L'iniziativa

ilprincipenudo. Rai e digital divide: il progetto ‘Manzi 2.0’ sembra poca cosa e forse nella direzione sbagliata

di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale - IsICult) |

Presentata oggi in pompa magna l’iniziativa ‘Manzi 2.0’, nel debole tentativo della Rai di recuperare in qualche modo il tempo perduto in qualità di stimolatore dell’alfabetizzazione digitale del Paese.

Questa mattina, s’è tenuta un’affollata kermesse in pompa magna nel Salone degli Arazzi della sede romana della Rai in viale Mazzini, nel debole tentativo del “public service broadcaster” italiano di recuperare in qualche modo… il tempo perduto, rispetto alla funzione di stimolatore dell’alfabetizzazione digitale del Paese.

Funzione cui pure sarebbe tenuta dal “contratto di servizio”, ma – come è ormai noto a tutti – questo “contratto” è scritto sull’acqua, e si pone come carta d’intenti simpaticamente disattesa, nonostante gli sforzi del Presidente della Commissione di Vigilanza, il pugnace (ma inefficace) grillino Roberto Fico.

#ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.
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L’iniziativa presentata è stata denominata “Alfabetizzazione Digitale: Manzi 2.0”, in onore del mitico maestro che, con il suo programma “Non è mai troppo tardi”, insegnò a leggere e a scrivere agli italiani, dal 1960 al 1968: il riferimento storico è bello e nobile, ma temiamo che la versione “2.0” possa determinare che il buon Alberto Manzi si rivolti – come s’usa dire – nella fossa… Ricordiamo che a Manzi la Rai ha dedicato recentemente anche una interessante fiction rievocativa (la miniserie intitolata appunto “Non è mai troppo tardi”, andata in onda su Rai 1 nel febbraio 2014).

Abbiamo ascoltato infatti molta teoria, ancora una volta gran belle intenzioni, l’ennesima “retorica del digitale”, che appassiona alcuni politici di professione e finanche alcuni consulenti specializzati, ma anche Google (of course) e Confindustria Digitale (naturaliter) e certamente anche il nostro Presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Tra il dire ed il fare, c’è di mezzo il mare, ovvero – nel caso in ispecie – quel “digital divide” che è anche, per Rai, soprattutto un evidente “cultural divide”, di rapporto con la società reale e con le nuove tecnologie.

Basti ricordare che non esiste, dopo l’incomprensibile killeraggio della eccellente “Mediamente” di Rai Educational, ideata da Renato Parascandolo, Luigi Bertolo, Maurizio Malabruzzi, Carlo Massarini, andata in onda su Rai in fascia notturna dal 1994 al 2002, una trasmissione Rai (una!) che svolga una funzione di minima sensibilizzazione critica delle tematiche della società digitale. “Mediamente” può vantarsi peraltro di essere stato il primo programma Rai ad essersi avvalso attivamente di un sito web. La chiusura della trasmissione, ormai oltre dieci anni fa, provocò molte proteste, che furono fatte proprie dal popolo del web (il Paese reale?!), ma completamente ignorate da viale Mazzini (il Paese virtuale?!). Lotte interne tra fazioni della dirigenza apicale, avvicendamenti politici nel consiglio di amministrazione: le solite malattie che determinano spesso in Rai la dispersione di un patrimonio culturale, professionale, esperienziale, che pure potrebbe rappresentare una ricchezza enorme per un “public media service” all’altezza delle sfide cui è chiamato dalle mutazioni sociali in atto.

La situazione complessiva del Paese, a proposito di società digitale, è notoriamente pessima: al di là dei problemi “materiali” ovvero il deficit di banda larga, v’è certamente anche un problema di deficit socio-culturale, se è vero che l’Italia ha uno dei tassi di analfabetismo digitale più alti in Europa, pari a oltre un terzo della popolazione. Secondo le più recenti statistiche, il 32% degli italiani non si trova a proprio agio nel mondo del digitale: crediamo che si tratti in verità di una quota ben maggiore del totale della popolazione.

In questi anni, Rai cosa ha fatto per evitare questa deriva? Nulla.

È un po’ tardi, a fine 2014, per parafrasare il Nostro, o forse.. “non è mai troppo tardi”?!

Non è tardi, se si elaborano progetti concreti, se si reperiscono risorse adeguate e se le si alloca intelligentemente e strategicamente.

Quante e quali risorse abbia reperito ed allocato Rai, nel caso in ispecie, non è dato sapere, né quale sia concretamente la strategia. In che cosa, poi, il progetto “Manzi 2.0” si incarni materialmente in palinsesto non è stato ben chiarito.

L’iniziativa presentata dalla Rai intende – nelle (belle) intenzioni, ovvero sulla carta… – diffondere la conoscenza degli strumenti informatici del terzo millennio. Il Direttore Generale Luigi Gubitosi ha precisato: “Non una trasmissione specifica, ma una contaminazione dell’intera programmazione del servizio pubblico, dalle fiction ai talk show”. Belle intenzioni, bel concetto la… “contaminazione”: attendiamo di vedere su schermo i risultati concreti. Il Dg Gubitosi ha sostenuto con orgoglio: “Torniamo alle origini con il maestro Manzi. I big data e la digitalizzazione stanno cambiando il mondo e, per prima cosa, stiamo applicando questo cambiamento a noi stessi. Il processo di digitalizzazione della Rai, cominciato due e anni e mezzo fa, sta andando avanti come previsto, e, a fine 2016, la digitalizzazione sara’ un fatto compiuto per la tv pubblica”.

 

La cerimonia è stata officiata dal “Digital Champion”, Riccardo Luna (anche sull’iniziativa del “Champion”, nutriamo forte e laico scetticismo, ma non vogliamo qui infierire), e la Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, la gentile Marianna Madia, ha imposto la sua religiosa benedizione (istituzionale). Madia ha rimarcato – da un lato – i ritardi dell’Italia nella domanda e nell’offerta di servizi digitali, e – dall’altro – lo sforzo del governo per sviluppare l’informatizzazione del Paese: “Stiamo rivoluzionando i servizi pubblici, e questo cambiamento lo concepiamo in modo digitale, perché la digitalizzazione è un diritto dei cittadini”. Bene, brava, bis: ma, in concreto, cara Ministra, dove è la “rivoluzione” che ci annuncia?!

Madia ha enfatizzato le potenzialità del web, facendo anche un cenno autobiografico: “Oggi, oltre che saper leggere e scrivere, alfabetizzazione vuol dire anche sapere cosa sia un computer, sapere come si usa la rete internet e quali sono i rischi e le opportunità del web. Credo che ancora oggi non sia mai troppo tardi. Ho un esempio a casa: mia nonna. Oggi non mi guarda più negli occhi, qualunque cosa gli dica, perché attratta dalle informazioni che la rete offre”.

È stato comunicato che, per il progetto “Manzi 2.0”, Rai ha siglato accordi-quadro con l’Agenzia per l’Italia Digitale, l’Associazione Digital Champion, con Confindustria Digitale, ed anche con Anica ed Apt (le due associazioni dei produttori cinematografici e televisivi, aderenti peraltro ad un’altra anima di viale dell’Astronomia, Confindustria Cultura). Delle ultime tre associazioni, non è intervenuto alcun rappresentante e quindi, anche qui, resta senza risposta una domanda sulla concretezza operativa di queste grandi e belle intese.

Il Dg Gubitosi ha proposto un parallelo tra quel 32% di italiani attualmente lontani dalla cultura digitale e quel 34% di italiani che, negli anni Sessanta, non aveva alcun titolo di studio.

Se ben comprendiamo, la “disseminazione” annunciata da Gubitosi potrebbe concretizzarsi in uno spot di pubblicità sociale o in qualche “product placement” mirato (magari finanziato da un ministero?!) che vede nonno Libero che paga le bollette online o Don Matteo che sviluppa una qualche sua indagine utilizzando Facebook. Ed invece una bella e semplice trasmissione, ben curata, e magari posizionata trasversalmente sui palinsesti generalisti? No, eh?! Sarebbe veramente “troppo”!

Francamente, crediamo che una “trasmissione specifica di alfabetizzazione”… male non avrebbe fatto, e male non farebbe.

Anzi, abbiamo il coraggio di sostenere che Rai potrebbe (dovrebbe!) proporne tre (addirittura?!), una per ognuna delle sue reti generaliste, modulandola in funzione del target dei tre canali.

Ricordiamo che Rai non ha nemmeno una trasmissione di critica mediologica, se si esclude “Tv Talk”, il programma di Massimo Bernardini, Furio Andreotti, Sebastiano Pucciarelli e Mirco Cucina, concentrato ovviamente sulla televisione, che Viale Mazzini ha ereditato dall’esperienza de “Il Grande Talk”, andato in onda dal 2001 sulla ecclesiale Sat2000. Va in onda dal 2005, attualmente il sabato pomeriggio (?!) su Rai Tre.

Chi redige queste noterelle, un paio di decenni fa, fu coautore e consulente generale di una antesignana trasmissione televisiva dimenticata dai più (Aldo Grasso, nella sua “Enciclopedia”, non l’ha degnata di un trafiletto), ideata dal compianto Carlo Sartori (il primo teorico in Italia della grande convergenza multimediale, massmediologo d’avanguardia maltrattato dal sistema accademico e poi dirigente Rai non premiato per le sue capacità), che si intitolava “Il Paese delle Meraviglie”, andata in onda nel 1990 (e quindi antesignana rispetto a “Mediamente”): primo ed unico tentativo di produrre un programma televisivo di alfabetizzazione multimediale con format d’intrattenimento. Dopo una gestazione complessa e faticosa, la trasmissione fu allocata nella fascia pomeridiana del palinsesto di Rai 2, e non registrò un gran successo di audience, anche a causa del delirante posizionamento totalmente fuori target. Anche in quel caso, una gran bella esperienza dispersa, come quelle peraltro condotte negli anni precedenti dallo stesso Sartori: “Il giro del mondo in 80 Tv” (Rai Uno, 1980); “La fabbrica delle stelle” (Rai Due, 1982); “Televisione, 50 di questi anni” (Rai Uno, 1986); “Dieci anni che sconvolsero la Tv” (Rai Tre, 1987)…

Non temiamo che Rai arrivi tardi, ma che, ancora una volta, arrivi male, ancora una volta dimostrando l’incapacità di mettere a frutto il proprio enorme patrimonio.

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