Nella mattinata di martedì 17 ottobre, si è tenuta a Roma, in un affollato auditorium “V. Bachelet” del The Church Palace sulla via Aurelia, la presentazione della 12ª edizione del ‘Rapporto Italiani nel Mondo’, curato dalla Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana (Cei).
In 500 pagine ricche di dati ed analisi (in 45 saggi curati da 55 autori), il “Rapporto Italiani nel Mondo” (da cui l’acronimo “Rim”), diretto dalla appassionata e giovane ricercatrice Delfina Licata (che ha definito Papa Francesco il “migliore sociologo dei nostri tempi”), edito per i tipi della Tau Editrice (Todi), propone una radiografia annuale di un fenomeno che evidenzia la propria crescita: basti osservare che i cittadini iscritti all’anagrafe degli italiani all’estero erano 3 milioni nel 2006, e sono attualmente 5 milioni, con un incremento del 60 % (nell’ultimo anno, l’aumento è stato del 3,4 %). Da considerare peraltro che non tutti coloro che vanno all’estero provvedono ad iscriversi tempestivamente all’anagrafe, e quindi la dimensione del fenomeno è verosimilmente sottodimensionata.
Da gennaio a dicembre 2016, le iscrizioni all’Aire (l’anagrafe degli italiani residenti all’estero) per solo “espatrio” sono state 124.076 (+ 16.547 rispetto all’anno precedente, +15,4 %), di cui il 55,5 % (68.909) maschi. Il 62,4 % sono celibi / nubili, ed il 31,4 % coniugati / e. In sintesi: 124mila italiani emigrati nel 2016, a fronte di 107mila nel 2015, ovvero in due anni 231mila…
Oltre il 39 % di chi ha lasciato l’Italia nell’ultimo anno ha un’età compresa tra i 18 e i 34 anni, e si tratta di circa 50mila giovani (oltre 9mila in più rispetto all’anno precedente, + 23,3 %); un quarto tra i 35 e i 49 anni (quasi + 3.500 in un anno, + 12,5 %).
Le partenze non sono individuali, ma di “famiglia” intendendo sia il nucleo familiare più “ristretto” (ovvero quello che comprende i minori: oltre il 20 %, di cui il 12,9 % ha meno di 10 anni) sia la famiglia “allargata” (quella cioè in cui i genitori – ormai oltre la soglia dei 65 anni – diventano “accompagnatori e sostenitori” del progetto migratorio dei figli: il 5,2 % del totale). A questi, si aggiunga il 9,7 % di chi ha tra i 50 e i 64 anni: si tratta per lo più dei tanti “disoccupati senza speranza”, tristemente noti alle cronache del nostro Paese poiché rimasti senza lavoro in Italia, e con grandi difficoltà di riuscire a trovare alternative occupazionali concrete per continuare a mantenere la propria famiglia e il proprio regime di vita.
Le donne sono meno numerose in tutte le classi di età ad esclusione di quella degli “over 85” anni (358 donne, rispetto a 222 uomini): si tratta soprattutto di vedove che rispondono alla speranza di vita più lunga delle donne in generale rispetto agli uomini.
Il continente prioritariamente scelto da chi ha spostato la propria residenza fuori dell’Italia nel corso del 2016 è stato quello europeo, seguito dall’America Settentrionale: il Regno Unito, con 24.771 iscritti, registra un primato assoluto tra tutte le destinazioni, seguito dalla Germania (19.178), dalla Svizzera (11.759), dalla Francia (11.108), dal Brasile (6.829) e dagli Usa (5.939)…
Fin qui i numeri, non proprio esaltanti: se è infatti vero che questo fenomeno può infatti essere letto in “positivo” – la migrazione come dinamica cosmopolita – una lettura negativa stimola dubbi sulla capacità del nostro Paese di offrire un habitat socio-economico adeguato alle aspettative di chi in Italia è nato e cresciuto.
Si emigra spesso più perché mossi dal bisogno materiale, che per gusto di esperienza socio-culturale internazionale, ovvero di sfida intellettuale o professionale.
I ricercatori della Fondazione Migrantes hanno proposto una lettura complessivamente ottimista del fenomeno, l’emigrazione come nuova “valvola di sfogo”: essa “potrebbe permettere di trovare una sorte diversa rispetto a quella a cui si è destinati nel territorio di origine. Così intesa, la mobilità diventa “unidirezionale”, dall’Italia verso l’estero, con partenze sempre più numerose, e con ritorni sempre più improbabili. La questione non è tanto quella di agire sul numero delle partenze – anche perché, nel mondo globale, la libertà di movimento, il sentirsi parte di spazi più ampi e di identità arricchite, è quanto si sta costruendo da decenni – ma piuttosto di trasformare l’unidirezionalità in circolarità, in modo tale da non interrompere un percorso di apprendimento e formazione continuo e crescente, da migliorare le conoscenze e le competenze, mettendosi alla prova con esperienze in contesti culturali e professionali diversi, tenendosi aggiornati e al passo con il mondo che cambia”. Si auspica quindi un processo di feedback positivo: dall’Italia verso l’estero e dall’estero verso l’Italia, in un’inedita “circolarità” di quelli che un tempo si definivano retoricamente “cittadini del mondo”, e che sempre più tali stanno divenendo.
In altre parole, l’emigrazione “non come depauperamento, ma come motore di nuovo arricchimento”.
Il “Rim” è stato introdotto da Monsignor Guerino Di Tora, Presidente Fondazione Migrantes (nonché Vescovo Ausiliario di Roma), che ha definito l’emigrazione “un fenomeno di mobilità globale, che è fatto di arrivi, di partenze e di ritorno, di ripartenze di nuovo…”, ancora non adeguatamente conosciuto. “La migrazione appartiene a ciascuno di noi, è dentro la storia familiare personale di ciascuno di noi, esige rispetto impegno… La libertà di partire però non deve negare la libertà di restare, ma anche di tornare nella propria patria: purtroppo, sono tanti giovani italiani all’estero che oggi non riescono a rientrare in Italia. Sono in tanti a sperimentare un percorso verso l’estero di sola andata, con la speranza di ritorno che non è accompagnata da una volontà di valorizzare risorse e competenze acquisite in Italia e all’estero, mettendole al servizio di un Paese che ha urgente bisogno di essere rilanciato svecchiato ricostruito…”. Ha concluso che “non servono solo le statistiche o gli studi: occorre che lo studio arrivi sulle scrivanie dei decisori politici e soprattutto occorre che lo studioso affianchi le istituzioni per indirizzare a nuovi percorsi. Un passo fondamentale è quindi il passaggio dallo stadio dallo studio all’azione all’operatività”. Ha poi ricordato l’iniziativa Cei “liberi di partire, liberi di emigrare”, ovvero la necessità di coniugare il diritto di emigrare con il diritto di restare e con il diritto di rientrare.
Sullo scenario, inevitabilmente, anche la questione dello “ius soli”, in una dimensione curiosa: una parte degli stranieri che acquisiscono la nazionalità italiana… ri-emigrano, e divengono “italiani all’estero”.
Il neo Direttore Generale della Fondazione Migrantes Don Giovanni De Robertis (ha preso il testimone che gli ha lasciato Monsignor Gian Carlo Perego, eletto Vescovo di Ferrara da Papa Francesco qualche mese fa), ha così risposto ad una domanda sullo “ius soli”, a margine dell’evento: “Partita chiusa sullo ius soli? Fino al novantesimo speriamo sempre di rimontare e realizzare non una concessione, ma il riconoscimento di una realtà del Paese. Ci sono nuovi italiani, nati qui o con cicli di studi alle spalle, che si sentono italiani e tendono ad essere riconosciuti come tali. Più che allo ius soli, il nostro augurio va allo ius culturae”. E, citando Barack Obama: “su immigrazione e accoglienza ci possono anche essere opinioni diverse, ma non è comprensibile come ci possa dividere su giovani nati o cresciuti in questo Paese”. De Robertis ha criticato che l’argomento sia entrato nel dibattito politico-elettorale “inquinandolo con argomenti che non c’entrano nulla, visto che la ius soli non incoraggia nuovi sbarchi, e coinvolge solo bimbi nati in Italia”. Ancora una volta, forte la responsabilità dei media: “lo ius soli è una questione spiegata male agli italiani, se chiediamo nei particolari di cosa si tratta… noteremo che c’è tanta disinformazione: una disinformazione ‘voluta’. Ci parlano di ‘invasione’: ma quale invasione?! Da alcuni anni in Italia, l’immigrazione non cresce, perché il nostro Paese non è più una meta ambìta”.
Su “Cultura e lingua: lo stile italiano nel mondo” è intervenuto Andrea Riccardi, Presidente dal 2015 della Società Dante Alighieri, istituzione storica che rimonta all’impulso di Giosue Carducci nel 1889 (si ricordi che Riccardi è anche il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ed è stato tra l’altro Ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione nel Governo Monti, dal 2011 al 2013): “l’Italia è paese di emigrati e di immigrati. Il problema è che il tema emigrazione è stato affrontato per un secolo con la chiave della ‘ital-nostalgia’, mentre è necessario un passaggio dall’‘ital-nostalgia’ all’‘ital-simpatia’”. Il Presidente della Alighieri ha sottolineato come gli italiani nel mondo “siano un pezzo di patria che non possiamo dimenticare. Lo Stato, tuttavia, ha scarsamente investito sull’italiano fuori dall’Italia. All’estero si investe molto di più sulla lingua. Non voglio parlare di occasioni perdute, ma ringraziare, oggi, la Fondazione Migrantes, perché tiene vivo il discorso su un’Italia fuori dall’Italia. Oggi abbiamo una chance nuova: la globalizzazione che introduce nuove possibilità, e fa ripensare tutte le tematiche evocate in questo rapporto. L’Italia deve riconsiderare la sua proiezione internazionale in modo complesso. C’è una grande ricerca di Italia nel mondo. Di arte, cultura, cucina, stile e vivere italiano. Ma questo impone una grande competitività. Lingua, cultura e umanesimo italiano sono ‘pezzi’ esportabili. Bisogna allontanarsi dalla cultura della nostalgia. C’è una differenza tra i neo emigrati e le generazioni che in passato hanno lasciato l’Italia. Il rapporto attuale non è nostalgico, ma fatto di scambio e capace di confronto. Il parlare italiano si accompagna allo stile italiano di vivere. Oggi i giovani italiani all’estero cercano un ambito dove parlare italiano, ma vogliono comunque essere inseriti nel contesto dove vivono. Rappresentano, in sostanza, una ‘identità multipla’”. Si dovrebbe “trasformare l’unidirezionalità in circolarità, considerando come valori la cittadinanza plurima e le identità arricchite”.
Riccardi ha richiamato alcuni dati assolutamente sconfortanti, anzi vergognosi ovvero scandalosi: la Francia investe 750 milioni di euro l’anno per la promozione internazionale della lingua francese, il Regno Unito ed il British Council 826 milioni, il Goethe tedesco 218 milioni di euro, il Portogallo con il suo Camoes 12 milioni di euro…
L’Italia?! Fino a due anni fa, la Dante Alighieri, a causa delle continue riduzioni di stanziamento, aveva contributi pubblici per… mezzo milione di euro: “una cosa da ridere!”, ha rimarcato Riccardi (sul sito della Dante, il bilancio 2016 reca un totale di ricavi di 4,5 milioni di euro – di cui 700mila dal Ministero degli Esteri e ben 2,9 milioni da corsi di lingua e cultura italiana – a fronte dei 4,0 milioni dell’esercizio 2015).
Eppure si dice – mito o realtà – che l’italiano sia la quarta lingua più richiesta al mondo come apprendimento.
Ha stupito la totale assenza, nella dotta relazione di Riccardi, di ogni riferimento al ruolo potenziale (ma assente) della Rai nella promozione della cultura italiana nel mondo. Non a caso, totalmente assente dal “panel” la radiotelevisione pubblica italiana, anche se in platea sedeva – unica in rappresentanza di Viale Mazzini – Loredana Cornero, Segretario Generale della Comunità Radiotelevisiva Italofona, organismo promosso dalla Radiotelevisione Italiana.
Salvatore Ponticelli, della Direzione Centrale Pensioni dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, ha parlato dei pensionati che decidono di trasferirsi all’estero: quasi 380mila le pensioni pagate nel 2016 dall’Inps all’estero, in 160 Paesi (soprattutto in Europa, ma anche in Canada, Usa, Australia, Germania, Francia).
L’onorevole Vincenzo Amendola, Sottosegretario agli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale con delega agli italiani nel mondo (e Responsabile nazionale del Partito Democratico con delega agli Esteri nella 2ª Segreteria Renzi), ha sostenuto che “da due anni portiamo avanti una scelta: mantenere la rete consolare con i numeri che sappiamo. Non solo: abbiamo aperto Ambasciate in nuovi posti. Soprattutto in Africa, un Paese da dove ci sono molte partenze. Tentiamo con le nostre risorse, che si sono confermate grazie al Governo Renzi e Gentiloni, di mantenere presidi e consolati laddove ci sono le comunità italiane. Perché, per noi, i 5 milioni di italiani che vivono all’estero fanno parte dello stesso sistema a cui garantiamo diritti e assistenza. I nostri consolati sono presidi di unità per le nostre comunità. Tutto questo in maniera sempre più sussidiaria insieme ad altre reti. Le reti associative, le reti dei patronati, dei Comites, dei missionari: per avere un sistema italiano che all’estero garantisca eguali diritti. La mia delega agli italiani all’estero è un grande regalo che mi ha fatto Paolo Gentiloni all’epoca ministro degli esteri”. Una digressione personale: “anche io vengo dal mondo della mobilità, anche io ho fatto parte dell’8 per cento della popolazione che vive all’estero. Ma io ho fatto parte di quella che viene chiamata ‘emigrazione circolare’, perché poi sono tornato”. Ha ricordato di essere spostato con una straniera poi divenuta italiana. Ha poi sottolineato che l’emigrazione fa parte della storia del nostro Paese: “mio nonno emigrò in Argentina negli anni ’50, come tanti altri per cercare di costruire un futuro migliore: è partito senza avere idea dell’emigrazione circolare perché non è tornato…”. Un intervento positivo ed ottimista, quello del Sottosegretario, che certo non ha affrontato di petto i tanti deficit della politica italiana nei confronti dei connazionali all’estero, a partire dalla assoluta limitatezza di risorse messe a disposizione dallo Stato italiano per la promozione della nostra lingua e cultura all’estero (e che dire, poi, del “made in Italy”?!). Nemmeno una parola una sulla disastrosa situazione degli istituti italiani di cultura all’estero, che denunciammo due anni anche su queste colonne (vedi “Gli Istituti italiani di cultura all’estero: una ferita aperta del ‘sistema Italia’”, su “Key4biz” del 25 giugno 2015). E ciò basti. E nessun cenno nemmeno ai giornali ed alle emittenti radiotelevisive delle comunità italiane nel mondo…
Come sempre sferzante nella sua irritualità il Segretario Generale della Cei, Monsignor Nunzio Galantino, che ha concluso i lavori: “pochi varchi aperti per i giovani: così gli italiani vanno all’estero… Non voglio assolutizzare o proporre una lettura unica dei fenomeni che dall’Italia portano altrove, ma il fattore principale di questa mobilità è la differenza che i nostri ragazzi e tanti adulti hanno nel progettare, a fronte di una situazione sociopolitica che fa sempre più difficoltà ad aprire finestre e varchi. I ragazzi un po’ si muovono perché portati a sperimentare nuove cose, e un po’ per necessità, ed evidentemente vanno altrove, perché trovano risposte altrove”. In sostanza, si emigra perché ci si scontra con un sistema chiuso e bloccato: le barriere all’entrata per guadagnarsi un lavoro dignitoso o realizzare un progetto innovativo sono alte, a fronte di un Paese nel quale il capitale relazionale prevale sulla qualità, e la meritocrazia è l’eccezione alla regola.
Le concause che spingono i giovani ad emigrare sono attualmente comunque varie, non soltanto economiche: “accanto ai migranti economici, e dovuti a situazioni sociali non accettabili, oggi c’è un’altra forma di migranti, quella della ‘mobilità del desiderio’: esperienze nuove di incontrare altra gente, e progettare in maniera non tradizionale. Questa mobilità non può essere ridotta ad una mobilità dovuta ai criteri che tutti conosciamo: esistono quindi altre forme di mobilità, che vanno accompagnate e sostenute”.
Galantino ha evocato il concetto di “identità plurime”, che caratterizzano il migrante contemporaneo: “la cittadinanza non è data solo dal territorio (ius soli) o dal sangue (ius sanguinis), ma è determinata da quanto si vive e si sperimenta nel corso della propria vita. Diventano determinanti il cammino formativo, il percorso di conoscenza del sé, i luoghi in cui si vivono le stagioni della vita, gli incontri; tutti elementi culturali che creano non una sola identità, ma identità plurime, dinamiche, in costante arricchimento”. Concetti che, per Galantino, “è importante riscattare da un ambito meramente socioculturale, per farli diventare anche cultura vissuta. Dobbiamo fare lo sforzo di continuare a dire queste cose: facciamole diventare anima di un modo diverso di stare tra noi e di capire le cose”.
Il dibattito è stato moderato, con eleganza, da Franz Coriasco, giornalista e scrittore, ed è stato proposto anche un “video-rapporto”, prodotto da Tv2000 (la televisione della Cei) e presentato dal suo Direttore Paolo Ruffini.
Tutti i relatori hanno ringraziato Delfina Licata, la direttrice del “Rapporto Italiani nel Mondo”, che ha coniato anche un efficace slogan: emigrazione come dinamica sociale che porta le persone non ad essere assenti e lontane, ma (anche grazie all’evoluzione dei “social media”) “diversamente presenti”.
Conclusivamente, un rinnovato e stimolante set di dati ed analisi (quello dell’anno scorso, lo avevamo segnalato anche su queste colonne: vedi “Italiani in fuga? Quanto clamore per la nuova educazione”, su “Key4biz” del 10 ottobre 2016): auspicando, come ha sostenuto il Presidente della Migrantes Monsignor Guerino Di Tora, che il “Rapporto Italiani nel Mondo” venga opportunamente metabolizzato dai “policy maker”, e che lo studio possa stimolare un concreto intervento nella realtà.