Un osservatorio come il nostro non può prendere sottogamba – o considerare le parole semplicemente a mo’ di boutade di eccezionali istrioni – quel che è avvenuto nella giornata di venerdì 29 giugno, e che alcuni quotidiani hanno subito titolato come “l’editto” di Beppe Grillo, e quel che è avvenuto domenica 1° luglio, con il Vice Presidente del Consiglio Luigi Di Maio che ha manifestato il suo “sogno” evocando un anti-Netflix: il fondatore del Movimento 5 Stelle ed il Capo Politico del Movimento si sono manifestati a chiare lettere sul futuro della Rai, il primo auspicandone una radicale privatizzazione ed il secondo prospettando un futuro fantastico per Viale Mazzini, con una Netflix italiana…
Qualcosa non quadra: immaginiamo che Grillo e Di Maio si parlino con discreta frequenza, e vogliamo credere che esista una qualche sintonia tra loro. Dalle dichiarazioni rilasciate dall’uno e dall’altro nell’arco di 48 ore soltanto, non sembrerebbe. Le tesi dell’uno cozzano qui con le tesi dell’altro.
Uno “taglia” brutalmente (stile macelleria), l’altro “rilancia” (ed alla grande).
Ricostruiamo con cura, ricordando che il “dossier Rai” sta per divenire incandescente, considerando che è stata calendarizzata per mercoledì 11 luglio l’elezione dei 2 membri del Consiglio di Amministrazione di nomina da parte della Camera dei Deputati (poi ci saranno i 2 del Senato ed i 2 del Governo, e 1 eletto dai dipendenti), e che la partita per l’elezione del Presidente della Commissione Bicamerale di Vigilanza sulla Rai (che spetta per regolamento alle opposizioni) è ancora dall’esito incerto, e si giocherà verosimilmente domani martedì 3 luglio (tra i più accreditati alla presidenza, Maurizio Gasparri per Forza Italia ed Antonello Giacomelli per il Partito Democratico).
Il comico e fondatore del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo si trovava venerdì 29 giugno a Roma per motivi personali, ma anche per incontrare l’ex Presidente dell’Ecuador, il socialista Rafael Correa (e mandare così – secondo alcuni analisti – un segnale di ammiccamento alla base sinistrorsa dell’elettorato grillino): ai giornalisti che aspettavano una sua dichiarazione sotto l’Hotel Forum (nel quale abitualmente alloggia) il comico ha rivolto un messaggio alquanto bizzarro, affacciandosi alla finestra, imbracciando un megafono, e sostenendo “Rai Tre, Rai Due e Rai Uno: due saranno messe sul mercato e una senza pubblicità”, e concludendo il suo breve discorso con un (auto?!) ironico “questo dice l’Elevato… accontentatevi di questo”. Un proclama lanciato “nel vuoto”, con un megafono, da un balcone di un albergo, in una torrida giornata di una Roma assonnata (a causa della festa dei patroni cittadini, i Santissimi Apostoli Pietro e Paolo).
La proposta, manifestata in modo piuttosto inusuale (ma questo è il costume del personaggio) riguarda direttamente il Ministero guidato dal suo “erede”, Luigi Di Maio, che, nella pancia dello Sviluppo Economico, ha difeso con le unghie e con i denti la delega alle Comunicazioni dall’assalto che aveva comunque tentato l’alleato Matteo Salvini.
Si domanda il collega Alessandro De Nicola su “la Repubblica”: quello di Grillo è “Una voce dal sen fuggita? Una provocazione? Un ballon d’essai?”.
Si registrano 24 ore di strano silenzio. L’indomani, sabato 30, verso l’ora di pranzo, interviene Luigi Di Maio, quasi a mo’ di precisazione (in occasione di una sua partecipazione al Festival dei Consulenti del Lavoro di Milano): l’idea di Beppe Grillo sulla Rai… “era una vecchia proposta del Movimento 5 Stelle nel programma del 2009. Per ora, nel Contratto di Governo noi abbiamo inserito esclusivamente che la Rai non vada più lottizzata, e quindi la smetteremo con persone di partito all’interno del Consiglio di Amministrazione, il direttore generale, il presidente, i direttori dei Tg. Deve tornare un po’ di merito in Rai, so che è una grande sfida, ma questa è la vera sfida culturale. Se l’industria culturale del nostro Paese ricomincia a far cultura, e non si mette a lavorare per i partiti, allora quell’azienda poi cambierà la cultura di tutto il Paese”.
Immediata la replica della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi) e del Sindacato dei Giornalisti Rai (Usigrai), firmata rispettivamente da Beppe Giulietti e Vittorio DI Trapani: “non facciamoci fuorviare dagli sketch comici. È solo un modo per distrarre tutti: si stuzzicano gli appetiti sulla privatizzazione, per occultare l’imminente occupazione della Rai da parte del governo. Per di più, grazie alla legge Renzi: criticata quando erano nei banchi dell’opposizione, ora che sono entrati nella stanza dei bottoni la utilizzano per occupare il Servizio Pubblico. Noi invece quella legge la criticammo allora, e continuiamo a criticarla oggi. Così riforma della governance, legge sul conflitto di interessi e norme antitrust sono finite in soffitta. Altro che cambiamento: in linea con la vecchia partitocrazia”.
Show a parte, la notizia vera è la presa di posizione ufficiale del Capo del Movimento, Luigi Di Maio, che domenica mattina 1° luglio, la affida al blog ufficiale del (non)partito: una lunga analisi, che deve stimolare una riflessione attenta.
Le televisioni che non sapranno evolversi sono destinate a estinguersi. Ha un sapore in qualche modo darwiniano (e necroforo?!) il messaggio di Maio sul futuro delle televisioni che, immancabilmente, coinvolge anche Rai e Mediaset. Basti leggere il titolo del post sul “Blog delle Stelle”: “Le tv tradizionali hanno i giorni contati, ma la prossima Netflix può essere italiana”. L’idea generale è quella di una specie di “Netflix italiana”: una nuova piattaforma con cui dovrebbero fare i conti anche Rai e Mediaset, per una volta appaiate e poste nelle stesse condizioni all’interno di un mercato che sta cambiando radicalmente. Emerge presto il plauso – su Facebook ovviamente – del “guru digitale” Davide Casaleggio, che sostiene che “se aspettiamo di vedere il futuro arrivare, arriverà dall’estero. Dobbiamo iniziare a costruirlo noi”, definendo “emblematico” il caso dell’industria dei media italiana, visto che “ha aspettato arrivasse Netflix per preoccuparsi di innovare il proprio modello di business”. L’imperativo è dunque “pensare all’innovazione non quando è ormai inevitabile, ma quando è possibile”.
A sostegno delle sue tesi, Di Maio snocciola i dati di un report di Morgan Stanley (nel blog, si linka curiosamente ad un articolo di Dagospia, che – a sua volta – rilancia un articolo di Francesco Spini per “La Stampa”) sul futuro della televisione: in Italia, al momento Netflix ha una penetrazione stimata attorno al 6 %, ma cresce a un ritmo del 3 % l’anno e quindi raggiungerà il 20 % in 5 anni. è necessario precisare che queste stime sono il risultato di un report pubblicato venerdì 29, che ha proposto un “downgrade” di tutti i titoli del settore “broadcasting” in Europa: la “Letter from America” di Morgan Stanley annuncia l’adozione di una “view” negativa legata allo spostamento degli investimenti pubblicitari sulle piattaforme non tv, fenomeno strutturale che si sta già manifestando oltreoceano. Le borse europee hanno immediatamente reagito, con titoli… giù, ma va segnalato che si tratta delle solite reazioni emotive. Va rimarcato che si tratta di analisi non incontrovertibili, e non sempre queste multinazionali della finanza e della consulenza c’azzeccano. Da anni, e decenni, si ascolta l’annuncio del “requiem” per la televisione tradizionale, ma essa continua ad attrarre investimenti significativi e resta comunque il maggiore investitore in contenuti audiovisivi di qualità, e chi può escludere che queste sortite siano in qualche modo eterodirette dalle potenti lobby degli “over-the-top”?!
Scrive Di Maio: “quello sarà il punto di non ritorno che in America ha coinciso con il declino del consumo della tv tradizionale. Prevedono quindi che nei prossimi 5 anni gli operatori tradizionali italiani ed europei avranno un calo degli utili del 40 %”, scrive il Vice Premier che, in quanto Ministro dello Sviluppo Economico con delega alle Comunicazioni, si sente in dovere di “anticipare il futuro” e “fare investimenti che vanno nell’ottica delle nuove tecnologie”.
Il 5G, ad esempio, la banda larga, ma anche “quei servizi che possono essere di supporto alle piattaforme di oggi”. Perché, “se la prossima Netflix sarà italiana, dipende dagli investimenti che facciamo oggi”. In questo senso, per Rai e Mediaset, “sarà fondamentale riuscire a rinnovarsi con nuove persone e nuove idee, pensando a nuovi prodotti e inserendosi in una logica completamente diversa da quella seguita fino ad oggi”. Elogio del “nuovo” a gogò.
Continua Di Maio: “penso a dare un’opportunità alle giovani imprese che si occupano della creazione di nuovi format e di contenuti multimediali, a quelle che realizzano applicazioni in questo settore, a quelle che inventano da zero nuove tecnologie. In definitiva a stimolare creatività e competenze tecnologiche in questi ambiti. Un prodotto italiano di successo diffuso su Netflix o piattaforme simili, sarebbe un volano importante per far conoscere il nostro stile di vita e per far ripartire la nostra industria culturale. Se riusciremo anche a sviluppare delle piattaforme italiane che hanno successo mondiale sarà un ritorno incredibile su tantissimi fronti”.
Tutto molto bello, Vice Presidente. Ma con quali risorse?! Il mercato italiano dei media, così come quello delle tlc, non ha mai mostrato particolari vocazioni ad investimenti strategici, e poi di così grande respiro. Lei pensa si possa ricorrere a risorse pubbliche?! Attingendo a quale bacino, per dotare di senso e di forza la “mano pubblica”, evitando ogni velleitarismo ed avventurismo?
Lei scrive: “una cosa è sicura: è un momento di grandi cambiamenti e quindi di enormi opportunità. Con investimenti oculati e un serio indirizzo politico le coglieremo e saremo protagonisti. Forse qualcuno dirà che sto sognando. Me lo dicevano anche nel 2009 e oggi siamo al governo del Paese”. Lei precisa “investimenti oculati”: da parte di chi? E di quale entità?! Ha idea delle dimensioni del mercato audiovisivo planetario, rispetto alla piccola “provincia” italica? Ha idea delle dimensioni dei “competitor” e comunque dei “player”, e della complessità dell’intreccio della convergenza tra media e tlc ed internet?
Ci consenta di ricordare che nel 2017 Netflix ha investito l’equivalente di 5,4 miliardi di euro in contenuti, a fronte dei 4 miliardi di Amazon… Il totale dei ricavi (esercizio 2016) di Comcast è stato di 73 miliardi di euro, quello della Disney 50 miliardi, quello della Time-Warner 26 miliardi… Il totale dei “big 5” delle multinazionali Usa (Comcast + Disney + Time-Warner + 21th Century Fox + Viacom) è stato nel 2016 di 185 miliardi di euro. Il totale di tutti i “public service broadcaster” d’Europa (di tutta l’Europa) è stato di 36 miliardi di euro. Le ricordiamo anche che il totale dei ricavi Rai è stato nel 2016 di 2,8 miliardi di euro, a fronte dei 6 miliardi di Bbc, dei 6,4 miliardi di Ard cui si affiancano i 2,1 miliardi di Zdf, dei 3,2 miliardi di France Télévisions…
Insomma, caro Vice Presidente, anche nell’economia culturale e mediale… “size does matter”. E come recita saggezza popolare, “tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare”. Un mare di dimensioni maggiori e di perigli terribili, rispetto a quello a suo tempo attraversato, nello stretto di Sicilia, da Beppe Grillo…
Lei conclude: “inseguiamo i nostri sogni e facciamoli diventare realtà”. Ci auguriamo che Lei abbia già promosso una “task force” adeguata, perché il Suo intento, anche soltanto a livello di “sogno”, è veramente ambizioso e titanico.
Ci consenta un’altra osservazione: ma Lei si fida proprio delle previsioni e stime di Morgan Stanley, anche nello specifico del settore mediale?! Non è proprio il suo Movimento ad aver assunto una (sana) posizione critica nei confronti degli scenari e delle strategie – non sempre disinteressati ed al servizio del mercato puro – disegnati da “player” di questo tipo, nel… “governo del mondo”?!
Nel pomeriggio di domenica 1° luglio, Beppe Grillo, lasciando la Capitale, se ne esce con una nuova sparata: lasciando l’Hotel Forum, ha inscenato un nuovo “show”, che, tra il serio e il faceto, ha rilanciato quello “state attenti” nei riguardi di cronisti che ciclicamente ritira fuori, e non sono mancate frasi da Sibilla Cumana, che possono essere interpretate in chiave politica (messaggi in codice indirizzati a chissà chi)… Grillo è uscito dall’albergo con un microfono in mano, nel quale ha parlato al posto di quelli che i cronisti gli hanno posto davanti: “stai largo… La7. Romano guardami Canale 5”, ha detto facendosi largo tra le telecamere ed eludendo le domande dei giornalisti… “Una dichiarazione per Agorà”, gli chiede una cronista… “Agorà? Agorà la chiudiamo”, risponde Grillo, e salendo in auto aggiunge “dov’è il Foglio? Romano guardami Il Foglio che gli togliamo i finanziamenti. La7 e Canale5 non avvicinatevi. Rai 1 state molto attenti…”.
Rispetto alle sortite di Grillo e di Maio, si registra una presa di posizione politica soltanto, ed è curioso anzi incredibile, pur considerando che c’è stato un fine settimana lungo a Roma, e forse un po’ di gita al mare anche per i frequentatori dei palazzi del potere…
Federica Zanella, parlamentare di Forza Italia (già Presidente del Corecom della Lombardia, definita dal quotidiano “Libero” come “l’ultima amazzone del Cavaliere”), ha sostenuto, nel pomeriggio di domenica 1° luglio: “ancora una volta il Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, con delega alle telecomunicazioni, Di Maio parla a vanvera di cose che non conosce. Oggi cerca per lo più di dare lezioni di tv, rivolgendosi in particolare a Mediaset e Rai. A prescindere dall’auspicio del trionfo del merito, che suona come un ossimoro in relazione al suo scarnissimo curriculum vs incarichi, mi chiedo se abbia contezza di ciò che dice. Profetizzare, con malcelato compiacimento, il crollo delle tv tradizionali risulta non solo inquietante, ma anche irricevibile. Oltre alle solite banalità populiste in relazione alla cancellazione (da tutti auspicata) della lottizzazione Rai – cosa che ci ricorda le promesse fatte da Renzi, che ha poi creato una Rai a sua immagine e somiglianza – Di Maio, neo-esperto in telecomunicazioni, ci dica quale idea avrebbe dell’auspicato rinnovamento totale”. Zanella domanda provocatoriamente: “il Vice Premier sposa l’idea del suo guru Grillo, che chiede la privatizzazione di due reti su tre?”. E toccando altra questione delicata e strategica, sulla quale si attende il parere del titolare del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Mibact Alberto Bonisoli, domanda: “e il Di Maio di oggi che auspica una Netflix come volano importante per rilanciare l’industria culturale del nostro Paese… è quello che nei giorni scorsi ha dichiarato guerra alla nascente normativa europea sul copyright che questa “industria culturale” è volta a tutelare?”.
Che cosa può trarre, l’osservatore attento e l’analista specializzato, da questi… fuochi di artificio?! Che si tratta, appunto, di parole assai in libertà.
Si auspica maggiore prudenza e miglior tecnicismo.
Immaginiamo che il Vice Presidente del Consiglio (e soprattutto i suoi consiglieri) abbia coscienza che ipotizzare una “Netflix italiana” è una dichiarazione onirica: potrebbe semmai avere un senso – e con grande difficoltà operativa, oltre che strategica – una “Netflix europea”, dato che il problema di fondo è – anche in questo caso – la potenza di fuoco e la dimensione economica. Per decenni, prima dell’avvento del web, si è auspicato una “major pan-europea” nella produzione di contenuti, ma nessuno è riuscito a passare dagli auspici belli alla concretezza fattuale, e qualche tentativo è miseramente fallito. Nella primavera del 2016, ci furono tentativi di “joint-venture” tra Vivendi e Mediaset (i giornali titolarono “nasce il colosso europeo dei media”), prima degli scontri successivi e cruenti assai. E come non ricordare l’ambizione “napoleonica” di Vivendi, tra la fine degli Anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo, nel tentativo di sbarco sul mercato americano, con l’acquisto di Universal Studios?! La storia (economico-politica) dei media va studiata, perché può insegnarci molto: sull’argomento, sia consentito rimandare al saggio “Mercanti di (bi)sogni: politica ed economia dei gruppi mediali europei”, scritto con Francesca Medolago Albani e Flavia Barca, che mantiene elementi di validità, sebbene datato (edito nel 2004 da Sperling & Kupfer).
È comunque di questi giorni (lunedì della scorsa settimana, 25 giugno) l’annuncio di un tentativo per contrastare il crescente potere di Netflix: il tedesco ProSiebenSat.1 (secondo gruppo radiotelevisivo europeo) e la statunitense Discovery Communication (forte di 140 canali tematici che si indirizzano a ben 1,5 miliardi di spettatori), hanno annunciato un accordo industriale per una piattaforma comune a pagamento (una “streaming platform”) con base tedesca, che mira a difendersi dallo strapotere di Netflix e altri “over the top”.
Max Conze, Ceo di ProSiebenSat.1, ha dichiarato un obiettivo di 10 milioni di abbonati in dieci anni. Non è un target impossibile, considerando i 125 milioni di clienti di Netflix e ricordando l’enorme bouquet di Discovery, presente in 220 Paesi (il gruppo tedesca lo è in 12 soltanto, tutti europei, e solo in Germania, Svizzera e Scandinavia con “pay tv”). Alcuni interpretano l’accordo ProSiebenSat.1-Discovery come un ulteriore sbarco di Discovery in Europa in chiave “anti-Netflix”.
Jean-Briac Perrette, Presidente e Ceo di Discovery, ha dichiarato: “ciò che più temiamo è il modello Hulu, la piattaforma nella quale hanno unito le forze i colossi dei media come Walt Disney ed i broadcaster come Nbc e Warner”. Hulu peraltro, un YouTube più perfezionato e sofisticato, distribuisce “video on demand” solo in Usa e Giappone. Per rafforzare l’intesa, i due partner hanno esplicitamente invitato emittenti storiche tedesche come il concorrente commerciale Rtl, ed i due “psb” Ard e Zdf ad aumentare la “massa critica”. Si tratta di tv generaliste, come anche generalista è Mediaset il cui Amministratore Delegato Pier Silvio Berlusconi ha appena dichiarato di guardare ad alleanze “con player europei quali Tf1, Itv e soprattutto ProSiebenSat.1”. Anche qui evocando un fronte “anti-Netflix” e contro Sky: con il gruppo di Rupert Murdoch conteso, a sua volta, da Walt Disney e Comcast. Disney ha già acquisito la holding 21st Century Fox, ma deve fronteggiare i rilanci di Comcast. Le cifre in ballo sono… “stellari”: la prima offerta di Disney era stata di 50 miliardi di dollari, la controfferta Comcast di 65 miliardi, il rilancio del gruppo di “Mickey Mouse” di 71, e ora si profila un ulteriore contropuntata da oltre 90 miliardi…
Alla luce di questo “deficit” di proporzioni, quella di Luigi Di Maio appare sostanzialmente una provocazione, intellettuale e culturale e politica, per evidenziare che si deve prevedere un “new deal” nelle politiche culturali e nelle economie mediali del nostro Paese. Lo stimolo è comunque importante: in effetti, troppo spesso la politica culturale e l’industria mediale italiana è rimasta avvitata su sé stessa, concentrata sul proprio ombelico, frammentata a causa di lotte tra piccole lobby, de-stimolata da un assistenzialismo pubblico senza strategia di sistema, chiusa in una dimensione provinciale…
Di Maio lancia il cuore oltre l’ostacolo: al di là della (non) concretezza del sogno, certamente aiuta a smuovere acque statico-stagnanti, e ciò non può che far bene.