Questa rubrica si pone anche a mo’ di “osservatorio critico” sulle politiche culturali e le economie mediali italiane, e quindi non possiamo non dedicare attenzione agli accadimenti estivi (agosto e metà settembre), proponendo una chiave di lettura di medio periodo, dedicando attenzione – come sempre – sia alle notizie “macro” sia alle notizie “micro”, nel convincimento che spesso “il diavolo è nei dettagli”.
L’ultima edizione de “ilprincipenudo” – dedicata a vicende di rilievo nazionale – è datata 1° agosto (vedi “Non solo Rai. Siae, musei gratis e legge Cinema gli altri temi caldi dell’industria culturale”), ed una riflessione “a freddo” su quel che è accaduto nelle ultime settimane è opportuna.
Partiamo da ieri: la corrente orfiniana del Partito Democratico ha organizzato a Roma presso la Città dell’Altra Economia (l’ex Mattatoio di Testaccio), nell’ambito della sesta Festa di “Left Wing” (rivista culturale e politica) una tavola rotonda, intitolata “Idee per la Rai e il servizio pubblico della televisione”, coordinata dal senatore Francesco Verducci e dalla consigliera di amministrazione Rai Rita Borioni. Audience modesta, una trentina di persone complessivamente, la quasi totalità annunciati come intervenienti, età media tra i cinquanta e sessanta anni (nessun “under 30”!).
Toni mesti e cupi, depressi e preoccupati. Più di un interveniente ha criticato la renziana legge di riforma della Rai, sostenendo che se era sì apprezzabile l’intenzione di semplificare la gestione dell’azienda – assegnando enorme potere all’Amministratore Delegato –, è stato sottovalutato il rischio della perdurante sudditanza dello stesso nei confronti di quel potere politico-partitocratico la cui influenza si voleva ridurre.
Si soffre quindi ora delle conseguenze di un decisionismo semplificatorio avventato, con il rischio di un servizio pubblico paradossalmente più asservito di prima al sistema dei partiti, anzi soprattutto al Governo: qualcuno ha evocato nostalgicamente la “tripartizione” della “Prima Repubblica” (il Tg1 alla Dc, il Tg2 al Psi, il Tg3 al Pci), sostenendo che ora si assiste al rischio di una sorta di “tg unico”, al servizio dell’Esecutivo.
Molti gli spunti interessanti: la consigliera Rita Borioni ha rivendicato come comunque negli ultimi anni si sia posto il problema del “lavoro” come prioritario nelle politiche dell’azienda (valorizzazione delle risorse interne e superamento del precariato), anche se i risultati concreti ancora tardano; il consigliere Riccardo Laganà (eletto in rappresentanza dei lavoratori) ha evidenziato come si debba superare lo stato di “depressione diffusa” che riguarda buona parte dei dipendenti Rai, demotivati in quanto non adeguatamente valorizzati nelle loro professionalità e nel loro impegno, anche a causa di un deficit tecnologico (attrezzature, hardware) che rende sempre più debole la Rai; Mihaela Gavrila, responsabile del Coris (Dipartimento Comunicazione e Ricerca Sociale) dell’Università di Roma “Sapienza”, ha rimarcato come sia essenziale dotare finalmente la Rai di un “Ufficio Studi”, dato che si tratta dell’unico “public service broadcaster” in Europa a non esserne dotato, essendo tutta l’attività di ricerca concentrata sul marketing; il direttore del Tg1 Andrea Montanari ha posto la questione del “perimetro” delle attività di Viale Mazzini, che presidia troppi settori, ma non è dotata di risorse adeguate, e quindi dovrebbe ragionare su una ridefinizione focalizzata del proprio intervento; Stefano Coletta, brillante direttore di Rai3, ha evidenziato come sia indispensabile rendere più flessibili ed aperti i meccanismi che consentano alla Rai di acquisire risorse creative dall’esterno, soprattutto giovani, concentrando le strategie sulla produzione di opere originali ed innovative… Impressione complessiva?!
Molte belle idee ma certo non nuove, preoccupazione forte per i rischi latenti, e comunque debolezza della proposta politica, dato che coloro che hanno promosso l’incontro sono anche coloro che hanno governato il Paese – e quindi, in qualche modo, anche la Rai – per oltre quattro anni (dal febbraio 2014 al dicembre 2016, con Matteo Renzi, e dal dicembre 2016 al giugno 2018, con Paolo Gentiloni). Non è sufficiente leccarsi le ferite o piangere sul latte versato: si è registrata ieri una difficoltà nella ridefinizione di una strategia organica, di un chiaro profilo identitario del servizio pubblico… Il senatore Verducci ha annunciato che la riunione di ieri intende porsi come prima occasione di un “think tank”.
L’incontro degli orfiniani ha confermato peraltro lo stallo grave nel quale versa la Rai, in assenza di un Presidente: le cronache ed i sussurri segnalano serrate trattative tra la Lega e Forza Italia, nel perdurante tentativo di Matteo Salvini di superare il veto berlusconiano su Marcello Foa (che di fatto sta svolgendo il ruolo di “consigliere anziano facente funzione”), mentre la bicamerale Commissione di Vigilanza presieduta dal forzista Alberto Barachini è stata rimandata a mercoledì della prossima settimana, 19 settembre.
In sostanza, la Rai è paralizzata da mesi. Ancora una volta una merce di scambio nelle logiche della partitocrazia di sempre: lo scandalo si rinnova, nell’ipocrisia dei partiti che predicano bene (“fuori i partiti da Viale Mazzini!”, a destra ed a manca) e razzolano male (“tu dai un dirigente a me, ed io concedo un dirigente a te…”).
Nel mentre, lo scenario televisivo italiano segnala la decisione di Mediaset di rifocalizzarsi sul business “free” (ieri l’altro a Roma Pier Silvio Berlusconi ha annunciato una Rete4, diretta da Sebastiano Lombardi, rafforzata nel presidio delle news) ed il rischio di un operatore “pay” tendenzialmente monopolista è ormai concreto (entro qualche settimana un’altra parte di Premium verrà ceduta a Sky), con una Sky Italia che deve peraltro attendere le conseguenze dei riassetti del gruppo a livello planetario.
Il fronte del “diritto d’autore” si è caratterizzato per due notizie importanti, dapprima sul livello nazionale e poi sul livello europeo: lunedì scorso 10 settembre, si è concluso il percorso elettorale (che ha registrato varie criticità, nel corso dei mesi) che ha finalmente portato al rinnovamento dei vertici della Società Italiana Autori Editori (Siae).
La presidenza è stata affidata a Mogol (alias Giulio Rapetti), icona storica e nume tutelare della canzone italica, e nel Consiglio di Gestione della Siae siedono ora Roberto Razzini (manager della Warner Music), Claudio Buja (presidente della Universal Music Ricordi Publishing), Federico Monti Arduini (cantautore noto con lo pseudonimo di “Il Guardiano del Faro”), Salvo Nastasi (fino a poche settimane fa Vice Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, già consigliere di fiducia di Matteo Renzi in materia di politica culturale, e prima ancora potentissimo Dg dello Spettacolo dal Vivo al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali). Il Consiglio di Sorveglianza della Siae vede ora alla presidenza il pugnace autore televisivo Andrea Purgatori, scrittore, sceneggiatore, giornalista (è stato tra l’altro anche portavoce dell’associazione 100autori), mentre Vice Presidente è stato confermato Paolo Franchini (editore e, tra l’altro, Direttore della Fem – Federazione Editori Musicali).
Si tratta di una rivoluzione? No. Di un “new deal”? No. Potremmo definirlo un semplice rinnovamento in una linea di continuità, anche se non è dettaglio da poco che la Siae sia ora guidata da un autore, e non più da un editore (come è invece stato dal con Filippo Sugar dal marzo 2015 al settembre 2018).
Previsioni?! Soundreef e gli alfieri della liberalizzazione avranno forse a che fare con una Siae meno arroccata nella difesa ad oltranza del proprio perdurante monopolio. Alcuni attribuiscono questo nuovo assetto ad un accurato lavorio relazionale intessuto dal regista gran felpato Gianni Letta (notoriamente, da sempre il principale consigliere di Silvio Berlusconi dedica molta attenzione al mondo della cultura) e dal Direttore Generale Gaetano Blandini, manager di grandi capacità mediative (e che peraltro gode della stima – tra gli altri – giustappunto di Letta).
Si ricordi sempre “en passant” che Siae è anche socia della Rai (affianco al Ministero del Tesoro), seppur con una quota simbolica di soltanto lo 0,44 % delle azioni della “s.p.a.”: tante volte – anche su queste colonne – abbiamo sostenuto che il senso di questo ruolo della Siae in Rai dovrebbe essere oggetto di una riflessione strategica…
Il futuro della Siae si intreccia con le vicende del Governo, che sembra essere combattuto, al proprio interno: se è verosimile che a Matteo Salvini poco assai importi della Siae, è noto che il Movimento 5 Stelle combatte da sempre il monopolio di fatto di Viale della Letteratura, e quel che è accaduto ieri l’altro in occasione delle votazioni al Parlamento Europeo sulla direttiva “copyright” evidenzia la posizione.
Come è noto, nel corso dell’assemblea plenaria di Strasburgo di mercoledì scorso 12 settembre, il Parlamento europeo ha approvato la direttiva per il copyright, dopo lo stop di luglio. Hanno votato a favore 438 parlamentari: in 226, si sono detti contrari e 39 si sono astenuti.
Sul tavolo gli emendamenti agli articoli più discussi e controversi: l’11, che interviene sul rapporto fra gli editori e le piattaforme che diffondono i loro contenuti o parte dei loro contenuti online, ed il 13, relativo al riconoscimento automatico del materiale che viola il diritto d’autore. L’industria dei contenuti ha manifestato il proprio plauso, sia nella componente economica sia in quella artistica (dalla Fimi alla Siae, per intenderci).
Il Vice Premier e Ministro del Lavoro Luigi Di Maio ha manifestato la sua netta contrarietà, sostenendo che “il Parlamento Europeo ha introdotto la censura dei contenuti degli utenti su Internet. Per me, è inammissibile”. Il Presidente della Siae Mogol ha invece dichiarato “oggi la cultura vince sui soldi”. Al di là delle dichiarazioni di entusiasmo e di delusione di una fazione o l’altra, va segnalato che si è per ora trattato – nella sostanza concreta – di una “dichiarazione di principio” (per quanto importante nella sua rilevanza politica): la proposta di norma passa nelle stanze dei negoziati con il Consiglio, e ci vorrà non poco tempo (due anni?), prima che venga recepita negli ordinamenti nazionali…
Sulla Siae, Alberto Bonisoli, il neo Ministro dei Beni e delle Attività Culturali (e, da qualche settimana, non più del turismo, essendo la delega passata al leghista Gian Marco Centinaio) si è peraltro espresso finora in modo diplomatico, senza schierarsi.
E nemmeno ci sembra abbia preso posizione netta sulla querelle tra Netflix e gli esercenti cinematografici italiani: che il Festival del Cinema di Venezia abbia assegnato il premio più importante ad un film prodotto da Netflix, “Roma” di Alfonso Cuaròn, evidenzia – anche dal punto di vista iconico e simbolico – le trasformazioni radicali che l’industria dell’audiovisivo sta vivendo.
Trasformazioni che certo non sono state affrontate alla radice dalla nuova legge sul cinema e l’audiovisivo (firmata Dario Franceschini ed Antonello Giacomelli), che peraltro lentamente sta entrando a regime, ma i cui risultati potranno essere realmente apprezzati soltanto a fine 2019 (i decreti attuativi sono stati emanati con lentezza e l’intera macchina burocratica del Ministero è sotto stress): nel mentre, si registra una sovrapproduzione di film cinematografici “theatrical”, buona parte dei quali non vedono la luce (il buio) di una sala cinematografica, né vengono trasmessi dai “broadcaster”…
Si legge infatti nel testo che ha accompagnato la presentazione del documento curato dal Mibac, “Tutti i numeri del cinema italiano” (2017), proposto a Venezia il 4 settembre 2018 dal Dg Cinema Nicola Borrelli: “la produzione di lungometraggi cinematografici in Italia continua a salire di anno in anno: nel 2017 hanno ottenuto il nulla osta per la visione in pubblico ben 235 titoli, un nuovo record dopo quelli segnati negli anni precedenti, con una crescita del 5 %, rispetto ai 223 titoli del 2016. L’aumento dei film non implica, però, un rafforzamento del settore”. Questa “inflazione” produttiva “va di pari passo con un generale ‘impoverimento’ del settore produttivo: a fronte di un aumento dei titoli, il costo totale di produzione registra un calo drastico: dai 344 milioni di euro del 2016, si passa ai 263 milioni del 2017, con il costo medio dei film d’iniziativa italiana che scende da un già basso 1,8 milioni di euro a 1,5 milioni”.
Insomma, tanti film (troppi film!) a “low budget”, che finiscono per divenire invisibili… È certamente apprezzabile l’autocoscienza che la Direzione Cinema del Mibac mostra, nel documento, rispetto alle conseguenze della nuova legge, anche se si deve certo attendere che essa vada pienamente a regime (e si attendono i risultati della “valutazione di impatto” affidata a fine luglio alla britannica Olsberg Spi Limited). Il Mibac precisa, correttamente, che “va tenuto presente, nell’analisi dei dati 2017, che tutte le opere esaminate sia cinematografiche che audiovisive, sono state realizzate quasi integralmente beneficiando del sistema di aiuti precedente alla legge n. 220/2016, applicata effettivamente solo dal 2018”.
Il Ministro Alberto Bonisoli ha comunque più volte già annunciato l’esigenza di “correttivi” alla legge cinema ed audiovisivo: anche sulla controversa questione delle “quote obbligatorie” (investimenti e trasmissione), tanto contestate sia dai “broadcaster” sia dagli “ott”?!
Si ricordi che Bonisoli ha assegnato qualche settimana fa alla giovane (classe 1976) Sottosegretaria Lucia Borgonzoni la delega per il cinema e l’audiovisivo: in quel della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, l’appassionata leghista ha assicurato una presenza assai intensa ed ha partecipato a molti incontri con gli operatori. Attendiamo di vedere l’esito di questa sua “full immersion” formativa.
Da segnalare anche che si avvia verso la conclusione l’iter delle offerte degli operatori telefonici per la cosiddetta “banda 700”, finora occupata dai multiplex televisivi (entro l’anno 2022, queste frequenze andranno al “5G”): lo Stato prevede di incassare almeno 2,5 miliardi di euro da questa liberalizzazione delle frequenze.
Bene, certamente per le casse dello Stato, ma questo budget non potrebbe essere dedicato – almeno in parte – ad investimenti per rafforzare il tessuto industriale ed artigianale della produzione di contenuti di qualità, nelle varie filiere del sistema culturale italiano?
Se il cinema e l’audiovisivo beneficiano dei cordoni della borsa allargati da Dario Franceschini, una parte di queste risorse della “banda 700” non potrebbe essere destinata – in modo veramente innovativo – all’editoria, all’informazione pluralista, alla musica, allo spettacolo dal vivo, alla multimedialità, in generale alla creatività?!
Lo stallo della Rai, la vicenda della Siae, la gara per la “banda 700”… sono soltanto tre “epifenomeni” – per così dire – di un problema assai più profondo e grave: il “sistema culturale” italiano stenta ancora a trovare un governo organico, sistemico, strategico.
Si tratta di “tasselli” di un “puzzle” che nessun partito sembra in grado di voler comprendere, e quindi saper governare.
Eppure, esiste una interazione profonda, sia economica sia semiotica, talvolta evidente e talvolta carsica, tra “cinema” e “televisione” e “editoria” e “musica” e “beni culturali” e “turismo, eccetera ecc. ecc.: vanno governati “insieme”, in una ottica di sviluppo “di sistema”, anche nella prospettiva della loro migliore promozione internazionale.
Si assiste invece ad una perdurante frammentazione di interventi ed a un policentrismo decisionale che conferma l’assenza di una regia strategica: si rinnova in Italia un complessivo deficit di politica culturale e mediale.
E ci si domanda se la logica che (non) governa il sistema debba continuare ad essere quella de “Finché la barca va…” (come nella famosa canzoncina pop di Orietta Berti).
Segnali che “la barca” arranca, che imbarca acqua, che corre il rischio di arenarsi… ce ne sono in gran quantità. Basterebbe avere la capacità di intercettarli tempestivamente, di analizzarli criticamente, e di iniziare a ragionare in modo finalmente organico e strategico.