interessante conoscere meglio la metodologia utilizzata, ma il risultato appare senza dubbio lusinghiero per Rai.

Sanremo “unisce” (e “rappresenta”) quindi l’Italia tutta?!

Nutriamo dubbi, ma questo “indice” arricchisce senza dubbio il dataset fornito dal controverso Auditel, e sicuramente costituisce una base utile per sviluppare una discussione, ampia ed approfondita, sul concetto di “coesione sociale”, che è stato introdotto nell’ultimo “Contratto di servizio” tra Stato e Rai, iniziativa che richiederebbe un dibattitoesteso, aperto e plurale – finora mai realizzato – tra il Mise, la Rai ma soprattutto la società civile, terzo settore, accademia…

Sanremo è, nella sua veste di “cartina di tornasole”, anche l’amplificatore di fenomeni culturali (sotto-culturali) come il rap, e la sua variante “trap” (sottogenere musicale dell’hip hop): da alcuni anni, l’industria musicale italiana, in continua crisi di vendite, ha puntato su questo genere musicale, che ha acquisito una diffusione crescente nell’offerta radiofonica, e domina ormai le classifiche di vendita.

Il ‘caso Junior Cally’ sintomatico del deficit culturale Rai

Alla ribalta di Sanremo, è emerso il caso di Junior Cally, che si associa – in negativo – a quello di Achille Lauro e – in positivo – di Paolo Palumbo: i primi due esponenti di una “cultura” musicale interprete di valori esistenziali opinabili, il secondo coraggioso cantante che sfida la malattia (è affetto da quattro anni dalla Sla) con la musica.

In questo mix di trash e nobile, il Festival di Sanremo vorrebbe affermarsi come “specchio” della società italiana. Ma mettere sullo stesso piano, alla fin fine, “miseria e nobiltà” (la buonanima di Totò ci perdoni) determina una sorta di appiattimento valoriale complessivo, l’assenza di una “bussola” culturale, di una qualche forma di orientamento, che riteniamo possa (debba) essere la funzione del servizio pubblico mediale.

Non basta “contrapporre” la cultura alta e la cultura bassa (usiamo queste categorie convenzionalmente), la trasgressione del rapper sguaiato e la tradizione storica del pop dei Ricchi e Poveri, l’ammiccamento ai giovani ed al contempo ai vecchi, in un frullatore di post-moderno e nostalgia che finisce per essere culturalmente a-valoriale.

Quel che crediamo manchi a Rai è un profilo identitario forte, che dovrebbe essere la sua missione di servizio pubblico: non soltanto “fotografare” la società, ma stimolarne l’evoluzione, in una prospettiva di coesione sociale, interculturalità, alfabetizzazione digitale, stimolando meglio il pluralismo espressivo-culturale-artistico. E superando la schiavitù dell’Auditel.

Il caso del rapper Junior Cally è sintomatico di come Rai non stia riuscendo ad affrontare in modo approfondito quel che accade nel Paese: al di là dello specifico “incidente” (Cally è autore di brani con testi… non esattamente “politically correct”), e dell’infinito dibattito sui rischi di “censura” sempre latenti, nel nostro Paese il “rap” è senza dubbio un fenomeno sociale che va ben oltre la specifica dimensione musicale-artistica.

Sempre più questi rapper – i cui brani vengono offerti a rotazione sulla quasi totalità delle radio commerciali (anche Radio Rai, anche se, per fortuna, in misura minore) – vengono apprezzati dai più giovani, non soltanto adolescenti ma anche fanciulli: si pongono come “trasgressori”, e certamente ragazzi e bambini sono inevitabilmente attratti dalla “diversità” (indipendentemente dalla qualità della stessa) e dal “ribellismo” (è in natura, nella psiche umana). Questa musica si pone oggi come colonna sonora dell’immaginario giovanile.

I “valori” (sarebbe meglio sostenere… disvalori) veicolati da questa musica sono quasi sempre gli stessi: mitologia del successo, inteso come lusso e spreco, come consumismo sfrenato, come sessualità anaffettiva, come uso quotidiano di sostanze psicotrope in un’economia esistenziale di ribellismo sfrenato…

La sotto-cultura rap ed i suoi (dis)valori

La questione è stata posta all’attenzione dei media “mainstream” con il successo di Anastasio, che ha vinto nel dicembre 2018 la 12ª edizione di “X Factor” su Sky, con la (bella) canzone “La fine del mondo”: motivetto hip-hop (accattivante) e testo finanche pudico (tendente “soltanto” al nichilismo), rispetto a quel che imperversa da mesi nelle radio (e nelle tv) italiane.

Su queste colonne, ponevamo già allora degli interrogativi sull’esigenza di “contrapporre” a questa offerta “di mercato” delle chiavi di lettura critica (vedi “Anastasio vince X Factor 2018, qualche perplessità sociologica sulla canzone e sui rapper italici” su “Key4biz” del 14 dicembre 2018).

Se non lo si può chiedere a Sky Italia (in quanto emittente commerciale), lo si può chiedere (lo si deve chiedere!) a Rai. In quell’occasione, segnalavamo anche uno dei pochi interventi critici su questa materia: un articolo di Lorenzo Maria Alvaro, pubblicato dall’eccellente mensile “Vita” (diretto da Stefano Arduini): “Droga, individualismo e zero pensieri. Viaggio tra i parolieri della musica trap”. Lo storico mensile del “terzo settore” italiano dedicava l’edizione del dicembre 2018 ad un reportage inquietante sull’uso delle sostanze psicoattive in Italia, una patologia sociale che cresce continuamente: la copertina era intitolata “Droga. Blackout Italia”. E la musica rap/trap sono il volano dell’uso di queste sostanze, che finiscono per essere considerate “normali”, allorquando così non è. Si tratta di una sorta di incredibile “normalizzazione” di una patologia strisciante che dovrebbe essere invece oggetto di grande sensibilità ed attenzione critica, da parte della scuola (quasi completamente assente, rispetto all’analisi critica di questi fenomeni) e… del servizio pubblico radiotelevisivo!

Sulla vicenda dell’osceno Junior Cally, Rai avrebbe dovuto provocare un dibattito ampio e plurale, dedicare non 1 ma 10 puntate di un “talk show” a questi fenomeni (sub)culturali. Come ha sostenuto Red Ronnie (che di musica ne capisce), “uno che inneggia al femminicidio e allo stupro non può andare a Sanremo, equivale a sdoganarlo” (si rimanda al commento video di Ronnie, per capire di cosa stiamo trattando).

Il servizio pubblico radiotelevisivo dovrebbe avere il compito di intercettare intelligentemente, prima di altri, i fenomeni socio-culturali del Paese, nel bene e nel male, proponendo una chiave di lettura critica della realtà, non limitandosi ad assecondare l’esistente. Questo lasciamolo ai broadcaster privati, lasciamolo al “libero” mercato.

Su queste tematiche, silenzio totale anche da parte dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (ma si registra anche l’inerzia dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza), che sopravvive a sé stessa in surreale regime di “prorogatio” (fino al 31 marzo 2020): per martedì 18 febbraio 2020, il Parlamento ha calendarizzato le nomine dei nuovi componenti. Queste nomine si concretizzeranno realmente, o l’elezione verrà rimandata ancora una volta (come già avvenuto per la precedente data “calendarizzata”, il 19 dicembre 2019)?!

Avremo presto all’opra intelligenze critiche e spiriti liberi che possano ridare senso ad una istituzione fondamentale qual è Agcom, preziosa – non meno della Rai – per la nostra democrazia?! Nel mentre, nessuna procedura di pubblica evidenza, nessun invito a presentare candidature: trasparenza zero, meritocrazia evanescente.    

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