La notizia non ha prodotto una ricaduta stampa e mediale minimamente significativa, e da ciò i grillini avranno tratto comoda conferma della loro discriminazione “ad escludendum” da parte dei “poteri forti” (ovvero dalla diabolica congiura della “conservazione”?!), ma è veramente curioso che un’iniziativa come “Open Tg” – valida o anche soltanto provocatoria che sia – promossa dal Presidente della Commissione di Vigilanza Roberto Fico non abbia suscitato l’interesse che merita.
#ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.
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In sintesi, ci voleva il presidente di una commissione parlamentare bicamerale per rendere “leggibili” (quindi fruibili, ovvero in qualche modo utilizzabili ed utili) le elaborazioni che, da anni, produce l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, spendendo bei danari del contribuente?! Agcom spende infatti oltre 1 milione di euro l’anno, per monitorare il pluralismo radiotelevisivo, ma verosimilmente le centinaia di pagine di elaborazioni non vengono lette – ahinoi – da nessuno, o quasi.
In un Paese normale, ciò sarebbe ritenuto inconcepibile, ma l’Italia non è un Paese normale, e quindi quel che altrove sarebbe incredibile da noi finisce per essere talvolta maledettamente reale.
Fico è stato ignorato dai media, ma l’iniziativa del deputato grillino è commendevole, perché cerca di gettare un sasso nello stagno, anche se va ricordato che pure Renato Brunetta, con la sua FreeFoundation ed il sito web “Raiwatch.it” dal settembre 2013, aveva cercato di utilizzare in modo leggibile le elaborazioni Agcom, così come quelle dell’Osservatorio di Pavia, e non soltanto per le polemiche rispetto alla “partigianeria” del Tg3.
Di fatto, il Presidente della Vigilanza rilancia un quesito storico: il sistema televisivo italiano propone una rappresentazione corretta della realtà, in termini di pluralismo informativo e quindi politico?!
La questione è di estrema complessità e di dimensioni enormi, perché non esiste – nella letteratura scientifica e nella prassi corrente, anche a livello internazionale – una metodologia unica ed univoca, consolidata ed incontrovertibile. Qualsiasi “misurazione” del pluralismo è inevitabilmente suscettibile di critiche metodologiche. Ciò non significa che non ci si debba adoprare in tal senso.
Si ricordi che la Commissione Europea sostiene da alcuni anni un progetto di monitoraggio, finanziando una struttura ad hoc, il “Centre for Media Pluralism and Media Freedom” (Cmpf), promosso dall’Istituto Universitario Europeo (Iue) di Firenze, diretto dal professor Pier Luigi Parcu, iniziativa che si pone come avanguardia scientifica rispetto alle possibili metodologie.
Secondo l’Unione Europea, il pluralismo dei media richiede che vi siano trasparenza, libertà e diversità nel panorama dei mezzi di comunicazione. Più precisamente, nel 2012 l’Unione ha istituito il “Centro per il Pluralismo e la Libertà dei Media”, presso il Centro di Studi Avanzati “Robert Schuman”, iniziativa di ricerca nell’ambito del fiorentino Iue, cofinanziata dall’Unione. Le elaborazioni sono in-progress, e non si è ancora giunti ad un “modello” consolidato. Basti osservare che, da un iniziale set di 166 indicatori, il progetto del Cmpf è sceso a 34 indicatori (20 legali, 6 economici, 8 socio-politici). Attendiamo di leggere i risultati di queste ricerche, con particolare attenzione all’Italia.
In Italia, la tematica del “pluralismo” appare infatti particolarmente delicata, sia per il perdurante livello di concentrazione editoriale (il triopolio Rai–Mediaset–Sky), sia perché organismi sovranazionali (che si ha ragione di ritenere indipendenti) continuano ad osservare il mercato italiano con estrema preoccupazione. Secondo l’ultima edizione (2013) della ricerca comparativa di “Reporter Senza Frontiere”, l’Italia sarebbe alla posizione n° 57 nella classifica mondiale sulla libertà di stampa…
Gli studi sul pluralismo, in Italia, peraltro, non brillano né per quantità né per qualità, e non si sono concretizzati tentativi di costruire strutture che possano svolgere il ruolo di “watchdog” (di cui pure esistono casi di eccellenza all’estero). E forse una ragione c’è: meglio non mettere a disposizione occhiali che consentano di vedere che “il principe è nudo” (si perdoni, una volta ancora, la citazione… autoreferenziale, dato il titolo di questa rubrica!).
Riportiamo quel che è stato annunciato sul sito www.beppegrillo.it, fonte primaria del verbo del Movimento 5 Stelle, in relazione alla presentazione dell’iniziativa, avvenuta nella sala stampa della Camera dei Deputati lunedì 19 gennaio 2015 (Roberto Fico era affiancato dal collega Andrea Cecconi e dal senatore Andrea Cioffi): “Nasce Open Tg (www.opentg.it), uno strumento a disposizione dei cittadini per poter agevolmente consultare i dati relativi alla presenza di forze politiche e istituzioni in tv. Curato da Roberto Fico, deputato del Movimento 5 Stelle, Open Tg offrirà a tutti i cittadini la possibilità di verificare, con grafici e dati, lo stato del pluralismo dell’informazione nel Paese. È dotato di un ampio archivio e della possibilità di selezionare in base a parametri quali testate giornalistiche, canali, forze politiche e tempi di notizia e parola. Open Tg è il primo esperimento del genere in Italia. Il pluralismo è un elemento essenziale, alla base stessa della sopravvivenza di uno Stato democratico. Per questo motivo va tutelato e monitorato, da tutti”. Fin qui, la sintetica presentazione.
Cerchiamo di comprendere meglio: Roberto Fico, avvalendosi di tre suoi collaboratori (Laura De Vita, Claudio Tancredi Palma, Fiorella Taddeo), e sostenendo un costo modestissimo (soltanto “1.500 euro”, ha precisato), ha costruito un sito web che consente di visualizzare graficamente una parte dell’enorme messe di dati che Agcom produce, e, a sua volta, mette a disposizione sul proprio sito web.
Riteniamo opportuno precisare che l’iniziativa è di Fico “nella veste di” parlamentare grillino, e non di Presidente della Commissione Parlamentare per l’Indirizzo Generale e la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi (meglio nota come “Commissione di Vigilanza Rai”). Si prospetta comunque un latente… “conflitto d’interessi”? Immaginiamo infatti che i dati di “Open Tg” vengano presto utilizzati in Commissione stessa.
Il problema di fondo è che le copiose tabelle dell’Autorità scoraggiano anche il più intrepido dei cittadini e dei giornalisti (curioso di capire se c’è “pluralismo” o meno), mentre Open Tg cerca semplicemente (e finanche banalmente) di mettere in atto quel che la stessa Agcom avrebbe potuto (dovuto) fare: rendere i dati leggibili, e quindi fruibili, magari utilizzando al meglio quel che l’infografica facilmente ormai consente.
Il caso “Open Tg” è particolarmente interessante, anche perché interviene in una patologia diffusa, tipica delle istituzioni e pubbliche amministrazioni italiche, correlata al dibattito sugli “open data”, di cui abbiamo scritto anche su queste colonne (“Roma Ladrona: il mondo di mezzo e l’opacità degli open data”, 12 dicembre 2014): i rappresentanti istituzionali e gli amministratori pubblici spesso, in Italia, si liberano la coscienza “mettendo a disposizione” i dati (ah, la potenza liberatoria del web!), ma senza dotare il fruitore (il cittadino curioso) della strumentazione minima (software di visualizzazione e di ricerca “user-friendly”) per orientarsi nel “mare magnum” delle informazioni. Ciò vale sia per gli atti amministrativi (appalti inclusi…), sia per le statistiche (di ogni genere).
Quindi, sulla carta (ovvero finanche su web), si risponde alla diffusa esigenza di “trasparenza”, ma, di fatto, si ostacola – e quasi si impedisce – una chance autentica di accesso ai dati, e quindi la loro lettura critica.
Potremmo definire il fenomeno come “l’ipocrisia degli open data”, e ci auguriamo che l’Agenzia per l’Italia Digitale voglia prima o poi promuovere un pubblico dibattito sulla questione, che riteniamo essenziale: non soltanto per l’evoluzione della società “digitale”, ma per l’essenza stessa della democrazia. Attendiamo feedback dall’Agid.
Non è questa la sede per elaborare giudizi su quanto l’informazione televisiva, durante e fuori del periodo elettorale, sia politicamente equilibrata, o squilibrata. E non è questa la sede per affrontare la questione della perdurante rispondenza attuale o meno della legge sulla “par condicio” (legge n. 28 del 22 febbraio 2000) come strumento di controllo (e quindi stimolazione) del pluralismo informativo.
E non è questa la sede, ancora, per ragionare sul senso e sull’efficacia di categorie convenzionali come “tempo di parola” (indica il tempo in cui il soggetto politico/istituzionale parla direttamente in voce), “tempo di notizia” (tempo dedicato dal giornalista all’illustrazione di un argomento/evento in relazione ad un soggetto politico/istituzionale) e “tempo di antenna” (tempo complessivamente dedicato al soggetto politico-istituzionale, dato dalla somma del “tempo di notizia” e “del tempo di parola” del soggetto).
Le metodiche ancora oggi utilizzate richiedono sicuramente un “upgrade” semantico-statistico, e forse si deve volgere lo sguardo anche oltre lo schermo televisivo. Soprattutto allorquando sta acquisendo un ruolo crescente il web, come fonte di informazione della cittadinanza. D’altronde, il sistema è regolato da una legge che risale ormai a 15 anni fa! Si ricordi che la legge sulla “par condicio” è da molti anni oggetto da anni di aspra opposizione soprattutto da parte di Silvio Berlusconi, che critica come durante la campagna elettorale gli spazi in televisione siano ripartiti in parti uguali tra tutti i movimenti che si presentano alle votazioni, non tenendo conto della rispettiva rappresentatività politica.
Il “monitoraggio delle trasmissioni radiotelevisive” è uno dei compiti attribuiti dalla legge all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (legge n. 249 del 31 luglio 1997, all’articolo 1, comma 6, lettera b, n. 13), ma riteniamo che l’esperienza fin qui maturata non sia soddisfacente. La vicenda è comunque complessa ed aggrovigliata, e merita un approfondimento, che pure ci risulta essere inedito.
I meno giovani ricorderanno che il monitoraggio del pluralismo è questione di cui il Partito Radicale si è fatto alfiere da decenni. I grillini sembrano aver assunto in qualche modo l’eredità di quelle lodevoli battaglie pannelliane.
Pochi ricordano, peraltro, tra le contraddizioni interne del Partito Radicale ovvero tra i tanti paradossi della nostra Italia, proprio questo monitoraggio sul pluralismo. Riportiamo quel che scrivevamo nel maggio del 2006 sul mensile “Millecanali”: “Anche qui, siamo nel surreale italiano! Il monitoraggio del pluralismo politico in tv è stato affidato dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni all’Istituto per l’Innovazione nei Mass Media (Isimm), ovvero il “laboratorio consociativo” promosso da anni da Enrico Manca, ex Ministro della Repubblica ed ex Presidente della Rai. Sia ben chiaro, Isimm è un centro di organizzazione di convegni assolutamente valido, anche perché riesce a riunire ottimi cervelli. Talvolta, produce anche ricerche di buon livello, anche se la sua “mission” è anzitutto relazionale. Senza alcun dubbio, Isimm non ha mai potuto vantare esperienza tecnica nel monitoraggio, che è attività complessa e delicata, nella quale servono strutture “hardware” complesse, ma soprattutto esperienza di analisi critica “semantica”. Isimm ha vinto una gara, ma la gara è stata oggetto di critiche e ricorsi da parte del Centro di Ascolto Radiotelevisivo, struttura che da decenni svolge quest’attività. Il Centro di Ascolto è controllato indirettamente dal Partito Radicale, e qualcuno potrebbe obiettare che è curioso che una rilevazione delicata come quella del monitoraggio politico venga affidato ad una struttura legata ad una parte politica. Ma il Segretario dei Radicali Daniele Capezzone spara a zero su Manca, accusando Isimm di avere tra i propri associati anche quelle Rai e Mediaset che dovrebbero essere controllate. Manca replica a Capezzone che il Centro di Ascolto è emanazione di un partito. Premesso che riteniamo che l’attività storica del Centro di Ascolto sia nel complesso metodologicamente valida, e che peraltro il Partito Radicale sia senza dubbio una delle parti politiche che storicamente soffre di censure nella Tv italica, ci rendiamo conto… a che livelli di paradosso siamo? Scherzando, potremmo sostenere che si tratta di un tipico caso di… bue che dice cornuto all’asino! E quali saranno stati i criteri (quelli reali, intendiamo, non certo solo il prezzo offerto dai due “competitor”) che hanno determinato la scelta dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni?”.
A proposito di contraddizioni e paradossi italici, in un intervento in Commissione Vigilanza, il 16 ottobre 2013, Augusto Minzolini sosteneva: “Vorrei capire per quale motivo l’Agcom continua a utilizzare una società di rilevamento diversa dall’Osservatorio di Pavia. Prima c’era l’Isimm dell’ex Presidente della Rai Manca (cosa peraltro abbastanza paradossale), oggi c’è la Geca. Tuttavia, perché non si crea un punto di riferimento chiaro ? Se devo coniugare il dato di Pavia con quello della Geca, c’è un salto logico. Soprattutto, non capisco perché questa cosa debba avvenire, e non si possa semplificare il tutto”.
È trascorso quasi un decennio dalle polemiche tra Capezzone (che ha peraltro cambiato casacca, passando dai Radicali a Forza Italia) ed il compianto Manca (che ci ha lasciato nel luglio 2011).
La storia del rapporto tra Centro d’Ascolto dei radicali (formalmente si tratta di Torre Argentina – Società di Servizio spa Centro d’Ascolto dell’Informazione Radiotelevisiva) ed Agcom ha radici lontane nel tempo: il Garante per la Radiodiffusione e l’Editoria, figura monocratica creata dalla legge Mammì nel 1993, aveva il compito – tra gli altri – di assicurare il rispetto della “par condicio” durante le campagne elettorali. E per effettuare il monitoraggio sulle campagne elettorali, il Garante si affidò al Centro d’Ascolto. Il rapporto fiduciario prosegue anche quando, nel 1998, il Garante viene sostituito dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom).
La situazione s’è poi così evoluta: dal 2005 al 2011, il monitoraggio è stato affidato all’Isimm Ricerche (Valeria Ferro, per anni direttrice del Centro d’Ascolto radicale, è poi divenuta Responsabile dei Monitoraggi Radio-Televisivi di Isimm Ricerche, ed ha quindi garantito una qual certa continuità metodologica nel passaggio di consegne); dal 2011, è subentrata Geca Italia, che ha quindi sostituito Isimm nei compiti di monitoraggio socio-politico per conto dell’Autorità.
Geca Italia srl è stata fondata nel marzo del 2001 ed è stata controllata dalla Publiglobo srl del Gruppo Bixio (dapprima con una quota del 67% e poi del 51%). Per molti anni, è stata presieduta da Carlo Andrea Bixio (che è stato anche Presidente della confindustriale Apt – Associazione dei Produttori Televisivi), deceduto nel febbraio 2011. Successivamente, il controllo di Geca Italia passa in mano a Marco Bassetti. Marco Bassetti, già alla guida di Endemol Italia fino all’aprile 2012, ha fondato nel novembre 2012 la Ambra Multimedia. All’inizio del 2013, Bassetti è passato alla multinazionale francese dei format tv Banijay, nella veste di Ceo. La Banijay, creata nel gennaio del 2008, ha come azionista di riferimento Lov Group, holding della famiglia di Stéphane Courbit (anche lui fuoriuscito da Endemol), ed annovera tra i soci anche la famiglia Agnelli, i De Agostini e Bernard Arnault (Lvmh – Louis Vuitton). Banijay controlla il 50 % di Ambra Multimedia. È Amministratore Unico di Geca Italia srl Michele Befacchia, che ha partecipato alla start-up Banijay. Si ricordi che Bassetti, secondo alcuni, potrebbe essere un candidato renziano alla guida della Rai che verrà tra qualche mese.
Scriveva “l’Espresso” nell’edizione n. 4 del 31 gennaio 2013: “C’è un conflitto di interessi “sconosciuto” dietro le rilevazioni delle presenze dei politici in tv. È quello del manager televisivo Marco Bassetti, marito di Stefania Craxi, che con la sua Geca Italia effettua per conto dell’Agcom il monitoraggio delle trasmissioni delle emittenti nazionali. Non proprio il massimo della terzietà, considerato che la società svolge già monitoraggi per viale Mazzini, e che fino allo scorso aprile Bassetti era presidente della Endemol, produttrice di fiction, talk show e format per Rai e Mediaset. La Geca ha ottenuto l’affidamento a novembre 2011 (secondo quanto si mormora, grazie anche all’intervento di Gianni Letta sul presidente dell’Authority Corrado Calabrò) soffiandolo alla Isimm ricerche, l’istituto fondato da Enrico Manca, che lo gestiva dal 2005”.
Secondo alcuni, Geca Italia sta vivendo una fase travagliata, con un forte avvicendamento nello staff dei collaboratori, nonostante la sicurezza reddituale certamente derivante dal ricco contratto triennale di cui all’incarico affidatole dall’Agcom. In effetti, nel febbraio 2013, l’Agcom ha approvato una delibera indicendo una “gara a procedura aperta in ambito comunitario” avente per oggetto “appalto pubblico del servizio di monitoraggio delle trasmissioni televisive delle emittenti nazionali riferito alle aree del pluralismo socio/politico, delle garanzie delle utenze e degli obblighi di programmazione”. Ammontare dell’appalto 2.446.000 euro al netto di Iva, ovvero poco meno di 3 milioni di euro Iva inclusa: il che si traduce, per un monitoraggio di 3 anni, in 1 milioncino di euro l’anno. Un business di dimensioni interessanti anche per imprese del calibro di The Nielsen Company Italia o Gfk Eurisko…
Nel novembre 2013, Agcom dispone l’aggiudicazione provvisoria a Geca Italia srl, che ha proposto un ribasso, rispetto al prezzo di base d’asta, di circa il 5%, ovvero 2,3 milioni di euro (sempre al netto Iva). Secondo classificato risultava il raggruppamento temporaneo di impresa tra Isimm Ricerche e Censis, che ha poi presentato ricorso al Tar del Lazio. Nel febbraio 2014, Agcom decideva l’aggiudicazione definitiva. È quindi Geca Italia a curare il delicatissimo monitoraggio, su incarico dell’Autorità. Di Geca Italia, si avvalgono peraltro anche la Rai o l’Apt.
Sul sito web della società, si legge che “Geca Italia è un laboratorio di indagine sulla comunicazione audiovisiva unico nel suo genere, che si propone di analizzare i contenuti della comunicazione televisiva e di interpretare l’evoluzione di uno scenario sempre più cross-mediale e multipiattaforma”.
Non staremo qui a manifestar dubbi sulla qualità delle elaborazioni di Geca, anche perché abbiamo certezza che Agcom pretenda metodologie accuratissime. Quel che emerge evidente che Agcom non richiede a Geca la produzione di una reportistica di agevole fruibilità, dotata di chiara grafica. E quindi ben venga l’iniziativa di Fico, pur incredibile – ribadiamo – in un Paese normale.
Con 1.500 euro Fico ed il suo alacre staff riesce a “rappresentare” quel che Geca non riesce a fare con 1 milione di euro l’anno?!
Si legge in un saggio di Marco Binotto, “Elettorato attivo. Media, strategie e risultati delle campagne della società civile organizzata per le Politiche 2013”, pubblicato nell’edizione n. 3/2014 di “Mediascapes Journal”, in relazione alle elaborazioni Geca sui “tempi di parola” dei principali telegiornali nazionali: “La rilevazione, realizzata dal marzo 2012 dalla società Geca, è compiuta sia sull’intera programmazione informativa che su tutti i Tg nazionali. Purtroppo i dati sono presentati, contrariamente alle indicazioni nazionali e internazionali sugli open data, in forma chiusa (con formato pdf) e dalla ardua elaborazione, riaggregazione e disaggregazione”. Vedi supra, e ciò basti!
Pochi lo sanno, ma Agcom “vigila” peraltro (…) non soltanto sulla tv, ma anche sulla radio. Ricordiamo anche che nel 2013 Agcom ha aggiudicato al costituendo rti tra la mandataria Izi spa e l’associata Euregio srl altri bei danari: 708.750 euro per il triennale “servizio di monitoraggio delle trasmissioni radiofoniche delle emittenti nazionali riferito alle aree del pluralismo socio-politico, delle garanzie delle utenze e degli obblighi di programmazione”.
Alla gara hanno partecipato anche i “soliti”: Isimm Ricerche insieme a Censis, Torre Argentina spa, Geca Italia srl… Ha però vinto Izi spa. Si ricordi che Izi spa è una società di ricerca di cui Agcom si fida assai, se è vero che gli affida, dal 2008 (e fino al 2016), anche il controllo qualitativo dei servizi erogati da Poste Italiane (ovvero il monitoraggio dei tempi di recapito…), al costo di 1.252.318 milioni di euro, al netto Iva, per l’ultimo triennio. Izi srl è stata fondata da Carlo Fuortes, che ne è Presidente ed azionista al 35% (lo stesso Fuortes che è da anni alla guida della Fondazione Musica per Roma).
Da ricordare naturalmente, in questo contesto, l’attività ormai ventennale di un egregio “competitor” del Centro di Ascolto radicale ovvero dell’Isimm e quindi di Geca Italia: l’Osservatorio di Pavia Media Research, ovvero la Cares scrl (Cooperativa di Analisi e Rilevazioni Economiche e Sociali), istituto di ricerca e di analisi della comunicazione, fondato nel 1994 in ambito universitario, che per qualche anno ha fornito dati utilizzati dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza…
Sarebbe molto interessante un pubblico confronto tra le metodologie dei vari istituti, ed in particolare tra Geca Italia ed Osservatorio di Pavia, magari coinvolgendo qualche mediologo d’eccellenza, anche straniero, e comprendendo al meglio cosa viene realizzato all’estero, in materia di monitoraggio del pluralismo informativo e politico, tra tv e web. Seminario la cui presidenza potrebbe essere affidata giustappunto a Roberto Fico, che si rivela non soltanto attento utilizzatore finale dei dati Agcom, ma elaboratore critico degli stessi e quindi ricercatore appassionato (d’altronde, può vantare anche una laurea in scienze delle comunicazioni).