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ilprincipenudo. Ma l’industria culturale italiana sta davvero così bene?

Angelo Zaccone Teodosi

Mercoledì 28 giugno 2017 è stata presentata la settima edizione dello studio “Io sono cultura”, promosso da Symbola, la fondazione “per le qualità italiane” presieduta da Ermete Realacci (che è anche parlamentare del Partito Democratico nonché Presidente onorario di Lega Ambiente): presentazione in pompa magna, presso la Sala Crociera del Mibact al Collegio Romano, con intervento – tra gli altri – del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali Dario Franceschini e del Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia.

Toni positivi assai, anzi proprio ottimisti, e teoricamente basati su fatti reali, ovvero dati certificati: gli indicatori che emergono dai bilanci depositati presso il Registro delle Imprese, curato dalle Camere di Commercio ovvero sostanzialmente da Unioncamere (presieduta da Ivan Lo Bello, tra gli intervenienti al Collegio Romano), non a caso partner di Symbola nello studio. Il sottotitolo dello studio Symbola recita, non senza un inevitabile conato della retorica del “soft power”: “L’Italia delle qualità e della bellezza sfida la crisi”.

In sostanza, leggendo questi dati, ovvero questa interpretazione dei dati, “l’industria culturale” italiana sembrerebbe godere di buona salute, essendo uno dei settori trainanti dell’intera economia, e registrando tassi di crescita positivi sia a livello di fatturato sia di occupazione: quel che viene definito il “sistema produttivo culturale e creativo” (da cui l’acronimo “spcc”) genererebbe ben 90 miliardi di euro, ed “attiva altri settori dell’economia, arrivando a muovere nell’insieme 250 miliardi, equivalenti al 16,7 % del valore aggiunto nazionale”; un “valore aggiunto” del settore che sarebbe cresciuto dell’1,8% rispetto all’anno precedente, con un aumento dell’occupazione dell’1,5 %; il “sistema produttivo culturale e creativo” darebbe lavoro a ben 1,5 milioni di persone (6% dell’intera occupazione italiana), con un incremento di 22mila unità rispetto al 2015…

Le “industrie culturali” in senso stretto (cinema, tv, radio, musica, videogame, media, editoria…) produrrebbero, da sole, oltre 33 miliardi di euro di valore aggiunto, ovvero il 37% della ricchezza generata dal “spcc”, dando lavoro a 492mila persone (33% del settore). Contributo importante anche dalle “industrie creative” (architettura, design, comunicazione…), capaci di produrre 12,9 miliardi di valore aggiunto (il 14 % del totale del comparto), grazie all’impiego di 253mila addetti (17 %). “Performing arts e arti visive” genererebbero invece 7,2 miliardi di euro di ricchezza e 129mila posti di lavoro. A “conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico”, si devono quasi 3 miliardi di euro di valore aggiunto e oltre 53mila addetti. A questi quattro ambiti, che rappresentano il “cuore” delle attività culturali e creative, si aggiungerebbero i rilevanti risultati delle “attività creative-driven”: 33,5 miliardi di euro di valore aggiunto (il 37% dell’intero sistema culturale e creativo) e 568mila addetti (38% del totale del sistema culturale e creativo). E qui tralasciamo di riportare i dati sui presunti decantati “moltiplicatori”…

Cifre grosse e numeri tutti in crescita, insomma, che hanno stimolato questo commento del Ministro Franceschini: “In quattro anni, la cultura è diventata centrale nel dibattito pubblico e nelle scelte politiche del Paese, come si può leggere nei numeri del settimo rapporto Symbola-Unioncamere. Questo è il risultato di cui sono più orgoglioso. È finita la stagione dei tagli e si è ripreso a investire, ma c’è ancora molto da fare. È importante lavorare per governare la crescita del turismo internazionale del nostro Paese, continuare ad accrescere le risorse umane e finanziarie pubbliche e private per il settore, sostenere lo sviluppo delle industrie culturali creative”. In sostanza, Franceschini si vanta del proprio operato, forte dei numeri che Symbola gli mette a disposizione. La rassegna stampa registra complessivamente toni positivi ed ottimisti.

Manca un piano strategico di sistema

Riteniamo sia opportuno procedere con prudenza, rispetto a questi entusiasmi (eccessivi), perché, se è vero che il Ministro Franceschini, tra Governo Renzi e Governo Gentiloni (in una esperienza ministeriale che si protrae da quattro anni, caso raro in Italia), ha dimostrato apprezzabile sensibilità politica notevole (pur battendo sempre sul tasto dell’“economico”, tralasciando la funzione primaria della cultura, che riteniamo debba essere anzitutto “sociale”), ed ha allargato i cordoni della borsa (basti pensare, per tutti, all’incremento notevolissimo della spesa pubblica a favore dell’industria cinematografica), è altrettanto vero che sembra ancora mancare – del tutto – un piano strategico e sistemico di rigenerazione di tutta la cultura italiana, e di suo rilancio a livello nazionale ed internazionale.

Si è assistito, in questi anni, ad interventi parziali, parcellizzati, frammentati, sganciati da un’ottica sistemica globale, e soprattutto da un accurato “fact checking”: il cinema e l’audiovisivo, in particolare, sembrano aver beneficiato di un’attenzione estrema, di cui non hanno goduto altri settori, come – esemplificativamente – l’editoria (libraria e giornalistica) o la musica… Il senso di queste sperequazioni ed asimmetrie è incomprensibile, se non facendo riferimento, forse, alla forza delle “lobby” rappresentative dei rispettivi settori… Senza certo dimenticare le incapacità “interne” manifestate dagli stessi “player” (ed il caso della Rai, e della sua grave deriva, è in tal senso sintomatico).

E, a proposito di cinema, il Ministero incrementa in modo significativo la dotazione di sostegno pubblico, esaltando lo strumento (miracoloso?!) del “tax credit”, ma va denunciato – ancora una volta, su queste colonne – che non è stato finora mai realizzato (a differenza di quel che è avvenuto in altri Paesi) uno studio di impatto, ovvero un’analisi valutativa critica: incredibile ma vero!

Inoltre, va segnalato che fuochi d’artificio numerici come quelli provocati da Symbola posano comunque su basi metodologiche fragili, confondendo spesso “mele” e “pere”, e rendono inevitabile l’evocazione della classica battuta di Trilussa sui polli, ovvero sulle possibili strumentalizzazioni della statistica. Un esempio, per tutti: che senso ha definire un settore come “videogiochi e software”, allorquando la prima attività è senza dubbio afferente allo specifico della “cultura” in senso stretto, mentre la seconda ingloba molto di più?! E, infatti, soprattutto in Italia, lo specifico economico dei “videogiochi” è fetta assai piccola della torta complessiva del “software”…

Si potrebbe contestare anche l’inserimento nel “perimetro” dello studio Symbola delle industrie “creative driven”, ovvero quelle “non appartenenti al core culturale ma soggette a processi di culturalizzazione” (!), che pure rappresentano un 37% del totale del “valore aggiunto” del sistema così complessivamente (e convenzionalmente) inteso, dato che il deficitario apparato metodologico dello studio si limita a precisare: “la stima delle imprese ‘creative driven’ deriva dall’applicazione della dimensione media d’impresa al numero di professioni culturali e creative presenti in ogni settore e in ogni territorio” (citazione discretamente criptica, vedi pagina 67 nota 1).

Lo stesso studio usa il termine “ibrido”, nel tentativo di spiegare di “cosa” si tratti, ma con esattezza da nessuna parte lo si spiega, né si precisa in modo accurato a quali “contaminazioni” ci si riferisca. E non aiuta granché quel che scrive Francesco Zurlo (Preside vicario della Scuola del Design del Politecnico di Milano), quando teorizza che “per definizione le imprese creative-driven sono quelle realtà capaci di allineare aspetti di business ad una proposta culturale e/o creativa, ridefinendo e talvolta valorizzando un proprio vantaggio competitivo”, e, ancora, “la produzione creative-driven si concretizza in modi diversi, talvolta complementari: tramite output produttivi/distributivi originali o tramite processi organizzativi che adottano, a livello sistemico, un mindset creativo” (pag. 197). Ovvero, concretamente, di grazia, professore?!

Più brutalmente, e concretamente, ci domandiamo se attività come l’“architettura” ed il “design” possano (debbano) rientrare – come tenta Symbola – all’interno di un’analisi seria ed approfondita del sistema culturale nazionale… Per capirci, anche la “moda” ed il settore “enogastronomico” rappresentano dimensioni della “cultura”, in senso lato, ma non si tratta di settori e segmenti e filiere economiche che andrebbero analizzate autonomamente, e “indipendentemente” dallo specifico culturale (e mediale e artistico)?!

In altre parole, le perplessità nascono dal dubbio che l’estensione grande del “perimetro” di riferimento di Symbola finisca per produrre un calderone indistinto e opaco, che determina più confusione che precisione, e non consente una lettura analitica accurata e attenta dei fenomeni in atto.

Si tratta di un approccio economista spinto, asettico anzi piuttosto acritico, che sembra ignorare le dinamiche interne di ogni settore: in tal senso, a poco servono i brevi contributi “settoriali” che lo studio Symbola produce di anno in anno, affidandosi ad operatori e studiosi che cambiano di edizione in edizione (una quarantina di interventi, nell’edizione 2017), proponendo interessanti letture varie e variegate, ma non consentendo una stabilità metodologica di approcci. Anche in questo caso, aumenta la varietà delle letture ed il pluralismo dei punti di vista, ma scema la qualità delle metodiche. Risultato: dispersività.

La prima edizione di questa rubrica “ilprincipenudo”, tre anni fa, fu intitolata: “L’economia della cultura e l’incertezza dei suoi numeri”, ed il sottotitolo precisava: “Da Federculture, Symbola, Confindustria, Dps ed Istat, cifre in libertà per impressionare i ‘policy maker’ e ‘dimostrare’ che la cultura ‘pesa’, e conta. Operazioni autopromozionali che finiscono per celare le miserie dell’industria culturale italiana”.

Purtroppo, da allora, lo sconfortante scenario non sembra essersi granché evoluto.

Il Principe di turno, in Italia, sembra ancora non realmente interessato ad utilizzare in modo serio concetti e metodiche come “fact checking”, “data-driven decision” e “evidence-based policy making”.

Come direbbe il Robert De Niro alias Capone della scena madre de “Gli Intoccabili” (per la regia di Brian De Palma): “chiacchiere e distintivo”! E sullo sfondo s’ode, ancora una volta, il coretto di “tutto va bene, madama la Marchesa”, come nel simpatico motivetto di Nunzio Filogamo

A noi – e ci si scusi l’ardire – sembra che “l’industria culturale” italica stia meno bene, ma proprio assai meno bene, di quel che alcuni rappresentano.

[Hanno collaborato Luca Baldazzi e Martina Paliani]

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