La riforma

Ilprincipenudo. Riforma del cinema e dell’audiovisivo: tra quote obbligatorie e nuove tasse agli OTT

di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale - IsICult) |

Dopo sei mesi di ‘tavoli tecnici’ promossi da Mibact e Mise, nelle stanze ministeriali qualcosa si sta muovendo in materia di riforma dell’intervento pubblico a favore del cinema e dell’audiovisivo

Nelle segrete stanze ministeriali, qualcosa sembra finalmente muoversi, in materia di riforma dell’intervento pubblico a favore del cinema e dell’audiovisivo, dopo sei mesi di lavorio dei “tavoli tecnici” promossi congiuntamente dal Ministero dei Beni e Attività Culturali e Turismo (Mibact) e dello Sviluppo Economico (Mise).

Che il Ministro Dario Franceschini ed il Sottosegretario Antonello Giacomelli abbiano finalmente promosso una “conversazione” tra i due dicasteri, è veramente cosa buona e giusta, a fronte della storica assenza di interazione tra queste due anime dell’intervento pubblico in materia, ed a fronte dello storico isolamento (istituzionale, ma anche industriale e finanche culturale) tra “cinema” ed “audiovisivo non cinematografico” in Italia.

#ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.
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Ancora una volta, però il dibattito purtroppo non è pubblico, con buona pace di quelle dinamiche di coinvolgimento compartecipativo e democratico (tanto democratico!) che sono state più volte annunciate, e poi non si sono concretizzate: basti pensare che fine ha fatto la grande “consultazione” pubblica che il Governo aveva annunciato rispetto alla mitica riforma della Rai. Procedura di consultazione mai avviata ed invece è uscita dal cilindro una… grandiosa riforma, che sembra diventare una riforma piccina picciò, che doveva peraltro essere approvata prima dell’estate e che probabilmente resterà insabbiata.

Ancora una volta, la realtà dei fatti fa lo sgambetto alle buone intenzioni?

La possibile riforma dell’intervento pubblico nel settore cinematografico ed audiovisivo si muove su tre binari almeno, senza dimenticare che essa dovrebbe interagire intensamente con la riforma Rai (o forse no???), dato il suo perdurante oggettivo ruolo di maggiore industria culturale del Paese:

Gestazione governativa. Tra le ipotesi, un collegato alla Legge di Stabilità, (i “collegati” rappresentano impegni assunti dal Governo), che, se approvato, diverrebbe un disegno di legge sull’audiovisivo; il “Def” (ovvero il Documento di Economia e Finanza) reiterato qualche settimana fa prevede effettivamente una riforma dei settori cinema e audiovisivo e dello spettacolo dal vivo (e non solo); il regista dell’operazione qui è il Direttore Generale del Cinema del Ministero Nicola Borrelli;

Gestazione parlamentare. La proposta della senatrice Pd Rosa Maria Di Giorgi (prima firmataria) con un ddl, Atto Senato n. 1835 (“Legge quadro in materia di riassetto e valorizzazione delle attività cinematografiche e audiovisive, finanziamento e regime fiscale. Istituzione del Centro nazionale del cinema e delle espressioni audiovisive”), che ha registrato la firma di altri 46 colleghi di ambedue gli schieramenti (la seconda firma è di Sergio Zavoli), ed è calendarizzato in Commissione Cultura per domani 16 settembre;

Gestazione istituzionale. Con l’istruttoria avviata il 13 maggio 2015 dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom), per verificare l’esistenza di eventuali posizioni dominanti nel settore dei servizi di media audiovisivi, alla luce dei cambiamenti strutturali a causa della crescente convergenza multimediale. Il Commissario Antonio Nicita, co-relatore insieme al collega Antonio Martusciello dell’istruttoria, ha annunciato a “Key4biz”, pochi giorni fa, che l’Agcom conta di “chiudere entro il 2015 le analisi dei mercati dell’audiovisivo la cui ultima fotografia risale all’epoca pre-digitale”…

Ancora una volta, tanto… policentrismo, forse (teoricamente) utile per la democrazia, ma occorre fare in modo che non diventi poco funzionale rispetto ad un ragionamento organico e strategico sul ruolo della “mano pubblica” nel settore.

Che senso ha, per esempio, un intervento parlamentare del Pd in materia di riforma del cinema e audiovisivo, allorquando il Governo espresso dallo stesso Pd (e Franceschini e Giacomelli esponenti del Partito Democratico inequivocabilmente sono) sta lavorando alla stessa materia?!?

Peraltro, va aggiunto, voci di corridoio riportano un qual certo dissenso dello stesso Ministro rispetto all’iniziativa parlamentare, che pure è sostenuta dalla Responsabile Cultura e Turismo del Partito, Lorenza Bonaccorsi, che ha partecipato alla presentazione il 14 luglio al Nazareno.

D’altronde, si nutrono dubbi che il Mibact e la Direzione Generale Cinema si facciano esternalizzare l’intero meccanismo delle politiche pubbliche di finanziamento al settore, e che le mettano nelle mani di un Centro Nazionale per il Cinema e l’Audiovisivo sul quale non possono esercitare alcun controllo, un’Agenzia che erogherebbe centinaia di milioni di euro l’anno di sostegni…

Anche il “prelievo di scopo” previsto dalla senatrice del Pd Rosa Maria Di Giorgi appare arduo da attuare (peserebbe tra l’altro sull’utenza, in un momento di difficoltà estrema del consumo di cinema nelle sale), così come la sottrazione di poteri alla Società Italiana Autori Editori (e d’altronde in questo periodo la Siae sembra navigare in acque serene, sia politicamente sia economicamente). Inoltre, il ddl Di Giorgi non risolve la questione della già fantasmica Luce Cinecittà (non è chiaro che fine farebbe, e certo non verrebbe inglobata nel Centro Nazionale). Infine, si notano varie diverse dimenticanze, o trascuratezze che dir si voglia. Una tra le tante: non è espresso chi nominerebbe i componenti della neo Commissione Cinema. Particolare evidentemente non trascurabile…

Due le notizie importanti degli ultimi giorni, rispetto all’effervescenza in atto, rispettivamente “high profile” e “low profile”: venerdì della scorsa settimana 11 settembre, “la Repubblica” ha pubblicato un lungo articolo, nel quale anticipa una notizia che peraltro non è stata ripresa da nessun altro media. Il Governo ha trasmesso il 7 settembre alle associazioni che partecipano ai “tavoli tecnici” cui supra un documento propositivo, intitolato “Rafforzamento del settore audiovisivo”, che andrebbe a modificare significativamente l’assetto attuale dell’intervento pubblico nel settore, a cominciare dall’introduzione di un obbligo di investimento nella produzione cui verrebbero sottoposti anche gli “over the top” (Google, Amazon, Netflix…).

Verrebbe però introdotta anche una cosiddetta “tassa di scopo” ovvero un “prelievo di filiera”, che andrebbe a gravare sull’intero settore audiovisivo, e verrebbero imposti forti vincoli alla libertà contrattuale in materia di cessione diritti.

Se tutto ciò fosse vero, l’approccio è sicuramente ricalcato sul “modello francese”, ovvero su un sistema di intervento statalista dirigista intenso, ed emerge peraltro una posizione ideologica più radicale rispetto al cugino transalpino: simpatia per la “produzione indipendente” (senza ricordare che la definizione di “indipendente”, nella normativa italica e nei rapporti reali tra le parti, è scivolosa ed evanescente), antipatia per i “broadcaster” (cui sembra si attribuisca la prevalente responsabilità nella stagnazione del sistema audiovisivo, con totale assenza di autocritica rispetto agli errori di “policy” commessi dallo Stato nel corso dei decenni).

Quel che emerge naturale ed immediato, tuttavia, è un quesito metodologico: come si può far politica di settore, a fronte di un deficit estremo di informazioni ed analisi?! Non esiste in Italia un’analisi accurata ed approfondita del funzionamento del sistema audiovisivo, perché il dataset fornito da Agcom è carente, ed il Mibact affida gran parte delle proprie elaborazioni sul cinema all’Anica, che – per quanto tecnicamente attrezzata – resta pur sempre soltanto uno degli attori del sistema (e forse con qualche comprensibile interesse partigiano).

I dati sugli investimenti nel cinema così come nella produzione televisiva sono incerti, labili, deboli (spesso basati su autocertificazioni dei “player”), e manca un testo organico di riferimento sull’economia politica dell’audiovisivo italiano: come si può ragionare di “strategia” e di norme di sistema, in assenza di un database informativo minimamente attendibile?

E come si possono redigere pagine e pagine di analisi comparative rispetto al Regno Unito, la Francia, la Germania, la Spagna (gli altri quattro Paesi dei “Big 5” dell’audiovisivo europeo), se spesso i dati sono strutturalmente differenti nelle metodiche di rilevazione e di elaborazione??? L’Italia, peraltro, ha sostanzialmente trasformato in una scatola vuota la struttura preposta, ovvero l’Osservatorio dello Spettacolo del Mibact, e deprimente sorte simile ha vissuto l’Ufficio Studi dello stesso dicastero, come abbiamo denunciato più volte anche dalle colonne di “Key4biz” in questa rubrica “ilprincipenudo”.

Insomma, gli sforzi governativi sono apprezzabili, ma, temiamo, non sufficienti.

Si ha ragione di ritenere che sarebbe bene approfondire con maggiore serietà tecnica ed accuratezza metodologica le tematiche delicate cui si vuol mettere mano.

Non meno opportuno sarebbe, poi, che questo tipo di “policy making” venisse sottoposto a trasparente pubblico dibattito, e non restasse chiuso nelle segrete stanze dei ministeri e di alcune associazioni ed operatori del settore.

Da segnalare che a poche ore dalla pubblicazione dell’articolo, sono stati diramati due lanci di agenzia, Ansa e Adnkronos, cerchiobottisti, perché il contenuto sembra voler dare un colpo al cerchio (le istanze degli autori) ed alla botte (le preoccupazioni di broadcaster ed “OTT”).

Le notizie, definite di “fonte del Mise” (una classica “velina”), non sono state riprese da nessuna testata, ma forse è bene che gli attenti lettori di “Key4biz” ne tengano opportunamente conto. Delle due l’Adnkronos è più esplicita, e sostiene che “non ci sarà nessuna ‘tassa di scopo’ per finanziare il cinema e la fiction italiani a carico dei giganti del web come Google e Netflix o dei broadcaster nazionali”.

L’Ansa sostiene invece più diplomaticamente che “il governo punta ad attrarre investimenti, attraverso la creazione di un contesto favorevole al loro coinvolgimento nella produzione nazionale. L’intento dell’esecutivo è di rimodulare il tax credit, incentivando la coproduzione per favorire la nascita di prodotti in grado di competere sul mercato internazionale. Allo studio anche una revisione del sistema delle quote legandole al bilancio di programmazione, oltre che una razionalizzazione delle deroghe degli obblighi di produzione di opere indipendenti. Quanto alla negoziazione dei diritti si guarda al sistema inglese, in cui produttori e broadcaster si siedono ad un tavolo al quale il governo partecipa solo come mediatore”.

In questo scenario confuso (e grigio, perché privo di confronto pubblico), nessuno o quasi sembra aver fatto caso all’altra notizia (quella “low profile”) ovvero ad un altro intervento, sintomatico, avvenuto giovedì 10 settembre alla Camera dei Deputati, che conferma perfettamente quelle critiche all’eccesso di “policentrismo” cui facevamo riferimento: nessuna segnalazione – nemmeno dai due parlamentari proponenti! – e soltanto un cenno in un comunicato stampa dell’Anac diramato domenica 13, da Venezia, dalla storica associazione degli autori cinematografici italiani.

Di cosa si tratta?

In effetti, l’Anac, nell’aprile scorso, in un incontro tenutosi alla Casa del Cinema di Roma, aveva manifestato al Ministro Franceschini “lo stupore per il fatto che l’attuale Governo, come tutti quelli che lo hanno preceduto, parlasse della liberalizzazione dei più svariati settori commerciali e mai di quella relativa alla circolazione delle opere cinematografiche, in particolare le opere prodotte e distribuite da imprenditori indipendenti”. L’Anac sostiene che “da tempo, è risaputo che, in alcune realtà territoriali, un unico soggetto detiene una considerevole quota di mercato, rappresentando talvolta sia il ruolo di esercente che quello di agente per la distribuzione”.

La domanda ancora una volta è: l’analisi è corretta? l’analisi è basata su dati oggettivi? l’analisi è stata effettuata con metodologie serie? Probabilmente la tesi dell’Anac corrisponde a verità, ma peccato che ciò non sia documentativamente dimostrato. In ogni caso, che senso ha intervenire su un (piccolo) tassello del mosaico???

Il 28 luglio, comunque altre due associazioni autoriali aderivano alla proposta dell’Anac, e veniva diramato un comunicato congiunto Anac, 100autori (Associazione dell’Autorialità Cinetelevisiva) e Wgi (Writers Guild Italia): le tre associazioni dichiaravano di “seguire attentamente il dibattito sul disegno di legge sulla concorrenza in corso in questi giorni alla Commissione Attività Produttive e Finanze della Camera, ed esprimono forte preoccupazione per l’emendamento che riguarda la libera circolazione dei film, che rischia di avere il parere negativo del Governo, attraverso il Ministero dello Sviluppo Economico. Gli autori italiani chiedono pertanto al Ministro Franceschini un’incisiva pressione sia nei confronti del Mise che dei relatori, onorevoli Fregolent e Martella, affinché sostengano l’emendamento Portas e Benamati – Pd – n. 16.01 che limita al 25 % la concentrazione massima della quota di mercato in capo ad un unico soggetto che direttamente o indirettamente oggi può persino ricoprire i ruoli sia di esercente che di agente per la distribuzione”.

È un dato di fatto che, comunque, l’Anac un suo piccolo successo di “lobbying” possa vantarlo: nel silenzio dei più (cioè di tutti, quotidiani generalisti o testate specializzate, questa notizia viene segnalata “in esclusiva” oggi da “Key4biz”), giovedì scorso 10 settembre, le Commissioni Riunite VI e X della Camera hanno approvato l’emendamento alla “Legge Annuale per il Mercato e la Concorrenza” (attualmente classificata come Atto Camera C. 3012 Governo), a firma di Giacomo Portas e Gianluca Benamati, che cerca di introdurre un rinnovato segnale di attenzione rispetto alla concentrazione nel settore dell’esercizio cinematografico, in relazione al ruolo di operatori che sono attivi anche nei settori della distribuzione, e – si noti bene – “dell’edizione o distribuzione di servizi televisivi, online o telefonici”.

In base all’emendamento approvato, verrebbe modificato il decreto legislativo del 22 gennaio 2004, n. 28, la cosiddetta “legge Urbani” sul cinema, che all’articolo 26 già detta delle norme in materia di “operazioni di concentrazione”, prevedendo un obbligo di comunicazione all’Agcom, nel caso che “attraverso la concentrazione si venga a detenere o controllare direttamente o indirettamente, anche in una sola delle dodici città capozona della distribuzione cinematografica, una quota  di  mercato superiore al 25 % del fatturato della distribuzione cinematografica e, contemporaneamente,  del  numero  delle  sale cinematografiche ivi in attività”. L’emendamento approvato prevede invece che l’Agcom intervenga anche “qualora sul mercato di riferimento un unico soggetto, ivi comprese le agenzie territoriali mono o plurimandatarie, anche in una sola delle dodici città capozona di cui al comma 1, detenga, direttamente o indirettamente, una posizione dominante nel mercato della distribuzione cinematografica, con particolare riferimento ai soggetti che operano contestualmente anche in uno dei seguenti settori: a) produzione; b) programmazione; c) esercizio; d) edizione o distribuzione di servizi televisivi, on line o telefonici”.

Vedi qui una scheda di approfondimento per comparare i testi.

E… si noti bene: si tratta di un emendamento approvato, ma ancora ben lontano da poter divenire legge dello Stato. In effetti, la “Legge Annuale per il Mercato e la Concorrenza” deve ancora affrontare il vaglio di varie commissioni, sebbene risulti calendarizzata con intensità nella corrente settimana.

La domanda conclusiva è: ma le varie componenti del Pd (Governo, Camera e Senato, Partito) hanno piena e vicendevole coscienza del proprio agire e di quello dei colleghi, sui differenti fronti istituzionali e politici?! Sia consentito osservare il rischio di una qual certa confusione.

Che senso ha richiedere poi, per esempio, che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) rediga “una relazione annuale sullo stato della concorrenza nel settore della distribuzione cinematografica”, ignorando le altri fasi della filiera, e soprattutto in assenza di uno studio accurato ed approfondito sull’economia politica complessiva del cinema nella sua interazione con gli altri settori dell’audiovisivo e con il web?! E non è opportuno attendere comunque l’esito dell’istruttoria specifica che l’Agcom ha in corso?!

E anche il mondo del cinema dovrebbe forse riflettere meglio su quali strumenti moderni dotarsi per dare respiro strategico alla propria azione, non limitandosi a lottare per piccoli interventi emulativi del “modello francese”, peraltro inesportabile in Italia per differente struttura del mercato e storia della politica culturale.

Il cinema e l’audiovisivo italiano hanno anzitutto necessità di robusti stimoli alla crescita internazionale, non di altri lacci e lacciuoli che ingessino ulteriormente il mercato interno.

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