Sulle colonne di una rubrica come “ilprincipenudo” – che ha come sottotitolo giustappunto “ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale” – non può mancare un qualche commento critico sulla vicenda Vivendi-Mediaset, che deve stimolare una serie di riflessioni da almeno tre punti di vista: mediologico, culturologico, economico.
Le tre prospettive sono naturalmente intrecciate, e, soprattutto in Italia, dovremmo aggiungere anche quella tecnologica, così come, “last but not least”, quella politica.
Procediamo con ordine: il sistema mediale italiano si caratterizza da molti decenni per una qual certa vischiosità, ovvero per dinamiche di lenta evoluzione, se si confronta lo scenario nazionale con il dinamismo di altri Paesi dell’Europa occidentale.
È un dato di fatto che la storica dinamica “duopolistica” Rai-Mediaset sia stata superata da qualche anno dall’attuale assetto “triopolistico”, con un gruppo Sky Italia che è ormai il maggior produttore di fatturato nell’economia complessiva del sistema audiovisivo nazionale. Sempre di oligopolio, trattasi comunque. È un dato di fatto che i livelli di concentrazione industriale, nell’economia del sistema televisivo nazionale, sono notevoli, e le difficoltà che debbono affrontare soggetti come La7 alias Gruppo Cairo ne sono la riprova, così come la dinamica sopravvivenziale cui sono costrette da decenni le emittenti televisive locali.
Il discorso ha radici lontane nel tempo, ma può essere riassunto in un concetto: lassismo del sistema di regole e di controlli.
Le norme contro la concentrazione nel sistema mediale italiano sono oggettivamente deboli e lasche (sia a livello di concentrazione verticale che orizzontale che trasversale), e chi dovrebbe vigilare e controllare (si chiami Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni piuttosto che Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) si è sempre mostrato assai morbido e tollerante, anche a causa di leggi spesso suscettibili di interpretazioni assai variabili.
Basti pensare ad un controverso strumento come il “Sic”, ovvero quel grande calderone che è il “Sistema Integrato delle Comunicazioni”, cui si dovrebbe fare riferimento per misurare i livelli di concentrazione…
Si osservi che la questione riguarda il settore televisivo certamente, ma anche il settore dell’editoria (ed altri ancora): basti pensare alla concentrazione venutasi a determinare nella scorsa primavera tra i quotidiani “La Repubblica”, “La Stampa”, “Secolo XIX”, eccetera.
Anche nella radiofonia, si è assistito recentemente a processi concentrativi assai significativi…
Come è noto, domani venerdì 23 dicembre si assisterà ad un bel “duello” in sede Consob: il braccio destro di Vincent Bolloré in Vivendi e Telecom, Arnaud de Puyfontaine, comparirà di fronte a Giuseppe Vegas, insieme ai rappresentanti di Mediaset che hanno denunciato una manipolazione del mercato. Ed è di ieri la notizia dell’avvio di una istruttoria “ad hoc” da parte dell’Agcom: in base all’articolo 43 del “Testo Unico”, (più precisamente, si tratta del comma 11 del “Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi e Radiofonici” alias “Tusmar”) che si riferisce alle “posizioni dominanti nel sistema integrato delle comunicazioni”, le imprese che registrano ricavi nel settore superiori al 40% non possono conseguire ricavi superiori al 10% nel “sistema integrato delle comunicazioni” (si evoca sempre il fantasma del “Sic” della Legge Gasparri…). In parole semplici, la legge italiana non consente il controllo simultaneo di Telecom Italia e Mediaset, ma d’altronde oggi Vivendi controlla “soltanto” un 30 % di Mediaset ed un 24 % di Telecom. E peraltro esercitare un “condizionamento strategico” è possibile anche senza disporre di una quota di maggioranza…
Si ricordi che, secondo dati relativi all’esercizio 2015, il Gruppo Vivendi ha dimensioni ben più grosse del Gruppo Mediaset, in un rapporto che sta 3 ad 1, a livello di fatturato e forza-lavoro. Vivendi 10,8 miliardi di euro e Mediaset 3,5 miliardi, Vivendi 16.500 dipendenti e Mediaset 5.500 dipendenti… “Size does matter”, in questi giochi.
Sarebbe paradossale che la legge italiana, scritta a suo tempo per non disturbare nessuno dei “player” in campo (come la Legge Mammì, la Legge Gasparri è stata una norma conservativa, che ri-fotografava l’esistente), divenisse lo strumento per consentire ad uno “straniero” quel che non è possibile per un “italiano”…
Scriveva qualche mese fa il collega Marco Mele, firma storica del confindustriale “Il Sole – 24 Ore”, sul suo blog “Media 2.0”: “Il nostro è un mercato povero perché concentrato. Povero perché la concentrazione si è sempre difesa rastrellando i budget pubblicitari con sconti e “premi” agli acquirenti di spazi. Povero perché la concentrazione ha rastrellato i diritti di trasmissione, impedendo la nascita di un’industria produttiva indipendente”.
A critiche come questa, da sempre, i grandi gruppi industriali hanno spesso risposto sostenendo che “size does matter” (appunto), che deve essere “il mercato” ad autoregolarsi, e che uno Stato tollerante verso i processi di concentrazione è in verità uno Stato lungimirante, perché consente anzi stimola dimensioni industriali che non possono non prevedere – prima o poi – una crescita anche fuori dai confini nazionali, e quindi lo sviluppo di “player” adeguati alla competizione globale e planetaria, in grado di affrancarci dallo storico “provincialismo” italico.
Ed è senza dubbio vero che le economie di scala hanno consentito ad un gruppo oligopolista come Mediaset di espandersi fuori dai confini nazionali, ma purtroppo questa evoluzione s’è sostanzialmente limitata al mercato spagnolo, essendo presto svanite le ambizioni produttive internazionali-planetarie che erano insite nella erratica operazione Endemol. Lo Stato italico non ha certo stimolato una convergenza strategica di Mediaset con altri “player” (Rai in primis), per entrare con dimensioni adeguate nell’arena internazionale.
Il mercato mediale italiano – e non soltanto l’industria televisiva – è comunque sottodimensionato rispetto alle potenzialità che ha.
Vale per tutti i settori: dalla musica all’editoria, dai quotidiani alla pubblicità…
È piccolo in relazione alle dimensioni della popolazione, al prodotto lordo pro capite, ecc.
È piccolo rispetto alle dimensioni della competizione internazionale.
E non è stato particolarmente appetibile, almeno fino ad oggi (soprattutto nell’arena dei media), rispetto ai competitori stranieri.
È stato finora considerato un mercato piccino e chiuso, soprattutto perché protetto da uno Stato spesso “nazionalista” e certamente conservativo-conservatore.
Alle leggi deboli in materia di “concentrazione industriale”, si sono peraltro affiancate in Italia leggi deboli – se non inesistenti – in materia di “conflitto d’interessi”: al di là del caso estremo di Silvio Berlusconi, nella sua ormai metabolizzata dinamica politica, basti pensare a chi controlla i maggiori gruppi della stampa quotidiana e periodica, ed alle inevitabili dinamiche distorsive determinate da interessi extra-settoriali. Le patologie, insomma, sono diffuse, in molti settori del sistema culturale nazionale.
Un quotidiano nel cui azionariato è presente un socio importante con interessi – esemplificativamente – nel settore della sanità (o dell’edilizia che sia) avrà mai la capacità di proporre un giornalismo indipendente dagli interessi padronali nel settore della sanità stessa?!
Quante sono le testate giornalistiche italiane che possono definirsi realmente indipendenti (almeno a livello di stampa “mainstream”)?! Il problema, insomma, va veramente ben oltre il “caso” Mediaset!
E della Radiotelevisione Italiana spa alias Rai, che dire?! Non ci sembra che l’evoluzione degli ultimi anni – riformina renziana inclusa – mostri modificazioni significative rispetto alla tradizionale dipendenza dall’“editore di riferimento” (copyright Bruno Vespa), ovvero dal Governo piuttosto che dal Parlamento. E quel che sta scandalosamente avvenendo rispetto alla gestazione della nuova “convenzione” tra Stato e Rai è la riprova della sudditanza che si vuole imporre alla televisione pubblica nazionale…
L’assetto del sistema mediale italiano si caratterizza anche per un livello di “pluralismo” non eccellente: sia ben chiaro, non siamo di fronte ad una situazione drammatica, o, peggio, catastrofica, perché nelle edicole le voci plurali certamente ci sono (dallo storico “il Manifesto” al giovane “Il Fatto Quotidiano” al nuovo, a destra, “La Verità”), e nei canali televisivi il digitale terrestre ha senza dubbio esteso lo spettro dell’offerta complessiva (anche se – va segnalato – non esiste un’emittente televisiva realmente “di opposizione”, per non dire politicamente “antagonista”)…
C’è senza dubbio pluralismo d’impresa anche nel settore cinematografico si osservano dinamiche di concentrazione, che, da un lato, rafforzano forse il sistema industriale (una parte del sistema), ma, dall’altro, riducono gli spazi di mercato per le piccole imprese ed i produttori indipendenti (e vanificano le chance per le “start-up”).
È di ieri la notizia della costituzione del braccio operativo di Sky Italia nel settore “theatrical” insieme ad un gruppo di imprese che si sono alleate: Vision Distribution (affidata alla guida del giovane Nicola Maccanico, già Dg di Warner Italia) si occuperà di distribuzione cinematografica ed è il risultato di un accordo tra Sky e cinque tra le principali società di produzione indipendenti italiane: Cattleya, Indiana, Lucisano Media Group, Palomar, Wildside…
Ed il tanto decantato “tax credit” ha realmente irrobustito il tessuto industriale della produzione cinematografica ed audiovisiva italiana, ed esteso il pluralismo espressivo, oppure ha semplicemente rafforzato un manipolo di “medie imprese” (le succitate, certamente)?!
Del web, preferiamo qui tacere, perché, a fronte delle miracolose prospettive annunciate dai suoi fautori ovvero l’estensione infinita della ricchezza informativa e quindi della democrazia comunicazionale, osserviamo comunque spesso processi degenerativi senza alcun controllo, in materia di “hate speech” e diffamazione e di “bufale” infinite, e suscita discreta perplessità anche la recente iniziativa promossa dalla Presidente della Camera Laura Boldrini, che ha lanciato l’idea di un “appello” contro odio e disinformazione, ovvero il progetto di dar vita a un documento, firmato dai cittadini, con proposte e suggerimenti (sic) da inviare a Facebook, Twitter e Google (torneremo presto sulla questione).
E che dire, al di là dell’assenza di minimi controlli sui flussi comunicazionali sul web, della pressoché totale assenza di “obblighi” per i sempre più potenti “over-the-top”, che si arricchiscono su contenuti altrui, e non investono 1 euro uno nella produzione di contenuti di qualità?! Si potrà anche dire peste e corna di Mediaset, ma va riconosciuto che il gruppo di Cologno – vincoli e obblighi di legge o meno – ha investito oggettivamente molto nella produzione di contenuti (anche di qualità) nell’industria audiovisiva nazionale, contribuendo in modo significativo alla italianità culturale.
E che dire, ancora, dell’assenza di una strategia pubblica organica di interazione tra il “software” e l’“hardware”, ovvero tra i “contenuti” e le “reti”?
Possibile che debba essere l’“invasore” straniero a ragionare di sinergia auspicabile tra televisione e telefonia, tra broadcasting e tlc, nell’operazione congiunta di “aggressione” verso Mediaset e Telecom Italia?
E perché, di grazia, deve essere “un francese” e non “un italiano” a ragionare sulle chance di creare una “Netflix europea” o magari di un grande produttore pan-europeo di contenuti audiovisivi?!
Il problema di fondo della politica mediale italiana è stata l’assenza di una regia strategica del “sistema Paese”, una regia culturale ed industriale al contempo, che si ponesse come obiettivi essenziali il rafforzamento dell’industria (grandi gruppi, certo, ma anche imprese indipendenti) e l’estensione del pluralismo (informativo ed espressivo).
Un esempio sintomatico, di questa (non) politica frammentaria, divisa, compartimentalizzata?! Un paio di giorni fa, a Roma è stata organizzata la quinta edizione degli “Stati Generali della Cultura” (omettiamo commenti ironici sull’ambiziosa titolazione), promossi da Confindustria ovvero dal quotidiano “Il Sole 24 Ore”: dotti interventi teorici, diffusi apprezzamenti rispetto alle iniziative assunte dal Governo guidato da Matteo Renzi e soprattutto dal Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini (in particolare attraverso lo strumento fiscale del cosiddetto “art bonus”), ma, in quattro ore quattro di dibattito, la Rai non è stata mai nemmeno evocata (incredibile, ma vero!). Di grazia, ma come si può fare “politica culturale” in un Paese, senza coinvolgere attivamente il “public service broadcaster”?!
E che dire della “logica” politica con cui si è pensato di ripartire il famoso “extra gettito” che deriva dal pagamento del canone radiotelevisivo Rai attraverso la bolletta elettrica?
La vicenda Mediaset-Vivendi è quindi il tassello di un puzzle che propone uno scenario irrisolto, debole e frammentato.
Crediamo che la “italianità” di un gruppo come Mediaset-Fininvest debba essere difesa comunque, ma riteniamo che la situazione conflittuale venutasi a determinare debba stimolare una riflessione finalmente organica, sistemica, strategica su quello che può e deve essere il ruolo della “mano pubblica” nel sistema culturale e mediale (con particolare attenzione al fattore digitale). A livello interno (nazionale) così come a livello esterno (internazionale).
Un’industria culturale forte, digitalmente evoluta, è indispensabile per lo sviluppo socio-economico del Paese. E si deve superare la retorica della promozione del “made in Italy”, che ha purtroppo visto finora molte chiacchiere e pochi fatti. Il “made in Italy” regge sulle gambe della moda, del design, dell’enogastronomia, del turismo culturale, del “bello e ben fatto”, ma purtroppo non ancora sulle gambe dell’industria audiovisiva e culturale, alla quale lo Stato non ha ancora prestato l’attenzione che merita.
I “comitati per la difesa dell’italianità di Mediaset”, richiamati ieri da Berlusconi in occasione della presentazione dell’ultimo libro dell’immarcescibile Bruno Vespa, non rappresentano – parafrasando Lucio Battisti – uno “scoglio” sufficiente per arginare il “mare” che si è scatenato verso l’Italia. E quella di Vivendi potrebbe essere soltanto la prima delle “tempeste” da affrontare nei prossimi anni…