Affollata e stimolante occasione di dibattito, questa mattina, presso la sede romana dell’Ufficio in Italia del Parlamento Europeo, in via IV Novembre, con un controlli polizieschi per l’accesso alla Sala delle Bandiere veramente eccessivi, ma concreto e sintomatico frutto delle isterie collettive (ed istituzionali) che riguardano molti soggetti, dopo i drammatici fatti di Parigi: l’onorevole Silvia Costa, Presidente della Commissione Cultura del Parlamento Europeo (detta “Cult” nello slang della Ue) ha promosso un incontro su “Rifugiati in Europa. Solidarietà è sicurezza. Esodi, accoglienza, paura. Quali strumenti in Europa e in Italia”, insieme ai parlamentari dei gruppi S&D del Parlamento Europeo e del Gruppo Pd, il senatore Roberto Cociancich (Capo Gruppo Dem Commissione Affari Europei, ma è anche Presidente mondiale della Conferenza Internazionale Cattolica dello Scoutismo), e l’onorevole Laura Garavini (eletta nella circoscrizione Estero Europa e componente dell’Ufficio di Presidenza del Pd).
Un centinaio di persone, per lo più operatori del settore, hanno seguito con attenzione e continuità il dibattito, ricco di stimoli intellettuali, politici e finanche… audiovisivi: sono stati proiettati alcuni efficaci contributi video, a partire dal reportage sulle migrazioni realizzato in Ungheria durante la visita della delegazione di Parlamentari italiani ed europei del Partito Democratico svolta a fine settembre (clicca qui, per leggere “Diario di viaggio: i migranti in Ungheria, smacco europeo”, di Silvia Costa, su “Avvenire”), per vigilare la drammatica emergenza umanitaria dei migranti e manifestare una netta contrarietà rispetto alla creazione di nuovi muri in Europa.
Ancora una volta, la questione “mediale”, che pure non era apparentemente nell’agenda del dibattito, è emersa con assoluta prepotenza. La Presidente Costa ha espresso critiche pesanti – manifestate con la sua tradizionale eleganza – rispetto al sistema mediale italiano, ed in particolare rispetto alla Rai: “Perché non vedo in Italia servizi di approfondimento e di inchiesta come quelli che vedo sulle televisioni pubbliche di altri Paesi?! Esiste un ampio campo di oscillazione – in Italia vuoto – tra i rari servizi qualificati come quelli di ‘Report’ ed il chiacchiericcio diffuso che vedo troppo spesso nei talk-show”…
Giovanni Anversa, giornalista Rai, moderatore dell’incontro insieme al collega Luca Attanasio, ha tentato una difesa d’ufficio di quel che Viale Mazzini propone, ricordando che il “public service broadcaster” italiano non è rappresentato soltanto dalle prime tre reti e dal “prime-time”, ma anche da un’offerta ampia che si articola sui canali tematici e fasce orarie altre.
Sia consentito commentare: il problema, caro Anversa, è proprio questo! Quel poco che Rai realizza, su queste tematiche, va quasi sempre in onda, quando si tratta di informazione seria con un approccio minimamente critico, su canali minori e marginali, ed in orari improbabili.
E comunque resta poco, con una sensibilità culturale che è anni-luce rispetto alla missione che un “public service provider” dovrebbe svolgere. La sensibilità della Rai rispetto alle tematiche tutte del sociale è veramente modestissima. Anversa ha riconosciuto che viene prestata in Rai tanta attenzione al pluralismo politico (anche su questo, avremmo da ridire, ma non è questa la sede), ma pochissima attenzione al “pluralismo sociale”, ed ha segnalato come esista anche un grave un problema di “formazione professionale” (forse meglio sarebbe dire “culturale”) degli operatori dell’informazione, pure a Viale Mazzini, su queste tematiche.
Rispetto al titolo dell’incontro, l’enfasi va posta sul verbo “è”, che va ben oltre la mera congiunzione “e”: in effetti, nel dibattito, politico e giornalistico, i concetti di “solidarietà” e di “sicurezza” sembrano essere per lo più contrapposti, mentre la tesi ideologica di fondo dell’iniziativa della Costa è proprio nell’idea di una corrispondenza tra “solidarietà” e “sicurezza”. In effetti, una società solidaria è meccanicamente una società più sicura, anche se questa idea (saggia, lungimirante, umanista, tipica di una società aperta) cozza con la visione di società “chiusa” che vorrebbero gli xenofobi, i razzisti, e con la (in)cultura della “predicazione del sovranismo” (come l’ha definita Costa).
È intervenuto – tra gli altri – uno dei massimi responsabili delle “policy” italiane in materia, il Prefetto Mario Morcone, Capo Dipartimento per l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, che ha rivendicato una visione complessivamente aperta ed umanista, dell’Italia, sviluppata da decenni su queste tematiche, e garantita dall’Amministrazione anche quando al Governo si sono avvicendati esecutivi di centro-destra (si stenda però un velo di pietoso silenzio sui disastri della cosiddetta “legge Bossi Fini”, che oggi crediamo verrebbe disconosciuta anche dai suoi promotori): Morcone ha lamentato come non si possa distinguere tra “migranti” in qualche modo privilegiati (quelli provenienti da Paesi come Siria, Iraq, Eritrea), e meccanicamente riconosciuti come “rifugiati”, e tant’altra parte dell’umanità che deve essere invece sottoposta al vaglio burocratico, e rigettata se riconosciuta come soltanto “migrante economica”. Non ci sono “Paesi sicuri”, nelle lande travagliate dalla guerra…
Silvia Costa ha evocato il concetto arendtiano di “banalità del male”, segnalando come gli attentati parigini siano sintomatici della volontà di colpire non esattamente dei luoghi-simbolo, come è avvenuto nel caso della strage al Museo Ebraico di Bruxelles del maggio 2014 o alla sede del quotidiano satirico “Charlie Hebdo” nel gennaio 2015, ma dei luoghi della quotidianità, degli spazi in qualche modo “banali”, nella loro normalità e quotidianità (in verità, anche questi sono “luoghi-simbolo”, nella loro banalità, come appunto sale da concerto o ristoranti…).
Il problema resta di natura culturale: si teorizza la cultura come strumento di tolleranza, ma a “quale modello di cultura vogliamo riferirci?!”. Il terrorismo e la reazione che provoca determinano “l’estensione di un cono d’ombra sulle ragioni” che sono alla base dei fenomeni. È peraltro ancora debole una riflessione sul modello culturale che l’Occidente deve adottare per contrastare, “ab origine”, il terrorismo, che è un epifenomeno di un processo lontano e radicale.
Costa ha evocato una citazione che colpisce, ovvero una frase di una cittadina francese, a seguito della strage di Parigi: “hanno ucciso nostri fratelli, ma gli assassini sono nostri figli”. Sintesi efficace delle infinite problematiche della multiculturalità, tra “assimilazione” sul modello francese (tante comunità che convivono, ma non interagisco culturalmente tra loro) ed “approccio interculturale” italiano (almeno nelle pratiche di eccellenza).
Luca Attanasio ha riportato dati di un’indagine internazionale Ipsos-Mori (resi noti già nell’autunno del 2014, ma una seconda indagine del luglio 2015 li conferma: clicca qui per l’executive summary dell’edizione 2015), secondo la quale l’Italia sarebbe al primo posto nell’“Index of Ignorance” planetario: la maggioranza degli italiani, per esempio, crederebbe che gli immigrati rappresentano un 30% della popolazione, mentre in verità in Italia sono meno del 10%. Siamo il Paese col più alto tasso di ignoranza per quanto riguarda i flussi migratori.
Nessuno al mondo ha una visione distorta della realtà come la nostra. Nei dati di Ipsos-Mori, si legge che molti italiani sono convinti che il Paese sia stato invaso dagli immigrati e in particolare dai musulmani. Gli italiani sentiti dal sondaggio credono che in Italia il 20% dei residenti sia musulmano, mentre i musulmani sono appena il 4%. Eccetera. La ricerca Ipsos dimostra come spesso le “percezioni” possano essere lontane dalla “realtà”.
L’edizione 2015 si domanda come sia possibile che l’Italia sia il Paese più “ignorante” del mondo. Rispondiamo noi: basta osservare l’evoluzione del nostro sistema mediale, basta vedere i tg di prime-time delle nostre televisioni: la risposta è semplice. Basta domandarsi – retoricamente – perché un programma innovativo come “Non solo nero”, rubrica del Tg 2 ideata e condotta da Maria de Lourdes Jesus (intervenuta anche lei nel dibattito odierno) fin dalla fine degli Anni Ottanta non sia mai stato sviluppato come avrebbe meritato: nel 2010, dopo aver lavorato 21 anni a Viale Mazzini, Maria de Lourdes Jesus decide di tornare a vivere a Capoverde, delusa dell’esperienza giornalistica con la televisione pubblica italiana.
Hanno partecipato al dibattito numerosi esponenti di associazioni della società civile, da Amnesty International al Centro Astalli, da Telefono Azzurro all’Unhcr. Particolarmente appassionato, e meritevole di una segnalazione, Foad Aodi, in rappresentanza di Co-Mai, l’associazione delle Comunità del Mondo Arabo in Italia. Ha segnalato alcune contraddizioni dell’attuale sensibilità del Governo italiano rispetto alle problematiche delle comunità arabe in Italia (non esisterebbe una consulta istituzionale degna di questo nome), ed ha rivendicato l’esigenza di una regolamentazione del ruolo degli “iman” nelle moschee: dovrebbero essere persone che siano residenti almeno da alcuni anni nel nostro Paese, che sappiano almeno parlare l’italiano, che possano dare una pur minima garanzia di capacità di interlocuzione con il mondo esterno rispetto a quello della comunità. Come è noto, in assenza di una “chiesa” islamica, ovvero di una struttura organizzata, può divenire “iman” quasi… chiunque, anche un predicatore estremista, con tutte le conseguenze del caso.
Ci auguriamo che l’iniziativa promossa da Silvia Costa possa rappresentare un primo passo per un dibattito serio ed approfondito su queste tematiche, con particolare attenzione alla questione del rapporto tra “cultura / media” e realtà migranti, un “universo” che è in Italia ancora tutto da esplorare, anche a livello di ricerca sociologica. Ed anche su questo incredibile ritardo, dobbiamo interrogarci tutti.