Deficit di comunicazione

Ilprincipenudo. Tra Facebook e Cgil: una conferma del deficit cognitivo delle industrie culturali e delle imprese digitali

di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale - IsICult) |

Due convegni in contemporanea oggi a Roma, uno di Facebook e l’altro della Cgil: il primo comunica numeri in libertà sui posti di lavoro prodotti nel nostro paese, il secondo si pone un obiettivo troppo ambizioso con gli 'stati generali della cultura'

Mondi non comunicanti, compartimenti stagni, monadi isolate: queste immagini sintetizzano efficacemente il deficit di comunicazione ed interazione (e quindi anche di sinergia possibile) tra i vari “segmenti” del sistema culturale e mediale italiano.

Infiniti tasselli di un puzzle che tarda a comporsi.

#ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.
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Ne abbiamo avuto deprimente riprova questa mattina, osservando come due soggetti importanti del sistema (ben diversi tra loro, ovviamente, ma certamente rilevanti) come Facebook Italia e la Cgil si ignorassero completamente, organizzando in contemporanea, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, due eventi: la presentazione di una (pseudo) ricerca sull’impatto economico di Facebook in Italia, ed un tentativo (modesto) di “stati generali della cultura” da parte del maggior sindacato italiano, qual è la Cgil.

Il primo nelle decadenti stanze del Ministero dello Sviluppo Economico a via Veneto, il secondo nelle accoglienti sale della Casa del Cinema a Villa Borghese.

Dotati (grazie alla collega Lorena Pagliaro) del dono dell’ubiquità, abbiamo potuto comprendere – ancora una volta – come i mondi “culturali” e “digitali” italiani continuino a soffrire di un profondo deficit di comunicabilità. La mano destra non sa quasi mai cosa sta facendo la sinistra, e viceversa.

L’Italia resta un Paese frammentato, e l’immagine dei “mille campanili” è sintomatica di un policentrismo strutturale e genetico che finisce spesso per trasformare in dispersione quel che dovrebbe invece rappresentare una ricchezza. Con buona pace di quella disseminazione che la “cultura del digitale” dovrebbe stimolare.

Il nostro sistema culturale (tra patrimonio ed attività) è ricco e plurale, ma così… plurale da essere maledettamente dispersivo: da sempre, manca una regia, un disegno, una strategia.

Si finisce quasi per rimpiangere l’unica vera “politica culturale” che ha vissuto l’Italia, ai tempi del Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop, 1937-1944), durante il controverso regime fascista.

D’altronde, quelli che erano i pilastri di allora (da Rai a Cinecittà all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana) sono ancora oggi in qualche modo soggetti attivi del sistema culturale-mediale italiano, ed ardua è la risposta alla domanda su quali nuove soggettività istituzionali abbia prodotto la Repubblica, dal 1945 al 2015, nel settore culturale e mediale. Ciò basti.

Abbiamo assistito oggi a due iniziative, discretamente affollate entrambe, che non hanno prodotto un comunicato stampa (se non da parte di Facebook), né un dispaccio di agenzia (almeno fino alle ore 16 odierne, a distanza di tre ore e più dalla conclusione dei due eventi), né hanno proposto una trasmissione in streaming (questa è l’Italia digitale odierna!).

Eppure non si è trattato di incontri riservati di logge massoniche, bensì di riunioni pubbliche che hanno affrontato tematiche discretamente delicate e strategiche (che verosimilmente interessano molte migliaia di persone, al di là delle elette schiere dei partecipanti).

Già questa osservazione evidenzia qualcosa che non quadra: si è allora trattato forse di incontri mirati ad inviare segnali in codice a misteriose entità istituzionali o politiche?! Ipotizziamo, con cattiveria: preoccupata forse la filiale italiana di Facebook di inasprimenti fiscal-tributari dell’italico governo, chiede al Mise di ospitare la presentazione di una ricerca (…) che vorrebbe dimostrare quanto sia importante il contributo di questo “social network” all’economia nazionale?!

Preoccupata l’area comunicazione della Cgil di non essere coinvolta nella riforma della Rai e nelle operazioni di mini-riforma del dicastero che ha avviato il Ministro Dario Franceschini, promuove un incontro per affermare il proprio (indebolito) ruolo identitario?! Facebook si rivolge ai decision maker, mentre la Cgil non si attrezza nemmeno con un ufficio stampa…

I risultati di ricaduta mediale di entrambe le iniziative tendono comunque a zero.

Da non crederci.

La presentazione di Facebook Italia ci ha sconcertati: nessuna cartella stampa, nessun materiale per i partecipanti, una presentazione da parte di Luca Colombo, Country Manager di Facebook Italia, che definire essenziale è eufemismo per non rimarcarne la debolezza.

Contenuti anche interessanti, ma rappresentati con grafica illeggibile, e nell’impossibilità, per un lettore serio ed attento, di comprendere la affidabilità di stime la cui metodologia non è stata minimamente descritta.

Facebook avrebbe prodotto non si sa bene quanti miliardi di euro di “ricaduta economica” nel nostro Paese, e provocato occupazione per 70mila lavoratori.

Oh, perbacco!

Come dove quando?!

Non è dato sapere.

Ancora una volta, numeri in libertà, fuochi d’artificio, cui lo spettatore (cittadino, giornalista, operatore, finanche rappresentante istituzionale) dovrebbe credere perché “marchiati” Deloitte.

In effetti, nel gennaio 2015 la spettabile ditta Deloitte ha reso noto uno studio commissionato da Facebook: si tratta del “Facebook’s Global Economic Impact”, una ricerca di poche decine di cartelle (il titolo del file, prodotto da Deloitte/Facebook per il Regno Unito, è “Deloitte Uk Global Economic Impact of Facebook”), che, a pagina 3, reca una simpatica tabellina intitolata “Total country impact”.

L’Italia reca 6 miliardi di dollari Usa (!!!) di “impact” generato e 70 (mila) alla voce “jobs”. La Francia è a quota 7 miliardi (stime prodotte con l’accetta, dato che si trattano i miliardi di dollari… senza nemmeno i decimali!), e 78 (mila) a livello di “jobs”.

La ricerca (?!) del 2015 si pone quasi come edizione aggiornata di un precedente studierello Deloitte, che era stato presentato nel 2012.

Ricordiamo che Facebook è stata fondata nel 2004 a Menlo Park da Mark Zuckerberg ed è attiva in Italia dal 2009.

Questo studio ricorda una iniziativa simile promossa nel 2010 da Google, per “dimostrare” l’impatto del motore di ricerca nelle economie nazionali: “How the internet is trasforming the economy”, ma almeno il colosso di Mountain View ebbe la buona creanza di “declinare” a livello nazionale le ricerche, con approfondimenti locali, affidati a Boston Consulting Group (la versione italiana è stata presentata nel 2011).

E qui ci fermiamo…

Se questi sono i numeri, se queste sono le ricerche che dovrebbero stimolare la sensibilità del Governo italiano, ci viene da sorridere (o da piangere).

Quello odierno è stato presentato come “il primo evento mai organizzato da Facebook nella Capitale”.

Ci auguriamo che ce ne siamo di migliori.

E prendiamo certamente per buone le altre stime sparate da Colombo: “Sono 1 miliardo e 400 milioni, a livello planetario, le persone che utilizzano Facebook, e di queste 890 milioni si connettono ogni giorno. In Italia, 20 milioni di persone accedono ogni giorno, e di queste 17 milioni accedono da mobile, cioè smartphone o tablet. Stiamo assistendo a un graduale passaggio da desktop a mobile: più di un terzo del totale dei nostri utenti non utilizza più il pc per connettersi a Facebook”.

Ci piace citare un aforisma del gran maestro della fantascienza, Arthur C. Clarke: “Any sufficiently advanced technology is indistinguishable from magic”.

E quindi sia Google sia Facebook tirano fuori dal cappello magico numeri impressionanti ed immagini fantasiose.

Andiamo alla Casa del Cinema.

Qui, atmosfera non autocelebrativa, ma piuttosto critica (con striscioni in sala di imprese culturali in crisi estrema, come la Deluxe messa in liquidazione dalla Cinecittà di  Luigi Abete), e senza dubbio verso il Governo Renzi, ovvero le amministrazioni di Roma Capitale (Sindaco Ignazio Marino) e Regione Lazio (Presidente Nicola Zingaretti).

Il titolo dell’iniziativa promossa dal Sindacato dei Lavoratori della Conoscenza della Cigl era: “Roma chiama… Politiche settoriali nazionali e territoriali. Produzione culturale e spettacolo”.

Queste le premesse dell’iniziativa: “se Roma è l’immagine del Paese, in quanto Capitale, la sua desertificazione culturale, con la chiusura di teatri (prosa e musica) e cinema, è l’immagine nazionale in cui le politiche culturali si riflettono”.

La Cgil-Slc ha sottolineato “l’urgenza di uscire da una situazione di crisi ed emergenza che dura da troppi anni”, e la necessità di “dotare il settore di un finanziamento certo e importante, che permetta produzione e programmazione delle attività culturali e di leggi di riforma di sistema (cine-audiovisivo e spettacolo) nella vigenza dell’attuale legislatura”. Anche in questo caso, ahinoi, non una paginetta una di comunicato stampa, e nessuna traccia di quella che, un tempo (ah, bei tempi…), sarebbe stata definita, in sindacalese, la “piattaforma programmatica”.

Sono questi forse gli effetti della modernità liquida e della digitalizzazione della politica culturale?!

La kermesse è stata interessante, ma certamente non innovativa, e sicuramente la formula “stati generali della cultura” è apparsa eccessivamente ambiziosa.

Anzitutto, va rimarcata la (totale) incredibile assenza di rappresentanti istituzionali. Nessuno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo, nessuno dei due assessori competenti (Lidia Ravera per la Regione Lazio, Giovanna Marinelli per il Comune di Roma)…

Già questo è un segnale sintomatico di un deficit dialogico.

Abbiamo comunque ascoltato testimonianze stimolanti e tesi valide: senza dubbio condivisibile la critica alla perdurante sterile “partizione” di competenze che caratterizza il sistema italiano, da una parte il Mise che interviene su Rai e dall’altra parte il Mibact che interviene sul sistema culturale “extra-Rai”.

Questa criticità è stata ben richiamata sia dal Presidente dell’Anica Riccardo Tozzi sia dal Segretario Generale della Slc Cgil nazionale Massimo Cestaro.

Cestaro ha addirittura sostenuto che, a fronte delle tante associazioni settoriali e delle lobby piccole e grandi, potrebbe essere il sindacato ad incarnare la “soggettività” unitaria che dovrebbe stimolare politiche culturali e mediali organiche, sistemiche, lungimiranti. Temiamo che si tratti di un ottimismo della volontà destinato a scontrarsi con quel policentrismo infinito che evocavamo, così come con quel deficit di conoscenza dei meccanismi dell’industria culturale e mediale nazionale.

Anche in questa occasione, di fatto, peraltro, nessun dato, nessuna analisi, nessuna ricerca: ancora una volta, parole-parole-parole.

L’appassionato giornalista Luca Del Fra (già firma “culturologica” della compianta “l’Unità”), chiamato come moderatore dell’iniziativa, ha fatto simpaticamente esercizio di autocritica, sostenendo – in chiusura – che aveva elaborato un piccolo dossier di dati, ma purtroppo se l’è… dimenticato a casa!

Da notare che, da una parte, così come Facebook Italia ha ignorato, nella propria kermesse, le questioni del sistema culturale italiano, la Cgil, dall’altra parte, ha sostanzialmente ignorato le problematiche dell’agenda digitale, il ruolo degli “over-the-top” nell’industria dei contenuti, le problematiche dell’emittenza radiotelevisiva locale e dell’editoria, eccetera.

Convergenza assente, digitale sfuggente, cultura sofferente.

Mondi non comunicanti, compartimenti stagni, monadi isolate.

Questa è l’Italia culturale 2.0.

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