Volendo malignamente semplificare, si potrebbe sentenziare che si tratta di un’ennesima scoperta dell’acqua calda ora “firmata” dall’Istat, ma è comunque senza dubbio utile una riprova statistica di una idea semplice assai: più si è colti, e più si tende ad essere produttivi e moderni, anche nell’economia aziendale. Gli imprenditori più colti sono quelli che guidano le imprese a maggiore “alta crescita”: l’istruzione di imprenditori e dipendenti è correlata positivamente alla performance delle imprese.
Questa, in sostanza, la “scoperta”, ovvero la “validazione” che questa mattina l’Istituto Nazionale di Statistica ha proposto, presentando (“ad inviti”), presso l’Aula Ottagona (l’ex Planetario) delle Terme di Diocleziano a Roma, la prima edizione del “Rapporto sulla Conoscenza 2018”, stimolando un panel al quale hanno partecipato anche i rappresentanti di alcune “anime” del sistema della conoscenza, come Elio Catania, Presidente di Confindustria Digitale, e Giuseppe Laterza, titolare della omonima casa editrice e talvolta esponente dei vari settori culturali di Confindustria.
L’obiettivo dell’iniziativa Istat è molto ambizioso, i risultati non paiono all’altezza delle aspettative, ma si tratta di una prima esplorazione, e quindi è opportuno essere tolleranti e benevoli: come è stato sottolineato, l’opera poteva essere intitolato “Rapporto sulle Competenze” (professionali, tecniche, imprenditoriali), ma già a partire dalla titolazione si comprende l’intenzione di affrontare il tema da una prospettiva più alta ed organica, inserendo la “competenza” all’interno del più ampio concetto di “conoscenza”. Sottotitolo del rapporto è peraltro “Economia e società”. E qui evitiamo ogni possibile (infinita) analisi sulla polisemia intrinseca ad una parola come “conoscenza”…
Si legge nel Rapporto che si tratta de “il primo prodotto rappresentativo dell’impegno dell’Istat per la trattazione e la presentazione in maniera integrata di temi multidimensionali di natura strategica per il Paese”. Un commento sorge spontaneo: era ora! Anche considerando quanto l’Istat costa alle finanze pubbliche, circa 200 milioni di euro l’anno, dando lavoro ad oltre 2mila persone…
Il Rapporto propone un primo tentativo Istat di lettura integrata delle diverse dimensioni dell’uso della conoscenza nella vita delle persone e nell’economia: iniziativa commendevole, e si auspica che venga rinnovata ed arricchita quali-quantitativamente e finanche implementato nell’architettura metodologica.
L’incipit della “Introduzione” definisce il campo di ricerca: “Le espressioni “società dell’informazione”, “economia della conoscenza”, “digitalizzazione”, “impresa 4.0”, “internet delle cose” e così via, pur non essendo sinonimi l’una dell’altra, presentano molte ‘somiglianze di famiglia’ e tendono a ricorrere insieme nei discorsi sugli sviluppi più recenti della società e dell’economia”.
Organizzato in 6 capitoli e 38 “quadri tematici”, il Rapporto utilizza il concetto di “informazione economica” (nell’accezione proposta da Luciano Floridi), ossia di “sapere utile”, per concentrarsi sui modi e sui processi con cui la conoscenza si crea, si trasmette e si utilizza nell’economia e nella società. Il tema della “conoscenza” non è quindi affrontato soltanto nei termini restrittivi di innovazione nei processi e nei prodotti, di ricerca e sviluppo, di brevetti e marchi, di design industriale e proprietà intellettuale, ma in una prospettiva più estesa, che definiremmo “culturale” (in senso lato). In effetti, Istat ha saggiamente deciso di estendere il “perimetro”, alzando lo sguardo ed includendo pure alcuni aspetti della conoscenza, come la cultura e la creatività, la cui “utilità” si manifesta nella sfera personale e sociale.
Il Rapporto non è pensato per una sola sequenza di lettura: le schede possono essere lette indipendentemente l’una dall’altra, anche se la loro organizzazione in capitoli e la loro successione suggeriscono una chiave analitica e interpretativa che muove dalla creazione di conoscenza alla sua trasmissione, con particolare riferimento all’istruzione, ai suoi usi nei processi economici e nella vita delle persone, agli aspetti che costituiscono uno stimolo alle politiche. Questi i titoli dei 6 capitoli (il volume è editorialmente snello, soltanto 115 pagine, con ben 121 figure, anche se molte schede sono troppo cariche di infografica, peraltro di approccio assai tradizionale): “La conoscenza nell’economia e nella società” (1°), “La creazione di conoscenza” (2°), “La trasmissione di conoscenza” (3°), “L’uso della conoscenza” (4°), “L’istruzione nelle imprese” (5°), “Gli strumenti e le sfide per le politiche” (6°).
Lo scenario che emerge complessivamente è sconfortante, penoso, inquietante: in poche parole, l’Italia è in ritardo su… tutto. O quasi.
Negli ultimi anni, sta recuperando qualcosa (comunque lentamente), ed esistono alcune eccezioni alla regola (picchi di eccellenza), ma lo scenario complessivo proposto dall’Istat fotografa un Paese cognitivamente ovvero culturalmente arretrato. Quasi tutti gli indicatori utilizzati mostrano un’Italia “sotto la media” dell’Unione Europea.
Si legge a chiare lettere: “a confronto con le altre maggiori economie europee (l’Italia è caratterizzata) da livelli di istruzione e competenze modesti, ancorché crescenti. Specchio di queste caratteristiche sono l’incidenza meno elevata nell’occupazione di professionisti e tecnici e, in particolare, di personale con titolo universitario in queste categorie. Il nostro Paese, che insieme ai livelli d’istruzione contenuti, è caratterizzato anche da una bassa intensità di ricerca e sviluppo e da un’attività brevettuale modesta, ha quindi fondato una parte importante del suo benessere su produzioni con un contenuto di conoscenze specialistiche relativamente limitato, facilmente replicabili a costi minori altrove”.
Un florilegio di “indicatori” non proprio esaltanti:
- l’intensità della “spesa in ricerca e sviluppo” (“R&S”) in Italia continua a essere inferiore a quella delle altre maggiori economie europee: nell’anno 2015, 1,3 % del Pil, contro una media poco superiore al 2,0 % per l’Unione Europea; la spesa in R&S delle imprese nazionali è per circa un quarto effettuata dalle controllate nazionali di aziende estere…
- considerando i “flussi internazionali di conoscenza” attraverso le risorse umane, il saldo è negativo sia per l’attività inventiva (i brevetti con inventori residenti in Italia per conto di imprese estere superano quelli delle nostre imprese all’estero), sia nelle affiliazioni di autori (sono più quelli che vanno all’estero di quelli che entrano o tornano), sia nei flussi migratori della popolazione…
- l’Italia conferma un ritardo storico nei “livelli d’istruzione” rispetto ai Paesi più avanzati: nel 2016, la quota di persone tra i 25 ed i 64 anni con almeno un titolo di studio “secondario superiore” ha raggiunto il 60,1 %, ma la quota resta inferiore di ben 16,8 punti percentuali rispetto alla media europea…
- nel 2017, si stima che il 52 % della popolazione italiana tra i 16 e i 74 anni abbia “usato il computer su basi quotidiane”, contro il 64 % della popolazione europea, e quei 12 punti percentuali di scostamento dalla media Ue sono sintomatici, in modo inequivocabile, del grave ritardo; nel 2017, ha un “sito web” il 72 % delle imprese italiane con almeno 10 addetti, valore al di sotto della media Ue (77 %); la quota di “imprese che vendono via web” i propri prodotti è del 10 %, contro il 16 % della Ue…
Particolarmente interessante (e curiosa) l’attenzione dedicata alla “produzione creativa” amatoriale dei cittadini: “L’attività di gran lunga più diffusa è fare fotografie, praticata nell’anno da oltre metà degli italiani, mentre quasi un quarto dei rispondenti dichiara di avere prodotto almeno un film o video. All’altro estremo, una minoranza non trascurabile di persone (il 6 % degli uomini e il 4 % delle donne) compone musica. Nella fascia adulta (25-64 anni), il 15 % circa degli italiani si dedica, anche se con frequenze piuttosto basse, alle arti visive e plastiche: disegno, pittura, scultura e modellazione. Quasi un adulto su dieci si dedica infine alla scrittura di poesie, racconti, diari, blog. La diffusione della pratica creativa è direttamente proporzionale ai livelli d’istruzione: tra gli adulti (25-64 anni) che hanno conseguito la laurea o il dottorato di ricerca, quasi l’80 % si dedica alla creazione culturale e artistica, contro meno del 70 % tra i diplomati e poco più del 50 % tra le persone con la sola licenza media”.
Interessante (e deprimente) il dato relativo all’“occupazione culturale”: “In Italia, nel 2016 l’aggregato dell’occupazione culturale è pari a 612mila addetti, in diminuzione di 23mila unità rispetto al 2015. Architetti, progettisti, geometri e designer costituiscono la categoria più rappresentativa (35,1 %), seguiti dai lavoratori dell’artigianato (15,6 %) e dagli artisti visivi e dello spettacolo (10,9 %)”. Queste macro-aggregazioni determinano i soliti rischi di confusione tra… “mele” e “pere” ( un… “geometra” associato ad un… “musicista”?!), ma sono comunque utili per chi fa ricerca sociale: per esempio, per confermare la tesi (della quale è fortemente convinto chi redige queste noterelle) che il sistema culturale italiano sta vivendo una fase di impoverimento economico e di riduzione dell’occupazione, nonostante la retorica sulle sorti magnifiche e progressive del “digitale”.
Non sono poche le aree che il Rapporto ha purtroppo trascurato: è stata prestata una qualche attenzione ai beni culturali (fruizione museale, siti Unesco…), ma poca attenzione, in particolare, sui dati relativi alle varie industrie culturali e creative: cinema, musica, spettacolo dal vivo, design, moda…
Curiosa l’attenzione dedicata a Wikipedia, che pure – vogliamo rimarcare – non può essere considerata una fonte di conoscenza metodologicamente validata, e quindi riteniamo che Istat dovrebbe essere più prudente nel considerarla un indicatore qualificato. Eppure, Istat scrive che si tratta della “principale infrastruttura globale del sapere digitale” (!). Scrive Istat che “l’edizione in italiano ha raggiunto 1,4 milioni di voci (dicembre 2017), ed è la quinta al mondo tra quelle con un livello accettabile di elaborazione di contenuti (misurato dalla profondità del corpus), dopo le versioni in inglese, tedesco, francese e russo, e prima di quella in spagnolo. È invece terza dopo le versioni tedesca e giapponese per contributori attivi in rapporto ai parlanti la lingua. Dal lato della domanda, l’Italia è l’ottavo paese per pagine viste, con una quota del 3,7 % sul totale mondiale, ma si colloca in una posizione prossima ai Paesi nordici rapportando l’uso di questo strumento al numero di utenti di internet”. Sarà così, ma forse un soggetto come Istat dovrebbe proporre anche una riflessione critica sulla qualità della “conoscenza” che Wikipedia mette a disposizione, spesso metodologicamente superficiale, talvolta spudoratamente partigiana: insomma, scientificamente poco validata.
Il Rapporto Istat edizione 2018 è stato presentato da Giovanni Alfredo Barbieri, Direttore centrale per lo Sviluppo dell’Informazione e della Cultura Statistica, e dal collega Andrea de Panizza (della stessa Direzione Istat).
Il dibattito che Istat ha proposto a partire dal volume, dopo la presentazione introdotta dal Presidente Giorgio Alleva, è stato stimolante: sono stati invitati ad esprimersi sul Rapporto (che pure anche i relatori avevano ricevuto soltanto da poche ore, e quindi velocemente erano stati costretti a leggere o sfogliare…), oltre ad Elio Catania e Giuseppe Laterza, anche Mariagrazia Squicciarini (dirigente e ricercatrice della Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – Oecd, alias Ocse), Raffaele Lillo (“Chief Data Officer” del Team per la Trasformazione Digitale della Presidenza del Consiglio), Monica Pratesi (Presidente Società Italiana di Statistica – Sis), Maria Savona (University of Sussex)…
Il dibattito è stato moderato, con l’abituale colta eleganza, da Marino Sinibaldi, giornalista e culturologo nonché Direttore di Rai Radio3.
Tralasciamo l’entusiasmo manifestato da Mariagrazia Squicciarini, che si è riferita al Rapporto come se si trattasse di un’opera grandiosamente innovativa e finanche rivoluzionaria (addirittura a livello europeo)… Tralasciamo l’intervento non particolarmente stimolante di Raffaele Lillo, che non ha consentito di comprendere in che cosa si sia concretizzato il risultato finale del “Team” tanto voluto dall’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi ed affidato al boss di Amazon Diego Piacentini (il team è in scadenza nel settembre 2018, e ci si domanda se verrà rinnovato o meno)… La ricercatrice Maria Savona (titolare della cattedra di Innovation and Evolutionary Economics presso lo Spru – Science and Technology Policy Research, University of Sussex), rispondendo ad una sollecitazione di Marino Sinibaldi, ha rimarcato come sarebbe necessario, per l’Italia, “canalizzare il lavoro sprecato verso la specializzazione professionale”: in effetti, l’Italia è uno dei Paesi al mondo di maggiore ricchezza del patrimonio culturale, ma non è certo all’avanguardia nelle professioni della promozione delle cose museali e simili…
Concentriamoci sui due interventi che ci son parsi più significativi.
Critico ma sostanzialmente positivo ed ottimista Elio Catania (Presidente di Confindustria Digitale, già alla guida di Ibm Italia) ha rimarcato come il deficit di crescita dell’Italia sia correlato alla pochezza degli investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo. La coscienza di questa correlazione è purtroppo recente. Catania ha espresso un giudizio largamente favorevole rispetto alle iniziative del Governo Renzi, citando il “patto per la banda larga”, il “piano industria 4.0”, e finanche la sensibilità digitale della riforma Miur “buona scuola”. Ha definito “bellissimo” il lavoro messo in atto da Piacentini…
Preoccupato è invece apparso Giuseppe Laterza, alla guida della omonima casa editrice, che ha evidenziato come il Rapporto Istat confermi che “il Paese arranca”, affetto da una sorta di miopia ovvero di assenza di visione strategico-futurologica, affossato da una visione di breve periodo: “basta guardare la visione della realtà proposta dalla televisione italiana, per comprendere che i discorsi che stiamo facendo qui finiscono per apparire astratti. Tenere i cittadini nell’ignoranza è un modo per controllarli…”. In Italia, andrebbe recuperata una “visione di comunità”, anche nella dimensione della ricerca, dello sviluppo, della cultura. Ha citato un aforisma di Romano Prodi (che l’ha proposto di fronte ad una platea confindustriale): “non si può restare ricchi e ignoranti per più di una generazione…”. Ha poi lamentato l’assenza in Italia di un gioco di squadra (ovvero di quello stesso spirito “di comunità”) tra le varie componenti dell’industria culturale: “la mia stessa associazione di riferimento, l’Aie (Associazione Italiana Editori), parla poco con le associazioni di altri settori, come la musica o il cinema e paradossalmente anche con le biblioteche…”, e si è sentito l’eco del tentativo, che sembra purtroppo ormai fallito, di costruire, a viale dell’Astronomia, una Confindustria Culturale, che si affiancasse alle ben attive Confindustria Digitale e Confindustria Radio Televisioni. Ha segnalato come vada poi destrutturata la retorica del libro digitale: nello stesso mercato Usa, gli e-book sono arrivati ad una quota del 20 %, ma ormai sono in fase calante, essendo scesi al 16 %: quindi il libro su carta è tutt’altro che morente…
È curioso che la presentazione del Rapporto abbia stimolato molti dispacci di agenzia stampa, ma che nessuno di essi (come da verifica che abbiamo effettuato su Telpress) abbia riportato traccia del dibattito, che pure ha mostrato spunti interessanti.
Il Rapporto è stato curato da Andrea de Panizza e Giovanni Alfredo Barbieri, con la collaborazione di Annalisa Cicerchia.
Il volume è stato purtroppo pubblicato da Istat soltanto in versione “e-book”, e sia consentito criticare questa scelta editoriale: la trasmissione della conoscenza non deve necessariamente passare, ormai (anche se siamo nel 2018), soltanto attraverso il digitale. Crediamo che una istituzione pubblica come l’Istat debba continuare a pubblicare su carta, non per un feticismo della materialità cartacea, ma perché il “libro” mantiene una fondamentale funzione nella sua versione tradizionale (e non soltanto pensando alle biblioteche). L’Istat, assecondando una visione miope della tanto decantata “spending review”, ha purtroppo quasi azzerato il proprio catalogo su carta, e riteniamo che questa decisione sia culturalmente scellerata, se osservata proprio da quello che dovrebbe essere il “target” di riferimento: accademici, universitari, ricercatori, studiosi, bibliotecari, “decision maker” delle pubbliche amministrazioni, giornalisti… Addirittura anche il fondamentale “Rapporto Annuale”, quest’anno, non è stato pubblicato su carta, anche se la Direttrice della Comunicazione dell’Istat Patrizia Cacioli ci ha precisato che si tratta soltanto – nel caso in ispecie – di un ritardo connesso con la conclusione della gara bandita per le pubblicazioni su cartaceo (si tratterebbe di circa 200mila euro per un triennio, e già la modestia di questo budget la dice lunga sulle intenzioni dell’Istituto di mantenere una produzione editoriale su cartaceo). Auspichiamo che Istat torni ad essere anche… editore su carta.
Da lamentare, infine, l’assenza di una diffusione internet della presentazione: perché Istat non si dota di una propria “web tv?! In assenza, perché non è stata coinvolta la sempre disponibile – per iniziative qualificate come questa – Radio Radicale?! Forse Istat deve stimolare anche una propria riflessione autocritica sulle migliori modalità di “diffusione” della “conoscenza” che essa stessa produce…
- Clicca qui, per leggere il “Rapporto sulla Conoscenza 2018”, presentato dall’Istat oggi 22 febbraio 2018, a Roma presso la Sala Ottagona delle Terme di Diocleziano.