Questa mattina, abbiamo assistito all’ennesima messa in scena di una iniziativa in sé bella e commendevole, che rinnova però la dimostrazione dell’assenza di un governo strategico della politica culturale italiana, ed il rischio concreto di frammentazione di energie e di dispersione di risorse: nell’elegante Tempio di Adriano (sede della Camera di Commercio di Roma), nel cuore della Capitale storica, è stata presentata in pompa magna la 14ª edizione della Fiera Nazionale della Piccola e della Media Editoria, denominata efficacemente “Più lib(e)ri” ovvero “Più libri, più liberi”, che si terrà dal 4 all’8 dicembre a Roma, al Palazzo dei Congressi (all’Eur, il bel quartiere “fascista” disegnato da Piacentini).
L’iniziativa rappresenta ormai un appuntamento tradizionale per la Capitale, e si caratterizza in questa edizione per una “cinque giorni” (da venerdì a martedì) di incontri ed eventi tutti incentrati sulla presentazione di libri, con ben 380 editori, 330 appuntamenti, un migliaio di ospiti (soprattutto scrittori, italiani e stranieri), ed una previsione di “audience” nell’ordine di 50mila visitatori.
Numeri significativi, anche se immediata appare la necessità di un confronto con un’altra iniziativa romana, forse meno “colta” ma comunque stimolante (almeno per gli appassionati di culture “pop” e di sub-culture come quella dei “cosplay”), qual è Romics (rassegna internazionale sul fumetto, animazione, games, cinema e entertainment), la cui ultima edizione alla Fiera di Roma, nell’ottobre 2015, ha registrato ben 200mila visitatori. Verrebbe subito naturale una obiezione: “ma la Fiera dell’Editoria è cultura alta, Romics è cultura bassa…”. La risposta è ovvia: non esistono più confini così netti, nel sistema culturale digitale, e la distinzione è suscettibile di critiche ideologiche non indifferenti, senza dover invocare ancora una volta i classici della post-modernità.
Perché ci soffermiamo su questo confronto, a mo’ di provocazione?
Per due fattori: la prima iniziativa è sostenuta in modo consistente con danari pubblici (quanto, non è dato sapere, dato che – come quasi sempre accade in questi casi – i promotori ed organizzatori pudicamente non rivelano il dato; l’edizione dell’anno scorso pare veleggiasse sui 600mila euro di budget).
La seconda invece si basa soltanto sui ricavi da biglietteria ed affitto degli stand (“mercato” allo stato puro, direbbe un liberista).
La prima è benedetta da tutte le possibili istituzioni nazionali e locali (Mibact, Regione Lazio, Roma Capitale, ecc.), la seconda è sostanzialmente ignorata dalle istituzioni pubbliche (è forse troppo “mercantile” e finanche “trash”?!).
Eppure, entrambe registrano un pubblico vivo, attento, appassionato.
Il Direttore della Fiera romana, il dinamico Fabio Del Giudice, ha sostenuto che il Palazzo dei Congressi ha una capienza spazial-volumetrica che non può accogliere più di 50mila visitatori, e che la Fiera è già in “overdose”.
E perché allora non cercare una nuova più ampia allocazione?! Perché accontentarsi del discreto successo raggiunto???
Queste domande stimolano una riflessione più ampia sulle tante, e spesso belle e valide, iniziative di “promozione” dell’offerta culturale italiana, che si limitano a raggiungere onorevoli quanto modesti risultati.
L’obiezione vale per la Fiera della Piccola e Media Editoria così come per la Festa del Cinema di Roma (sulla quale abbiamo già scritto con tratto agrodolce su queste stesse colonne: vedi Key4biz del 16 ottobre 2015: “Festa del Cinema di Roma: esordio in tono minore, tra deficit di risorse e spending review”), così come il Fiction Fest (iniziato ieri, sempre a Roma).
La Festa del Cinema di Roma beneficia di un budget di 4 milioni di euro, il Fiction Fest è ormai ridotto al fantasma di se stesso, ma assorbe pur sempre 1,2 milioni di euro di risorse pubbliche.
Queste iniziative servono realmente al mercato ed all’industria ovvero al “sistema”?!
La domanda sembra non se la voglia porre nessuno seriamente, e queste kermesse sopravvivono a se stesse quasi per inerzia, senza che nessuno si ponga la questione se non sarebbe opportuno allocare meglio questi danari pubblici, in una prospettiva realmente “di sistema”, e magari anche dopo aver studiato le caratteristiche critiche dei mercati di riferimento…
La stessa obiezione è valida per la promozione nazionale ed internazionale del cinema, o della musica, o del teatro, ovvero – più in generale – del “made in Italy” immateriale. Tante piccole iniziative “locali” (anche se finanziate a suon di milioni di euro di danari pubblici, restano piccole) non raccordate tra loro, anzi in perenne rischio di cannibalizzazione: basti pensare all’assurdità di aver creato, anni fa, una kermesse come la Festa del Cinema romana, che comunque ha inevitabilmente finito per entrare in competizione (presto perdendola), con il Festival di Venezia.
L’iniziativa romana è promossa dalla confindustriale Associazione Italiana Editori (Aie), ed è sostenuta dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo ma in versione non “una” bensì “trina”, ovvero Mibact e l’evanescente Centro per il Libro e la Lettura – Cepell (dotato di risorse così risibili da non poter essere che un contenitore vuoto) e finanche Arcus spa (acronimo che sta per “Arte Cultura Spettacolo”), una delle scatole magiche e misteriose del dicastero per la cultura (insieme ad Ales spa, acronimo che sta per “Arte Lavoro e Servizi”).
A quanto ammonta la sovvenzione ministeriale triadica?! Non è dato sapere.
Così come l’Assessore alla Cultura e Politiche Giovanili della Regione Lazio, Lidia Ravera (rispetto alla quale qualcuno obietta ironicamente un qual certo… conflitto d’interesse, essendo anche romanziera di successo), ha esaltato – con il suo solito bel fare affabulatorio – la preziosità della kermesse romana, ma s’è ben guardata dall’informare la collettività sull’ammontare del sostegno pubblico. Ah, poi, c’è anche la collaborazione del Comune di Roma, attraverso le Biblioteche di Roma, e finanche dell’Ice anzi l’Ita – Italian Trade Agency (e qui potremmo proporre un dibattito sui disastri della promozione internazionale del nostro “made in Italy”, materiale o immateriale che sia).
Il programma è ricco, anzi ricchissimo, ma emerge – anche rispetto a questa offerta plurale e policentrica – una sovrabbondanza di appuntamenti, ed il rischio di spaesamento del visitatore, in una sorta di grandissimo luna-park/supermarket del libro: ci domandiamo se non potrebbe essere opportuno ridurre il cartellone delle attrazioni mirabolanti, e renderlo più concentrato su tematiche sensibili, proponendo – di anno in anno – un argomento centrale e trainante…
Abbiamo ritenuto di ascoltare tutti i relatori invitati alla presentazione della kermesse, ed è stata occasione utile a comprendere il senso (relativo) dell’iniziativa ed i suoi (significativi) deficit.
Fabio Del Giudice è anche Segretario Generale dell’Aie (presieduta da Federico Motta) nonché Direttore della debole Confindustria Cultura (presieduta da Marco Polillo, Past President dell’Aie stessa, succeduto a Paolo Ferrari, già Presidente Anica), sovrastruttura di rappresentanza imprenditoriale che da tempo appare sonnolenta sullo scenario delle politiche culturali nazionali, a fronte della vivace Confindustria Radio Televisioni, che proprio oggi ha presentato a Roma – in contemporanea, “ça va sans dire” – il suo secondo “Quaderno” dedicato al medium radiofonico.
La domanda è: cosa cerca di fare, concretamente e strategicamente, l’Aie nello specifico e Confindustria Cultura più in generale, per una promozione reale e di lungo periodo delle varie industrie culturali italiane?! Quel che cerca di fare è poca cosa (basti osservare che l’ultimo comunicato stampa che Confindustria Cultura ha diramato, come appare in bella mostra nell’homepage, risale al luglio 2015), rispetto alle criticità del sistema e dei suoi settori.
A fronte di alcune nostre perplessità, qualche anno fa, il gentilissimo Direttore di Confindustria Cultura, Del Giudice, ci rispose: “ma… caro Zaccone, ma lei sa qual è il budget di Confindustria Culturale?! Non arriva a 100mila euro, e dobbiamo pure faticare per farci pagare le quote dalle associazioni che aderiscono!”.
Si dirà: beh… son piccole associazioni di imprenditori coraggiosi ed indipendenti. E qui casca l’asino: gli associati a Confindustria Cultura sono ben 11, e – in ognuna – ci son tutti i grandi “player” (“major” multinazionali incluse):
- settore editoriale e stampa: AIE (editoria libraria e digitale), ANES (editoria periodica tecnica e specializzata su supporto cartaceo e multimediale);
- musica: AFI (fonografici), FIMI e PMI (discografici), FEM (editoria musicale);
- produzione televisiva: APT (fiction, intrattenimento leggero, cartoni animati e documentari);
- cinema e spettacolo: AGIS (spettacolo dal vivo e sale cinematografiche), ANICA (produzione, distribuzione e servizi tecnici per cinema e audiovisivo) e UNIVIDEO (home-entertainment);
- videogiochi: AESVI…
L’associazione di secondo livello si vanta di riunire oltre 17mila imprese del settore, che darebbero lavoro complessivamente a circa 300mila persone, per un valore aggiunto pari a circa 16 miliardi di euro (nota bene: come sempre, stime nasometriche). Perbacco, numeri grossi: e tutte queste associazioni ritengono che quello che dovrebbe essere il proprio maggiore megafono comunicazionale e strumento di lobbying possa sopravvivere con 100.000 centomila euro l’anno?! Da non crederci.
Ci si lamenta spesso – anche su queste colonne – della debolezza dell’intervento pubblico nel settore culturale, della frammentazione di azioni e del conseguente rischio di dispersione. Ma anche sul fronte del “privato”, non si registrano strategie lungimiranti e risorse adeguate. Se sono gli stessi imprenditori privati a non credere in una promozione strategica delle proprie industrie, a non rischiare ed a non investire, che cosa ci si può attendere dallo Stato?!
Si pone poi un problema altro: queste associazioni sono rappresentative spesso più degli interessi dei “grandi” piuttosto che dei “piccoli” imprenditori culturali, e la dialettica interna non viene sempre composta al meglio.
Quanti sono i produttori indipendenti piccoli aderenti all’Anica?! Non tantissimi, se è vero che qualche anno fa è sorta anche una Associazione Giovani Produttori Cinematografici Indipendenti-Agcpi (che ha poi deciso di avvicinarsi più all’Agis piuttosto che all’Anica).
Nel sistema editoriale italiano, convivono due anime: i “grandi” ed i “piccoli”.
Antonio Monaco, Presidente del Gruppo Piccoli Editori Aie, ha utilizzato questa mattina una metafora: nel bosco dell’editoria italiana, esistono cinque o sei grandi alberi (le querce storiche?!), poi alcune centinaia di cespugli, e migliaia di fili d’erba: “Noi vorremmo che i fili d’erba crescessero e si rafforzassero”.
Anche durante la presentazione della kermesse romana, è stato naturalmente evocato il fantasma di “Mondazzoli”, infelice crasi tra Mondadori e Rizzoli (che si son fuse nell’ottobre 2015): le opinioni su questa operazione di concentrazione industriale sono controverse, c’è chi sostiene che non può che far bene per il “sistema Paese” e c’è chi invece teme una contrazione dei livelli di pluralismo espressivo (la Fiera romana presenterà alcuni interessanti dibattiti, anche su questo delicato argomento).
“Più libri, più liberi” si pone come vetrina dell’editoria indipendente. I grandi editori sono esclusi dalla Fiera.
Quello dell’editoria indipendente è un settore in grave crisi, sebbene continui a rappresentare 1 libro su 2 dell’intera produzione nazionale: se nel 2011, il “valore delle attività caratteristiche iscritte a bilancio” degli indipendenti era di 371 milioni di euro, nel 2014 il dato è stato di 287 milioni di euro, con un impressionante decremento del 23% (anche se il dato 2014 mostra un piccolo miglioramento rispetto al 2013): verrebbe da annotare, con cattiveria, che a poco sembra concretamente servire una bella Fiera come “Più libri, più liberi”, se questi sono i deprimenti risultati di mercato.
E qui centriamo la questione: bastano iniziative come “Più lib(e)ri” a risolvere le criticità acute del sistema editoriale nazionale, le vendite stagnanti se non in calo, le librerie indipendenti che chiudono?
La risposta è no.
Esiste senza dubbio un problema di mancanza e debolezza di visibilità dell’enorme produzione editoriale degli indipendenti: si tratta di 4.504 imprese nel 2014, che danno lavoro a 7.206 persone (inclusi i proprietari delle aziende), che però incidono soltanto per un 10% di quota di mercato sul valore complessivo (stima Ufficio Studi Anie, sul “mercato” a valore del libro nuovo, usato, digitale e non book).
Riteniamo che gli sforzi dell’Aie dovrebbero concentrarsi sulla ideazione e promozione di campagne nazionali di comunicazione, dotate delle risorse adeguate (magari chiedendo alla mano pubblica di non disperdersi nei tanti piccoli interventi, nazionali, regionali, locali), e soprattutto nella ricerca di sinergia con la Rai.
La promozione del libro e della lettura è brutalmente trascurata da Rai, e non è stata certamente una rondine come il controverso format di Rai3 “Masterpiece” (la prima edizione del “talent show per scrittori” s’è conclusa nel maggio 2014, e, anche a causa dei non confortanti risultati di audience, non è stata avviata una seconda stagione) ad aver avviato la primavera possibile.
Ed a Rai, domandiamo peraltro: con la gran quantità di talenti creativi interni di viale Mazzini (collaboratori inclusi), era proprio necessario ricorrere ad una multinazionale come Fremantle ed accordarle una cifra ben significativa a puntata, per ideare un bel programma efficace di promozione del libro e della lettura?!
La Direttrice Generale per le Biblioteche, gli Istituti Culturali e il Diritto d’Autore del Mibact, Rossana Rummo, è stata l’unica a lamentare, in occasione della presentazione della kermesse romana, l’assenza di una politica “di sistema” dell’industria dell’editoria italiana: ha ragione, certamente, ma le domandiamo se non dovrebbe essere proprio il Ministro Dario Franceschini a farsi promotore di un “tavolo” di raccordo tra le varie anime del settore, al fine di stimolare le sinergie possibili e soprattutto di provocare un’azione promozionale pervasiva, intensa, continuativa, a partire dall’indispensabile coinvolgimento attivo della Rai Radiotelevisione Italiana spa?
Rummo ha enfatizzato la propria soddisfazione perché Franceschini ha deciso triplicare le risorse destinate alla sua direzione, con particolare attenzione alle biblioteche. Bene, bravo.
Ma perché non mettere sul tavolo anche una manciata di milioni di euro (che è il budget minimo indispensabile) per una campagna nazionale di promozione della lettura e del libro degna di questo nome, e per proporre a Rai una co-produzione di trasmissioni televisive all’altezza della sfida?!
Altrimenti, anno dopo anno, dovremo rassegnarci ad assistere al continuo aumento dei “non lettori” sul totale della popolazione nazionale, al ridimensionamento del mercato editoriale nel suo complesso, ed alla perdurante crisi degli editori indipendenti, alle librerie (e teatri e cinema) che chiudono desertificando culturalmente città e paesi.
Insomma, questa mattina al Tempio di Adriano abbiamo osservato troppi sorrisi e poca autocoscienza: ancora una volta – come in altri settori dell’industria culturale – s’ode il simpatico motivetto di Nunzio Filogamo “tutto va bene, madama la marchesa”.