Ieri pomeriggio, in un discretamente affollato Salone del Consiglio Nazionale del Collegio Romano (la sede del Ministero dei Beni e Attività Culturali e Turismo), s’è tenuta una curiosa iniziativa: su istanza del Ministro Dario Franceschini, il Presidente dell’Istat Giorgio Alleva ha “ri-presentato” un paragrafo di un capitolo del “Rapporto Istat”, pubblicato il 20 maggio scorso, dedicato al valore culturale dei territori.
In effetti, avevamo notato – ed apprezzato – che l’edizione 2015 del “Rapporto Annuale” dell’Istituto Nazionale di Statistica proponesse un inedito paragrafo di approfondimento giustappunto dedicato alla cultura (da pag. 232 a pag. 237, dal titolo “Patrimonio, paesaggio, tradizione e creatività: il valore culturale del territorio”): e, con noi, anche il Ministro Franceschini deve averlo notato, se ha chiesto al Presidente Alleva di intervenire nell’ambito del dicastero per una specifica presentazione “ad hoc”. In effetti, fatte salve rare incursioni (ricordiamo un interessante volume edito nel 1999 per i tipi de il Mulino, “La musica in Italia”…), nella storia dell’Istat non si registra una particolare passione per le tematiche culturali, e questo novello interesse è senza dubbio commendevole.
Ci ha stupito osservare il parterre, e – tra tutti – la Presidente uscente della Rai Anna Maria Tarantola ed il Dg uscente Luigi Gubitosi: del secondo, avevamo però già intercettato il curioso interesse per gli “indicatori culturali”, come abbiamo già segnalato nella precedente edizione di questa rubrica (vedi “#ilprincipenudo del 10 luglio scorso: “Cultura, spettacolo e tlc: che fine ha fatto il ‘new deal’ di Renzi?”), e questa presenza tra il pubblico in prima fila al Collegio Romano (e, poi, un breve intervento di apprezzamento) appare coerente con gli intendimenti espressi. Tra il pubblico, abbiamo notato – tra gli altri – l’ex consigliere di amministrazione Rai Stefano Balassone e la presidente di Confcultura (l’associazione degli operatori ai servizi museali, aderente a Confindustria) Patrizia Asproni, a conferma di una “audience” ad ampio spettro (dai musei alla tv). Nel dibattito che ha fatto seguito alla presentazione di Alleva, tutti contenti per la novella intrapresa Istat, e soltanto l’editorialista del quotidiano “il Messaggero”, Fabio Isman, ha manifestato un qualche dubbio e scetticismo, così come Armando Peres, Presidente del Comitato Turismo Ocse, che ha notato come fosse curioso – esemplificativamente – che il Veneto non emerga, dalla ricerca Istat, come regione a forte vocazione turistica…
Genesi: l’idea primigenia è della Rai (Gubitosi), fatta propria da Istat (Alleva), rilanciata dal Mibact (Franceschini).
In effetti, in occasione della presentazione Istat, il Ministro Franceschini ha risposto a quella che era stata una proposta del Dg Rai Gubitosi: “Un parametro nazionale per valutare l’importanza culturale del Paese, non solo dal punto di vista del patrimonio, ma anche delle industrie creative. L’identificazione di un parametro nazionale per la cultura è una bella idea che viene dalla Rai, che sta affrontando questo tema con l’Istat. Noi abbiamo detto subito di essere disponibili, perché sarebbe molto interessante avere un parametro che mette insieme tutti gli elementi sull’importanza culturale di un Paese, dal patrimonio al turismo. Non è mai stato fatto”.
Non è ben chiaro cosa non sia “mai stato fatto”, in verità, perché da anni l’Eurostat produce dati (non omogenei e non aggiornati, ma questa è una criticità altra, che riguarda la Commissione Europea) che aggrega nelle “cultural statistics”, ed un lavorio nella stessa direzione (nella sua intrinseca complessità definitoria e metodologica) lo sviluppa anche l’Unesco. A sua volta, una qualche analisi internazionale (pur asettica, squisitamente statistica) la sviluppa, nello specifico dell’audiovisivo, l’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo di Strasburgo (ben finanziato dal Consiglio d’Europa e Commissione)…
E da molti anni, ci sono indicatori che vanno in questa direzione “culturologica” di comparazione internazionale: basti ricordare l’approccio introdotto fin dagli Anni Novanta dal politologo statunitense Joseph Nye, e la sua teoria del “soft power” (richiamata peraltro anche nel “Rapporto” Istat). Secondo il suo indice “Soft Power Survey”, nel 2014/2015 l’Italia verrebbe classificata al dodicesimo posto nel ranking internazionale, per capacità di esportazione del proprio modello culturale e per l’influenza indiretta che, in virtù di questa, può avere a livello politico, diplomatico ed economico…
Il Ministro spera che l’Italia possa divenire un’avanguardia in analisi di scenario internazionale delle politiche culturali?!
Magari fosse!
Ma con quali risorse, di grazia, viste le condizioni miserevoli cui sono costrette le pubbliche strutture teoricamente preposte alle attività di studio ed il taglio profondo alle consulenze degli istituti di ricerca?!
Non si corre il rischio, ancora una volta, di teorizzare grandiosi massimi sistemi e di cozzare con le miserie dei minimi sistemi?!
Ricordiamo al Ministro che egli stesso non può nemmeno rispondere al quesito sulla quantità di festival che sono disseminati sull’intero territorio nazionale italico, e ciò basti, per comprendere i deficit del sistema informativo della cultura nazionale. Franceschini può forse chiedere al suo (depotenziato) Osservatorio dello Spettacolo quanti sono i festival finanziati dal Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus), ma nulla sa, o quasi, delle centinaia e centinaia di iniziative che vengono realizzate, in tutta Italia, senza avvalersi dei sovvenzionamenti dello Stato centrale.
Prima di pensare a stupefacenti indicatori internazionali, non sarebbe opportuno dedicare adeguata attenzione (e risorse congrue) alla situazione interna (nazionale), per costruire – una volta per tutte – una mappatura accurata, un’anagrafe aggiornata, una radiografia approfondita delle attività culturali del nostro Paese?!
Ricordiamo che non siamo noi – osservatori critici ed ormai dissidenti storici – a mettere in discussione addirittura i dati “basic” dell’industria del cinema in Italia, se è vero che la stessa Associazione Nazionale Autori Cinematografici contesta un dato essenziale, qual è la quantità di film cinematografici di lungometraggio prodotti nel corso del 2014: ben 201 (duecentouno!) “film di nazionalità italiana”, secondo le statistiche elaborate dalla Unità di Studi congiunta Dg Cinema – Anica (condiretta da Iole Maria Giannattasio e da Francesca Medolago Albani). Il dato sintetico viene proposto, ma non si dispone dell’elenco preciso dei film (titolo, autore, produttore, distributore, e – magari! – incassi al box office “theatrical” e diffusione sugli altri media): mistero profondo! E l’Anac giustamente nutre dubbi su questi dati, che definisce non soltanto “poco attendibili”, ma addirittura “stravaganti”.
Un altro esempio ancora, eclatante: sa il Ministro come vengono allocate esattamente le risorse destinate alla cultura da parte delle cosiddette “ex Fondazioni Bancarie”, che – secondo l’Acri (l’organo di rappresentanza collettiva delle casse di risparmio e delle fondazioni bancarie) – sarebbero state ben 269 milioni di euro nel 2013 (erogazioni “arte, attività e beni culturali”), a fronte dei 406 milioni di euro del Fus 2014? No, non lo sa, perché non lo sa nessuno, se non le stesse Fondazioni, che peraltro pubblicano dei bilanci annuali che non brillano certo per trasparenza, completezza ed accuratezza.
E che dire dei 2 miliardi circa di euro che vengono destinati ogni anno ai beni ed alle attività culturali da parte delle amministrazioni comunali? Come interagiscono queste risorse con il budget dello Stato centrale? Interagiscono oppure ognuno procede per conto suo?! E che dire dell’utilizzazione dei fondi europei a favore della cultura? Qualcuno dispone di un rendiconto attendibile, di una mappatura accurata, di un elenco ragionato, di un’analisi critica organica, delle iniziative sostenute in Italia con i danari europei?! No.
Ma come si può pretendere di “governare” le politiche culturali, in assenza di un sistema informativo minimamente adeguato?!
In Italia, ci sono soggetti privati che – in assenza delle istituzioni preposte (dal Mibact all’Agcom…) – elaborano simpatiche “statistiche” e – svolgendo un improprio ruolo di supplenza – producono numeri, talvolta in libertà, sulle dimensioni socio-economiche della cultura: abbiamo già scritto come, nelle ultime settimane, sia stata presentata l’edizione n° 11 del rapporto annuale di Federculture e l’edizione n° 5 del rapporto annuale di Symbola/UnionCamere. Entrambe queste fonti “danno dei numeri” (e talvolta – sia consentita la battuta scherzosa – danno i numeri): diverte osservare come Roberto Grossi, in occasione della presentazione del rapporto annuale di Federculture, l’8 luglio scorso, si domandava: “cultura e creatività, quanto valgono? C’è molto da fare. Sul settore culturale e creativo, le stime sono diverse, ma è innegabile un valore economico importante…”. Grossi ricordava come il “valore aggiunto” della cultura e creatività sarebbe stimato in 78,6 miliardi di euro da Symbola ed in 15,5 miliardi di euro da Censis, con una incidenza sul totale nazionale rispettivamente del 5,4 per cento per Symbola e dell’1,1 per cento per Censis. Un campo di oscillazione preoccupante, si converrà.
Dati graziosamente discordanti anche rispetto all’occupazione: ben 1,4 milioni di addetti per Symbola e soltanto 304mila per il Censis, con quote rispettivamente del 5,9 per cento e dell’1,4 per cento… D’altronde, Symbola è ormai famosa per mettere nel grande calderone della cultura… di tutto e di più, incluso l’artigianato calzaturiero, ed i prodotti agricoli di qualità (come dire?! si vuole forse contestare, in un’ottica post-moderna, il nesso indubbio tra… “cultura” ed…“agricoltura”?!). Il nostro stesso istituto di ricerca, nel 2011, tentò una inedita perimetrazione del sistema culturale e mediale italiano, all’interno del progetto di ricerca IsICult promosso da Mediaset, “Italia: a Media Creative Nation”. Queste ricerche vanno ognuna per conto proprio, con metodologie differenti, e senza che nessuno si prenda la briga di comparare criticamente, di validare istituzionalmente. Si producono, insomma, numerologie soggettive, e lo Stato… resta a guardare.
L’Ufficio Studi del Mibact, anch’esso ridimensionato, non viene granché in aiuto, dato che ormai si limita a pubblicare un fascicoletto intitolato (con onesta modestia) “Mini-cifre della cultura”, la cui ultima edizione, relativa al 2014, è stata pubblicata il 12 marzo 2015. Presso il Mibact, sopravvive a se stesso anche il dimenticato Osservatorio dello Spettacolo.
Insomma – come abbiamo denunciato tante volte anche su queste colonne – in Italia lo stato dell’arte delle conoscenze in materia di politiche culturali ed economie mediali è sconfortante.
Una domanda sorge quindi spontanea: ma, se il Ministro Franceschini è ora così sensibile alla materia, perché non decide di allocare risorse economiche e professionali adeguate anzitutto alle due strutture preposte del suo dicastero, giustappunto l’Ufficio Studi e l’Osservatorio dello Spettacolo?! Anche il citato (dal Ministro) Osservatorio sul Turismo del Ministero non ci sembra peraltro brilli per capacità produttiva di dati ed analisi, e finanche per aggiornamento (l’ultima notizia che risulta in homepage è datata 16 maggio 2015)…
Gubitosi – a sua volta – ha anche annunciato che è in progetto una serata su Rai1, molto probabilmente una puntata di “Petrolio” (la stimolante trasmissione di Rai1 condotta dall’eccellente Duilio Giammaria), che, “partendo dai risultati della ricerca Istat, tratterà i temi del patrimonio culturale legato al territorio”. Ricordiamo che peraltro sia la tematica “cultura” sia quella “turismo” sono già state affrontate dal programma, con apprezzabile piglio eterodosso, anche se forse non così coraggiosamente come usa fare “Report” di Milena Gabanelli.
Tutto questo improvviso interesse del servizio pubblico radiotelevisivo sulla tematica “conoscitiva” è inconsueto, ma certamente apprezzabile.
Ricordiamo però, ancora una volta, che negli ultimi anni la Rai ha smantellato sia il proprio ufficio studi (prezioso “think tank” non soltanto per le strategie del gruppo) sia le collane editoriali storiche dedicate alla ricerca (dalla mitica Vqpt – Verifica Qualitativa Programmi Trasmessi alla più recente Zone, edite per i tipi dell’incerta Rai Eri), e rimarchiamo che la quasi totalità delle proprie attività di ricerca sono state focalizzate in una prospettiva “marketing oriented”: ben venga quindi una rinnovata volontà di studiare scenari, e contribuire all’elaborazione di “policy” anche in materia di cultura e turismo. Così dovrebbe fare il servizio pubblico. E peccato che Tarantola e Gubitosi manifestino questa sensibilità… a fine mandato: ad altri la gestione dell’eredità che andranno a lasciare?!
Cosa ha… scoperto, intanto, l’Istat?!
Il Presidente Alleva, con l’aiuto di una ventina di slide ben impaginate (dal titolo naturalmente ottimista, à la Renzi: “Patrimonio culturale: identità del Paese e inestimabile opportunità di crescita”, che “Key4biz” pubblica in esclusiva per i propri lettori), ha spiegato il criterio metodologico adottato dall’Istat, in questa ricognizione dei cosiddetti “sistemi locali”, aggregazioni socio-economiche elaborate dall’Istat indipendentemente da una definizione territoriale di tipo meramente amministrativo (qual è – per esempio – quella dei Comuni e delle Province-zombie). La logica dei “sistemi locali” Istat si avvale anche di un dataset costruito sulla base degli spostamenti quotidiani dei residenti (il che consente di presentare le informazioni con un riferimento territoriale ai luoghi dove vivono e lavorano le persone). In particolare, per “misurare” il “patrimonio culturale” e paesaggistico, sono stati utilizzati 10 indicatori, 9 per il “tessuto produttivo/culturale”, e 5 per la “attrattività turistica”.
Ci sembra di comprendere che il dataset della Siae (Società Italiana Autori Editori) non sia stato preso in considerazione. Chissà perché! Peraltro Siae proprio ieri ha pubblicato online il proprio “Annuario dello Spettacolo”, che mostra dati 2014 discretamente confortanti, nell’economia del rinnovato sito web della Società lanciato sempre ieri. Il Presidente della Siae, Filippo Sugar, ha annunciato che Siae ha affidato alla multinazionale Ernst & Young “una mappatura completa del settore culturale e creativo italiano”, con gli stessi criteri usati in Francia e dalle altre società di “collecting”, in vista delle modifiche al mercato unico digitale. Attendiamo per fine anno quest’altro contributo informativo-cognitivo… Un altro tassello (ben venga), ma è il puzzle che non si compone e quindi non si comprende. Che dispersione di risorse, che frammentazione di sforzi…
Istat non ha preso in considerazione nemmeno indicatori come la quantità di luoghi che offrono spettacolo (chiedere a Siae) o la quantità di emittenti radiofoniche e televisive locali (chiedere all’Agcom?!), o il parco-abbonati Rai (e qui veramente basterebbe chiedere a Viale Mazzini), ma sicuramente si tratta di metodiche che potranno essere affinate nelle prossime edizioni…
Sulla base di questi 24 indicatori scelti dall’Istat, sono quindi stati identificati 611 “sistemi locali”: soltanto 70 tra essi sono stati classificati come “La grande bellezza”, e si caratterizzano per poter vantare un insieme di eccellenze culturali sostenute da un’altrettanto fiorente industria culturale, come Roma, Milano e Firenze, ma anche alcune zone di Umbria e Campania.
Ci sono poi 138 sistemi locali che dispongono di un grande patrimonio culturale, non ancora valorizzato: per lo più, fanno parte del Mezzogiorno d’Italia, con punte in Sicilia e Puglia.
Si registrano altri 138 sistemi locali (la coincidenza tra i due sub-insiemi è squisitamente casuale), soprattutto nel Nord Est, che hanno una forte “imprenditorialità culturale”, ovvero non hanno particolari risorse di patrimonio culturale, ma valorizzano in modo eccellente quello che hanno.
Ci sono poi 194 sistemi classificati come “volano del turismo”: talmente belli e dotati di bellezza naturale da attrarre turisti, pur senza avere musei o beni storico-artistici o industrie culturali locali significative.
Infine, 71 sistemi sono stati classificati nelle “perifericità culturali”: hanno poca ricchezza artistico-culturale e scarsa capacità imprenditoriale, ed anche qui si trovano al Mezzogiorno (soprattutto aree interne di Calabria, Sicilia, Sardegna).
Il contributo Istat è senza dubbio utile ed interessante.
Quel che non ci è piaciuto è il tono, ancora una volta, sostanzialmente autocelebrativo: le criticità, tante e diffuse, sono state sottaciute, in nome dell’ennesima invocazione retorica a “fare sistema” ed alle “potenzialità di crescita” (ovviamente infinite): “Una volta di più dico che bisogna fare sistema – ha dichiarato Franceschini – ed investire su quel museo diffuso che è l’Italia. Tanto che assieme alla Rai e all’Istat stiamo pensando a creare un parametro culturale per misurare il valore di un Paese e ad incrociare tutti i dati che ci arrivano non solo dall’Istat, ma dall’Osservatorio Nazionale del Turismo – Ont e da altre fonti. Non solo lo Stato deve fare la sua parte (e l’abbiamo in parte fatta, con “art bonus” e anche il “tax credit”), ma anche i privati: se c’è un monumento che attira i turisti, attorno vanno costruiti anche alberghi, ristoranti, negozi eccetera. In un anno di crisi come il 2014, abbiamo superato i 50 milioni di arrivi internazionali. Ora stiamo vivendo il grande anno dell’Expo e ci aspetta quello del Giubileo, per cui stiamo lavorando con tante iniziative a partire dai cammini religiosi. Aspettiamo con fiducia che la rinnovata Enit, in cui Stato e Regioni collaborano insieme anticipando la riforma del titolo V della Costituzione, cominci il suo percorso e si occupi non solo di promozione, ma anche di commercializzazione del prodotto Italia”.
Scrivevamo su queste colonne il 10 luglio: “Il sistema informativo della cultura italiana sembra essere impostato affinché il ministro di turno e l’assessore di turno possano simpaticamente sorridere, allorquando i servili portatori d’acqua intonano giustappunto il coretto “tutto va ben, signora la Marchesa”. Rari sono i casi di giornalismo critico, di analisi indipendenti, le agenzie stampa diramano meccanicamente quel che viene propinato loro, ed i quotidiani riempiono spesso paginate intere (anche “Il Sole 24 Ore”!) di dati fantasiosi e cifre in libertà (non certificati da nessuno): ciò riguarda la cultura, come le telecomunicazioni, come il turismo…”.
L’iniziativa di ieri, ovvero la sinergia potenziale annunciata tra Mibact, Istat e Rai, corre il rischio di andare nella stessa direzione: forse verranno nuovi numeri e nuovi dataset (e ben vengano comunque, rispetto alla povertà e confusione attuale), ma temiamo privi di volontà di lettura critica (organica e strategica), e quindi inevitabilmente a rischio di divenire amplificatori numerici delle retoriche autoconservative del potere.
(ha collaborato Lorena Pagliaro)