Da molti anni, ormai, il nostro Paese sembra vivere, per alcuni aspetti, alla… rovescia. Ciò che è stato ritenuto per decenni e talvolta secoli “normale” finisce per divenire “anormale”, e viceversa, in una confusione semantico-valoriale che riduce pericolosamente il confine tra “fisiologico” e “patologico”.
Qualche anno fa, Luciana Castellina evocava il profondo sradicamento dei “valori” (storicamente intesi) provocato da quella pseudo-modernizzazione di cui il berlusconismo è semplicemente uno degli epifenomeni italiani: il set valoriale – nei rapporti personali tra individui e nelle relazioni sociali e politiche – è stato progressivamente destrutturato e sostituito da un relativismo esasperato.
#ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.
Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.
Questo fenomeno è senza dubbio frutto del “pensiero debole” che caratterizza la fase più evoluta del capitalismo contemporaneo. Indebolitesi, appunto, le tradizionali agenzie di socializzazione (la chiesa, la scuola, i partiti, i sindacati, finanche la famiglia…), lo stesso concetto di “Stato”, e quindi di “legge”, vacilla. Quale “certezza del diritto”, poi, nella babele dei Tribunali Amministrativi Regionali e dei Consigli di Stato, ed a fronte della esasperante lentezza del sistema della giustizia italica?!
La dinamica complessiva è determinata soprattutto dalla modernizzazione provocata pervasivamente dal sistema mediale e dalla società dello spettacolo, ovvero dalla costruzione di un immaginario iperconsumista, nel quale ogni oggetto ed ogni valore finisce per essere mercificato e mercificabile, polverizzato nel caos del supermarket di merci materiali ed immateriali e quindi della reificazione infinita dell’esistenza.
Non sappiamo come avrebbero reagito Marcuse o Debord di fronte al “mondo nuovo” che internet sta costruendo, ma senza dubbio il web ha moltiplicato esponenzialmente le logiche intrinseche del capitalismo, pur senza disconoscere le potenzialità “rivoluzionarie” della rete, che è (anche) moltiplicatore di conoscenza, luogo agevole di accesso esteso al sapere, e quindi agente di socializzazione evoluta e di potenziali modificazioni dell’esistente.
La premessa fin qui proposta appare necessaria rispetto a ciò che sta accadendo in Italia intorno alla Rai, ovvero l’azienda indicata per decenni come “la maggiore industria culturale” del Paese. Riteniamo che Rai sia ancora la maggiore industria culturale del Paese, nonostante internet (90% degli italiani fruisce della televisione, a fronte di un 40% che non accede mai al web, come ha sostenuto l’Istat a fine dicembre 2014), ed è naturale e giusto (sarebbe naturale e giusto) che il “public broadcasting service” sia (fosse) al primo posto nella “agenda culturale” (e non soltanto) del Paese.
Il che non è.
Il problema è che in Italia non è mai esistita, se non durante il regime fascista, una autentica “politica culturale”: si è (mal) governato il sistema culturale ed il sistema mediale, con una continua serie di interventi parziali e frammentari, che hanno riguardato i singoli tasselli, senza mai pensare al puzzle, a quella che – come s’usa dire – è la logica “di sistema”.
L’intervento della mano pubblica, nell’editoria piuttosto che nella radiofonia, è sempre stato dettato da esigenze contingenti ed emergenziali: leggine piuttosto che leggi, leggi-ponte e leggi-tampone, in continua serie di decretazioni “d’urgenza” se non “d’emergenza”.
Non ci sono mai state vere e proprie “leggi di sistema”, in materia di cultura e media.
L’ultimo tentativo, in materia di spettacolo (cinema, teatro, musica…), risale al 1985 con la legge n. 163, che istituì il Fondo Unico per lo Spettacolo, frutto di un coraggioso (ma alla fin fine debole) tentativo di “programmazione” (culturale-economica) elaborato nell’ambito delle politiche riformiste della migliore stagione del centro-sinistra e del Partito Socialista (la cosiddetta “legge madre” istitutiva del Fus la si deve al socialista Lelio Lagorio). A distanza di trent’anni, è ancora il Fus a “governare” l’intervento dello Stato a sostegno delle attività di spettacolo. Le previste “leggi figlie” (sul teatro, sul cinema, sulla musica…) non hanno mai visto la luce.
E che dire della radiotelevisione?!
Le ragioni fondanti della “legge Gasparri” del 2004 sono peraltro note, ovvero la difesa dell’esistente, inclusa la strumentalizzazione delle potenzialità della televisione nella transizione al digitale, al fine di non scardinare l’assetto duopolistico-triopolistico del sistema, anzi per rinnovarlo nel nuovo habitat, rafforzando i più forti ed penalizzando i più deboli.
Vien un po’ da sorridere ricordando il titolo della legge n.112, che ha ormai dieci anni: “Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della Rai – Radiotelevisione italiana S.p.A., nonché delega al Governo per l’emanazione del Testo unico della radiotelevisione”… Sarebbe interessante promuovere un incontro di bilancio, critico ma sereno, del primo decennio di sistema mediale italiano “governato” dalla legge Gasparri. Crediamo che la fotografia in materia di limitazioni antitrust e di estensione del pluralismo non sia propriamente esaltante. Ma forse quella legge proprio questo voleva: non toccare l’esistente.
E così è stato.
In questo scenario, il caso de La7 è quasi un miracolo, ma verosimilmente destinato a non crescere oltre la soglia di share cui è arrivata. Scriveva qualche tempo fa (26 settembre 2014) Marco Mele sul suo blog “Media 2.0” nel sito de Il Sole 24 Ore: “Dicono che la Gasparri abbia aumentato la concorrenza: il digitale, ovviamente, moltiplica i canali rispetto all’analogico. Ma provate a scorrere l’intera lista dei canali del vostro televisore sino al 900 e oltre. Oggi non c’è un solo editore televisivo digitale italiano che non sia in crisi: solo un colosso statunitense come Discovery è riuscito ad imporre i suoi canali…”. Ha ragione Mele, ma resta quasi “vox clamans in deserto”.
E che dire della Rai?!
Basti osservare che, ancora recentemente, il Ministro di turno ed il Presidente o Dg Rai di turno si incontrano e “proclamano” l’esigenza di far interagire, di promuovere sinergie tra “cultura” e “televisione” (leggi Franceschini con Gubitosi, ma qualche tempo prima s’erano incontrati anche Bray e Gubitosi, eccetera). Le belle dichiarazioni di intenti lasciano il tempo che trovano, eppure arriva un nuovo ministro al Collegio Romano ed un nuovo presidente a Viale Mazzini, ed i grandiosi proclami ritualmente si rinnovano.
Nel mentre, la cultura è sempre più emarginata dai palinsesti della radiotelevisione pubblica italiana.
E che dire del “digitale”, cui abbiamo dedicato l’edizione del 19 dicembre 2014 di questa rubrica, criticando l’iniziativa “Alfabetizzazione Digitale: Manzi 2.0”, ripresa da un post su Facebook di Michele Ficara Manganelli ha rraccolto decine di commenti, provocando uno stimolante dibattito, sul quale “Key4biz” tornerà presto (clicca qui, per leggere il testo del dibattito).
La dimostrazione evidente di questo non governo, ovvero mal governo, è il “Contratto di servizio” Rai, lo strumento attraverso il quale il Governo ed il Parlamento, ogni tre anni (teoricamente…), definiscono in dettaglio (rectius: dovrebbero definire) gli obblighi della concessionaria di servizio pubblico.
Del Contratto, molto si è scritto e parlato nei mesi ed anni scorsi, ma una descrizione accurata dello stato attuale del suo burocratico iter è ardua impresa.
In sintesi: resta chiuso da 8 mesi nei cassetti ministeriali e in quelli della tv pubblica.
Formalmente, “alla firma”.
Sostanzialmente, rimosso.
Da non crederci, ma così è: rimosso completamente. Chiuso nei cassetti di chi dovrebbe apporre la propria firma sul contratto. Certo, questa inadempienza non è un reato penale. Ma rappresenta una scorrettezza morale e civile, un’offesa alla società civile. Ministero dello Sviluppo Economico e Rai spa gestiscono il “Contratto di servizio” come se fosse cosa loro.
Non è cosa loro, è cosa nostra (ovviamente non nel senso mafioso del termine!).
E qui torniamo alla premessa: in un Paese normale (quale l’Italia non è), questa gravissima situazione provocherebbe proteste politiche e finanche popolari.
Ma, ormai, il confine tra “normale” e “anormale” appare confuso, ed il “patologico” si confonde con il “fisiologico”.
Questa è la vicenda sulla quale vogliamo concentrare l’attenzione: Rai e Mise “si rifiutano di firmare il contratto di servizio”, ma nulla accade.
Non lo scriviamo noi, ma il presidente di un’istituzione preposta.
Il 15 dicembre 2014 il Presidente della Commissione di Vigilanza Rai Roberto Fico dichiarava: “come Commissione di Vigilanza chiediamo trasparenza in Rai da giugno 2013, e lo abbiamo anche inserito nel contratto di servizio, frutto di un lavoro coscienzioso e innovativo. Ma la Rai e il Ministero dell’Economia si rifiutano di firmarlo, non curandosi di fatto del lavoro del Parlamento”.
In un post del 23 novembre sul suo blog, Fico aveva scritto che “in Vigilanza Rai abbiamo fatto la nostra parte, inserendo nel nuovo contratto di servizio obblighi precisi per rendere più accessibili l’informazione e l’offerta televisiva e web”.
Ricordiamo che la Commissione Vigilanza ha in effetti espresso il suo parere sul contratto il 7 maggio 2014.
Dopo 8 mesi (otto) di inconcludente attesa, il Presidente della Commissione parlamentare bicamerale non ritiene che il comportamento di Governo e Rai – che “si rifiutano di firmarlo” (testuale) – meriti una qualche azione protestataria eclatante, forse anche nel miglior stile grillino-radicale?!
Perché non si incatena ai cancelli di viale Mazzini, Presidente Fico?
Oppure anche Fico pensa in fondo che tutto finirà… a tarallucci e vino, nella migliore tradizione italiana?!
A qualcuno sta certamente facendo comodo che Rai continui ad essere, da decenni, serva di due padroni: lo Stato (la partitocrazia) ed il mercato (distorto).
Fico, come se quel che aveva dichiarato poco prima fosse un dettaglio marginale, precisava subito dopo che la riforma della Rai sarebbe però… imminente: “Prima di Natale, chiuderemo tutte le audizioni, e dall’8 gennaio cominceremo la votazione dell’atto di indirizzo, il cui relatore è Pino Pisicchio (Gruppo Misto), in modo che Cda e Dg di Viale Mazzini possano avere al più presto il parere della Commissione e del Parlamento sulla riforma”.
Ah, beh… allora.
Ci scusi, Presidente Fico, ma se Governo e Rai presteranno al vostro “atto di indirizzo” la stessa attenzione e cura (e rispetto anche istituzionale) che hanno dimostrato nei confronti del “Contratto di servizio” (un’attenzione degna di un simpatico pernacchio à la Pulcinella), a che gioco state giocando?! Ad una reciproca simpatica presa in giro tra voi?!
Ricordiamo che il precedente “Contratto di servizio” – che avrebbe dovuto regolare il periodo che va dal 1° gennaio 2010 al 31 dicembre 2012 – prevedeva (all’articolo 36), che, entro il 1° luglio 2012, le parti (Rai e Ministero dello Sviluppo Economico) provvedessero ad avviare le trattative per la stipulazione del contratto relativo al triennio 2013-2015.
E siamo arrivati al gennaio 2015.
I due terzi del periodo temporale che il nuovo contratto di servizio avrebbe dovuto regolare, ovvero 2 anni su 3 (2013 e 2014) sono già andati… E nel mentre, Rai s’è… autocraticamente gestita i propri “obblighi”.
Tanto, notoriamente, l’Autorità per le Garanzie delle Comunicazioni è sempre molto alacre nel vigilare il massimo rispetto dei tanti obblighi che pure, sulla carta appunto, sono previsti dal “Contratto di servizio” (vigente?! scaduto?!), dal pluralismo politico agli investimenti in produzione audiovisiva originale…
Scrivevamo nel nostro intervento del 19 dicembre su “Key4biz”: “Questa mattina, s’è tenuta un’affollata kermesse in pompa magna nel Salone degli Arazzi della sede romana della Rai in viale Mazzini, nel debole tentativo del “public service broadcaster” italiano di recuperare in qualche modo… il tempo perduto, rispetto alla funzione di stimolatore dell’alfabetizzazione digitale del Paese. Funzione cui pure sarebbe tenuta dal “contratto di servizio”, ma – come è ormai noto a tutti – questo “contratto” è scritto sull’acqua, e si pone come carta d’intenti simpaticamente disattesa, nonostante gli sforzi del Presidente della Commissione di Vigilanza, il pugnace (ma inefficace) grillino Roberto Fico”.
Qualche giorno dopo, il Presidente della Vigilanza dichiarava a chiare lettere che Mise e Rai “si rifiutano di firmare”. Quindi quel il “frutto di un lavoro coscienzioso e innovativo” (di cui Fico orgogliosamente si vanta) si dimostra sterile, inutile, fallimentare. Teoria ed auspici, un esercizio accademico.
Questa è la nostra Italia.
Siamo tra coloro che ritengono queste dinamiche malate.
Ci si chiami pure, se si vuole, “gufi”, ma è evidente che il nuovo corso renziano, in materia di televisione e media, non ha finora mostrato nulla di innovativo.
Siamo fieri di restare nelle fila dei “mugugnatori”.
Però il Presidente del Consiglio, nella conferenza stampa di fine anno, ha annunciato che l’aprile del 2015 sarà “il mese dedicato alla riforma della Rai”, anzi il “mese della cultura e della Rai”: oh, perbacco!
Qualche giorno prima, da Fazio, Renzi aveva dichiarato: “Non siamo riusciti a mettere il canone come bolletta, è vero. Ma la Rai deve essere cultura ed approfondimento, e soprattutto deve essere al servizio della scuola”.
Come dire, che… nel mentre… perché perdere tempo con quell’inutile “Contratto di servizio” Rai, peraltro già perfettamente inutilizzabile per i due terzi dell’arco temporale che avrebbe dovuto regolare?!
Suvvia, basta ciance: il Governo governi, ed imponga “ex abrupto” la sua riforma della Rai! E accantoniamo anche bislacche idee come quella della “grande consultazione nazionale” (anzi “popolare”), che pure era stata annunciata dal Sottosegretario Antonello Giacomelli.
Renzi ha precisato: “è arrivato il momento di occuparsi di Rai in modo strategico. Io voglio una Rai come quella di Benigni, che ci ha fatto emozionare. Voglio una Rai all’avanguardia, che sia sui telefonini, che venda all’estero. Anche qui ho un’idea dell’Italia che ce la fa, contro i mugugni”.
Ahinoi, resteremo saldi nelle fila dei… mugugnatori (finanche… gufi), fino a quando non vedremo comportamenti coerenti con le belle dichiarazioni.
Mancano poche settimane al renziano “mese della cultura e della Rai”.