La legge di riforma della Rai prevede che la nomina del Presidente sia effettuata dal Cda nell’ambito dei suoi membri, ma che divenga efficace soltanto dopo l’acquisizione del parere favorevole, espresso a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, della Commissione di Vigilanza.
Oggi martedì 31 luglio, dalle ore 17, il nuovo Consiglio di Amministrazione della Rai – Radiotelevisione Italiana spa deve avviare la procedura di nomina del proprio Presidente. Il clima è arroventato.
Sul controverso nome di Marcello Foa, convergerà verosimilmente la maggioranza dei consiglieri. Però domani, in Commissione di Vigilanza, a meno di sorprese, la maggioranza giallo-verde dovrebbe vedere respinto il suo nome dalla “alleanza” delle opposizioni, ovvero Partito Democratico – Forza Italia – Liberi e Uguali. Fratelli d’Italia ha dichiarato che voterà Foa (forse anche soltanto per la comune vocazione “sovranista”).
Si ricorda che la legge di riforma della Rai voluta dal centrosinistra nella passata legislatura prevede infatti che la nomina del Presidente sia effettuata dal Consiglio di Amministrazione nell’ambito dei suoi membri, ma che divenga efficace soltanto dopo l’acquisizione del parere favorevole, espresso a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, della Commissione di Vigilanza.
Per “i due terzi”, sono necessari almeno 26 voti, e Pd, Fi, Leu e Misto vantano 18 commissari su 40.
Cosa succederebbe, nel caso in cui – come alcuni ritengono probabile – Marcello Foa non dovesse ottenere il gradimento della bicamerale di Palazzo San Macuto?
Ipotesi A: Foa potrebbe dimettersi, e quindi consentire al Governo di indicare un nuovo membro del Cda al suo posto.
Ipotesi B: potrebbe anche restare in carica da consigliere semplice, se si creasse una “coalizione” ai due terzi su un altro consigliere. In base alla legge, infatti, non è necessario che il “papabile” Presidente sia indicato come tale dal Governo, così come avveniva invece con la precedente normativa. Anche un consigliere “semplice” (tra quelli eletti dal Parlamento e dai dipendenti Rai), potrebbe quindi assurgere alla poltrona più alta…
Non a caso, ieri 30 luglio la Federazione Nazionale della Stampa (Fnsi) ed il sindacato dei giornalisti Usigrai hanno inviato ai 7 membri del Cda Rai una lunga lettera, giustappunto in vista della odierna riunione fissata per la nomina del Presidente.
La “lettera aperta” – pubblicata sul sito web di “Articolo21” – si appella ad una logica alta di “servizio pubblico” e richiama sia principi generali sia specifiche norme a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza. Scrivono i firmatari Beppe Giulietti e Raffaele Lorusso (Fnsi) e Vittorio Di Trapani (Usigrai), a chiare lettere: “nei giorni scorsi è avvenuto un fatto di particolare gravità. Al termine della riunione del Consiglio dei Ministri di venerdì 27 luglio, è stata diffusa la notizia dell’“indicazione”, da parte del Governo, di Marcello Foa quale Presidente della Rai. Al di là del comunicato ufficiale del Governo, lo testimoniano chiaramente le dichiarazioni – diffuse anche attraverso i social – dei vice presidenti del Consiglio dei Ministri, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e anche quelle del diretto interessato che si dice “orgoglioso ed emozionato per la nomina a Presidente della Rai”. Luigi Di Maio, come Lei sa, è anche responsabile del Ministero dello Sviluppo economico, ministero che vigila sulla Rai. L’indicazione del Presidente da parte del Governo (una vera e propria nomina, da quanto è potuto emergere) svuota di ogni prerogativa sul punto il Consiglio di cui Lei fa parte, rendendo il Suo voto, di fatto, una mera ratifica di una decisione già assunta”. La lettera si conclude così: “La invito, pertanto a mettere in atto tutte le azioni necessarie a tutela dell’autonomia e della indipendenza dell’organismo di cui Lei è componente”. Una sorta di appello pubblico alla coscienza individuale dei 7 Consiglieri. Ci si domanda: ma che democrazia è la nostra, se si deve arrivare a questo livello?!
La questione della presidenza della televisione pubblica italiana ha “finalmente” conquistato le prime pagine dei quotidiani: sarebbe veramente una bella notizia, se gli editorialisti si fossero scatenati nel proporre “una idea di Rai”, e magari il dibattito fosse stato duro e finanche aspro, ma così invece non è stato e non è, e la querelle è sintomatica soltanto dell’ennesima contrapposizione partitocratica, nell’ennesima pratica di lottizzazione.
Su queste colonne, abbiamo manifestato le perplessità sul “metodo” (vedi da ultimo “Key4biz” di giovedì 26 luglio, “La scelta dei dirigenti apicali di Rai e Istat tra ‘casting’ e ‘fake news’”), prima di entrare nel merito della qualità delle persone: il “metodo” viene oggi ovviamente ritenuto eccellente da chi l’ha messo in pratica, ed esecrabile da chi non è stato coinvolto, in un gioco delle parti che suscita un sorriso amaro, e che certo non stimola alcun sentimento di novità ed innovazione. Si riscontrano soltanto tristi analogie con il passato.
L’aforisma tanto abusato di Giuseppe Tomasi di Lampedusa si rinnova nella sua capacità di descrivere la realtà del nostro Paese: “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Il gattopardismo è sempre in agguato, dietro l’angolo, anche nelle strategie apparentemente più “rivoluzionarie”.
Entusiasmo, nelle parole dei governanti. Ha dichiarato il premier Giuseppe Conte: “per la Rai, abbiamo fatto le nostre scelte. Con Salini e Foa, garantiamo il rilancio della principale industria culturale del Paese”. Dal canto suo, Matteo Salvini: “sono molto soddisfatto, ci sarà spazio per tutte le voci, finalmente. Siamo solo all’inizio”. Ed il collega Luigi Di Maio se ne è uscito con la battuta non proprio felice “libereremo la Rai da raccomandati e parassiti”.
Dalle opposizioni, critiche a gogò, soprattutto dal Partito Democratico e Liberi e Uguali, ma forse prevedibili. Come abbiamo segnalato, è necessario che o Pd o Forza Italia manifestino il proprio placet, per far sì che la nomina del Presidente della Rai si perfezioni, dato il necessario quorum dei due terzi (voluto dalla “legge Gasparri” giustappunto a garanzia di un qual certa “terzietà”).
Ipercritica anche Forza Italia, partito il quale – ricordiamo – ha peraltro di fatto rinunciato ad avere un consigliere di amministrazione di propria espressione: e segnaliamo che l’ex membro “in quota” Fi, Arturo Diaconale, ha manifestato la sua contrarietà per questa scelta, che ha definito “un grave errore” (si veda il suo intervento del 19 luglio su “l’Opinione”, il quotidiano liberale di cui è direttore, “Rai, una ragione politica e non personale”).
Senza entrare nel merito delle persone, ci sia consentito manifestare alcuni dubbi.
Il Presidente della Rai non dovrebbe essere l’“incarnazione” di una personalità veramente “super-partes”, rappresentativa di una visione plurale e “no partisan”, un po’ come si tende a vedere il Presidente della Repubblica?!
Certo, il lettore con buona memoria potrebbe domandare: ma rispondevano a questo requisito di distacco e terzietà gli ultimi cinque Presidenti della Rai?!
Ricordiamoli: Lucia Annunziata (eletta nel marzo 2003), Claudio Petruccioli (luglio 2005), Paolo Garimberti (marzo 2009), Anna Maria Tarantola (luglio 2012), Monica Maggioni (agosto 2015).
Forse il “primato” nel distacco da pregressi posizionamenti ideologici può essere assegnato alla Tarantola, già dirigente apicale della Banca d’Italia (anch’essa istituzione che – almeno sulla carta – è alta ed altra, rispetto al gioco della politica partigiana). Di questa eletta schiera di cinque, ben quattro sono giornalisti, una soltanto è manager.
Il ruolo del Presidente della Rai, però, con la legge renziana di riforma della “governance”, è divenuto meno significativo di quanto fosse prima, ed il potere è stato assegnato al Direttore Generale Amministratore Delegato…
E sorge spontanea un’altra domanda: non si deve disporre di una esperienza professionale all’altezza di una impresa di medio-grandi dimensioni (come forza-lavoro anzitutto), per gestire al meglio una macchina complicata qual è la Rai?! Prendiamo il caso del giovane Antonio Campo Dall’Orto: senza dubbio, poteva vantare una esperienza specifica nel business televisivo, a capo della filiale italiana di una multinazionale come Mtv… Ma quanti dipendenti aveva Antonio Campo Dall’Orto? Per lo più poche decine di persone, qualche centinaia nella migliore delle ipotesi (considerando il suo incarico come Vice President esecutivo di Viacom International). A fronte dei 13mila dipendenti di Viale Mazzini.
Cosa ha fatto, insediatosi? Ha cooptato dall’esterno una ventina di professionisti con i quali aveva lavorato – come suol dirsi – nel “privato”. Risultato?! Ha creduto che con questa iniezione di “top manager” fiduciari sarebbe stato in grado di modificare radicalmente un sistema estremamente conservatore e vischioso come la Rai. Si è ritrovato in una sorta di fortino assediato, in amaro isolamento. E, alla fin fine, è stato sconfitto sia da quel che resta del “partito aziendalista” di Viale Mazzini (che ovviamente tende anzitutto all’autoconservazione), sia – paradossalmente – da quella politica “decisionista” che gli aveva dato l’impressione di un potere senza limiti (la sindrome napoleonica “à la Renzi”). Nel giugno 2017, Campo Dall’Orto getta la spugna, dimettendosi a fronte della messa in minoranza all’interno del Cda Rai.
La scelta della politica, ovvero dei governanti attuali, sembra cadere su un manager che presenta un profilo professionale che, per alcuni aspetti, ricorda quello di Campo Dall’Orto: giovane (per l’Italia), con i suoi 52 anni, il romano Fabrizio Salini sarà sicuramente il nuovo Ad di Viale Mazzini.
Dal gennaio 2018, Salini è Direttore Generale di Stand by Me, società di produzione televisiva fondata nel 2010 da Simona Ercolani (ex consulente del governo Renzi per il quale ha curato una edizione della “Leopolda”): gli si attribuisce quindi una qual certa vicinanza con il mondo renziano, che però non ha fatto vacillare la convinzione del M5s su di lui, visto che ancor prima – fino al giugno 2017 e all’arrivo di Andrea Salerno – Salini aveva diretto La7, rete considerata non ostile dai pentastellati. Leggiamo con attenzione il curriculum: dal 2014 al 2016, è stato Amministratore Delegato di Fox International Channels Italy; per lo stesso gruppo, dal 2003 al 2011, ha ricoperto il ruolo di Vice President Entertainment Channels; prima ancora ha lavorato come Vice President Content per Discovery Communication Italia e come direttore dei canali Cinema e Intrattenimento di Sky Italia. Nel 2012, è entrato nel Cda di Switchover Media, per il quale ha curato il lancio dei due canali in chiaro visibili sul digitale terrestre, Giallo e Focus. Tornato in Fox Italia come amministratore delegato, dal 2015 all’estate scorsa ha diretto La7 da responsabile dei palinsesti, dei contenuti e dell’offerta multimediale.
In sintesi: manager apicale, know how specialistico, ma di imprese che sono piccine picciò (nel caso di Salini più piccole della Mtv/Viacom di Campo Dall’Orto) rispetto ad un gigante – nell’economia mediale italiana – qual è la Rai. Temiamo che il rischio di una riproduzione della fenomenologia che ha vissuto Campo Dall’Orto sia concreto. Quante risorse umane ha avuto chance di dirigere, Salini, nella propria esperienza professionale, alle proprie dirette dipendenze? Poche decine, immaginiamo. Certo non le 13mila della Rai.
Rispetto alla prospettiva del giornalista “sovranista” e “filo-Putin” Marcello Foa, nelle ultime ore è emerso anche il nome di Giampaolo Rossi, anch’egli ben connotato ideologicamente (è un intellettuale che può essere serenamente classificato come “di destra”), ma con alcuni anni di esperienza manageriale nella “galassia” Rai (Presidente di Rai Net dal 2004 al 2012): ed è questo un vantaggio non da poco, perché crediamo che una figura come l’Amministratore Delegato della Rai debba poter vantare un’esperienza “interna”. Da questo punto di vista, è un peccato che sia sfumata l’ipotesi di Marcello Ciannamea, Direttore dei Palinsesti di Viale Mazzini, alla Presidenza.
In sostanza, crediamo che queste figure apicali, il Presidente e l’Amministratore Delegato, dovrebbero possedere almeno tre pre-requisiti: cultura umanista di livello (perché stiamo trattando di media, e non di pomodori), esperienza manageriale qualificata (possibilmente in imprese di dimensioni medio-grandi e strutturalmente complesse), non particolare connotazione ideologica (perché vanno a svolgere funzioni “di servizio pubblico”). La funzione “di garanzia” deve riguardare poi, in modo specifico, il ruolo politico del Presidente.
In ogni caso, così come per la “selezione” discrezionale e partitocratica dei membri del Consiglio di Amministrazione, pur nella novella veste della tanto democratica elezione da parte dei deputati e senatori, quel che è mancato, e continua a mancare, è un processo trasparente e meritocratico.
Ancor più che nel caso del Cda, non sarebbe opportuno che le illustri personalità che i potenti autocratici capi-partito vanno a contattare… offrano all’Italia tutta una loro “idea di Rai”?!
Non ci risulta che, da quando sono stati “designati”, Marcello Foa o Fabrizio Salini abbiano espresso pubblicamente un’idea precisa, una strategia chiara, un concetto-chiave, rispetto all’incarico delicatissimo che il Governo vuole assegnar loro. Marcello Foa, sulla propria pagina Facebook, si è limitato a scrivere (dando peraltro per scontata la propria nomina, il che non sembra essere): “mi impegno sin d’ora per riformare la Rai nel segno della meritocrazia e di un servizio pubblico davvero vicino agli interessi e ai bisogni dei cittadini italiani. Sin dai tempi del mio maestro Indro Montanelli, mi sono impegnato per un giornalismo intellettualmente onesto e indipendente e da oggi rinnovo questo impegno morale nei confronti dei giornalisti e di tutti i collaboratori della Rai”. Ci scusi, “Presidente papabile”, è un po’ poco, e finanche un po’ generico, non crede?!
Fabrizio Salini (che gli amici descrivono come gioviale, alla mano, alieno dai salotti che contano, pragmatico, appassionato di canoa, tifoso dell’Inter…) ha invece dichiarato: “il mio compito sarà quello di valorizzare tutte le enormi risorse creative che ha la Rai. Per offrire un prodotto che rispecchi l’eccellenza italiana, con contenuti diversificati, ampi e ricchi di simboli… La Rai comunque non è un’isola. Le relazioni internazionali, così come la valorizzazione delle produzioni locali, sono parte essenziale della sua missione”. Emerge traccia di un pensiero strategico, e ne siamo lieti.
Che si siano incontrati nelle ovattate stanze del Palazzo, nella discreta comodità di case private, o finanche bevendo un tè freddo a Piazza Navona… cosa si sono detti questi “eletti” con i Vice Presidenti del Consiglio Matteo Salvini e Luigi Di Maio?
Che “idea di Rai” hanno proposto (o è stata loro richiesta)?!
Va segnalato che un paio di settimane fa l’Adnkronos ha diramato un dispaccio che così recitava: “a quanto apprende l’Adnkronos da autorevoli fonti governative, una società di cacciatori di teste sarebbe stata ‘ingaggiata’ dal Ministero dell’Economia per individuare l’amministratore delegato Rai” (notizia delle ore 11.33 del 18 luglio). La notizia non è stata smentita, anzi lo stesso Matteo Salvini dichiarerà poi: “stiamo scegliendo le persone migliori, c’è una società di cacciatori di teste che ha valutato e certificato, faremo di tutto per valorizzare le risorse interne senza andare a prendere qualche Messia altrove”.
Chiediamo troppo, nel voler sapere qual è la società cui un incarico così delicato è stato affidato (e magari con quale procedura è stata scelta la società stessa?!), e, soprattutto, quali sono i requisiti che sono stati richiesti per la oscura selezione?!
Chi sono i “cacciatori” e che tipo di “teste” è stato chiesto loro di cercare?!
Secondo quanto ci risulta, parrebbe che gli “head hunters” siano stati quelli della Spencer Stuart Italia (filiale italiana della multinazionale statunitense), alla quale il Ministro dell’Economia Giovanni Tria ha affidato anche la selezione dell’Amministratore Delegato di Cassa Depositi e Prestiti (il 27 luglio il Cda ha nominato Fabrizio Palermo, già Direttore Finanziario di Cdp: vedi “Key4biz”) Si ricorda che nella primavera del 2014 “l’Espresso” rivelò che la Spencer Stuart aveva vinto due gare (riservate) per la selezione di candidati destinati ad occupare 350 poltrone pubbliche controllate dal Tesoro che stavano per rendersi vacanti…