Il rutilante mondo dell’industria culturale e mediale italiana continua a proporre fuochi d’artificio, ma, finita la festa, si osserva uno scenario depresso e sconfortante.
Accantoniamo un tema “alto” (…) come quello della riforma Rai, che sta impegnando le Commissioni Parlamentari (ieri alcune audizioni, tra le quali quelle con i rappresentanti di Articolo 21 e MoveOn), costrette dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi ad una accelerazione d’agenda dopo la frenata estiva, ed affrontiamo questioni (apparentemente) minori…
#ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.
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Accantoniamo anche la polemica su Rai 3, e qui ci limitiamo a riprodurre un estratto significativo dell’articolo di Antonio Polito sul “Corriere della Sera” di oggi, intitolato “Il rebus della sinistra televisiva”, che sintetizza la querelle in modo efficace: “Prima Renzi, col fioretto del sarcasmo sull’audience dei talk show, poi il suo uomo in Vigilanza Michele Anzaldi, con la mazza ferrata di un minieditto bulgaro, e infine l’ineffabile governatore della Campania De Luca, con il kalashnikov dell’accusa di ‘camorrismo giornalistico’, hanno reso chiaro che il Pd ripudia la ‘sua’ rete, della quale non si sente più amato e rispettato ‘editore di riferimento’. L’accusa, esplicitata da Anzaldi, è molto chiara: a Rai3 e al Tg3 non hanno ancora capito chi è il nuovo padrone, cioè chi comanda nel partito che comanda”. E Beppe Grillo tuona: “Anzaldi come Goebbels”. Miguel Gotor, più elegantemente, teorizza una “degenerazione intracorrentizia del Pd renziano”. No comment…
Accantoniamo quindi tematiche così alte anzi celestiali, e veniamo alle bassezze della dura quotidianità: insomma, dalle stelle alle stalle. Come è noto ai nostri lettori più affezionati, questa rubrica si pone anche come osservatorio eterodosso del sistema culturale italiano: la giornata odierna registra almeno quattro iniziative che meritano un’attenzione trasversale ed integrata ed un opportuno commento critico organico, iniziative tutte afferenti alle criticità complessive del sistema audiovisivo italiano.
L’Anica dirama questa mattina un comunicato stampa con il quale segnala che una pimpante delegazione di rappresentanti dell’industria cinematografica ed audiovisiva italiana si è recata – grazie al sostegno del Ministero per lo Sviluppo Economico – in missione in Cina, la settimana scorsa, per “arricchire la dieta mediatica” di quasi 1,4 miliardi di cinesi. La delegazione in missione è stata formata da rappresentanti di Anica, Apt, Rai, Univideo, ed è stata guidata dal Sottosegretario alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli. Ha incontrato sia le istituzioni politiche che le strutture operative, come i vertici di Cctv, China radio International, China National Radio, Shanghai Media Group, Wanda Media e Dragon tv… Il comunicato recita: “La delegazione ha riscontrato un forte e positivo interesse delle realtà della radio, della televisione e del cinema cinesi verso l’audiovisivo italiano”, ma sembra di comprendere che non sia stato perfezionato alcun concreto contratto. I dati sull’export audiovisivo italiano sono inquietanti: non esistono stime di sorta, ma una valutazione dell’Anica (riferita soltanto ai film “theatrical”) li quantifica in circa 10 milioni di euro l’anno, a fronte di circa dei circa 300 milioni della Francia. Poco ricava l’Italia anche perché lo Stato è sostanzialmente assente, nel sostegno all’export.
Questa notizia dovrebbe stimolare una riflessione sulla pochezza e frammentarietà degli interventi pubblici per stimolare la promozione internazionale del “made in Italy” audiovisivo: basti pensare che, a fronte di circa 200 milioni di euro che lo Stato italiano ha destinato, ancora nel 2014, al sostegno del cinema, l’intervento per la promozione internazionale è nell’ordine di… mezzo milione di euro! E poi ci si lamenta del “nanismo” delle imprese audiovisive italiane.
Su altro fronte, comunque correlato, si segnala l’interrogazione parlamentare a risposta scritta classificata con il numero 4-10517 a firma di Gianfranco Sammarco, che il deputato del gruppo Ap-Ncd (e quindi partner del Governo Renzi) ha presentato formalmente lunedì scorso 28 settembre (ma di cui si è avuta pubblica notizia soltanto questa mattina) al Ministro Dario Franceschini, ponendo seri dubbi sull’efficacia del tanto decantato “tax credit” a favore del cinema (ed a favore, dal marzo 2015, anche dell’audiovisivo non cinematografico, alias fiction televisive in primis). Sammarco rende pubblica una voce che circola da tempo negli ambienti dei “cinematografari” italiani, ovvero che, attraverso un meccanismo di giochi contrattuali (che in qualche modo ricorda le scatole cinesi), si viene a determinare che soltanto una parte dei benefici previsti dalla normativa per i produttori cinematografici vada a finire effettivamente nelle loro casse. L’interrogante ipotizza che una parte significativa del costo del tax credit per l’erario finisca per andare paradossalmente a beneficio di soggetti altri rispetto ai produttori.
Si tratterebbe di un processo distorsivo del tax credit così detto “esterno”, ovvero quello che coinvolge imprese estranee al settore del cinema, che decidono di allocare proprie risorse nel settore per beneficiare dei vantaggi fiscali. Sostiene Sammarco: “Un imprenditore esterno al settore cinematografico versa 100 quale quota associativa parziale in una produzione cinematografica. Il 40% di tale quota è la misura dello sconto fiscale cui l’impresa ha immediato diritto. Il recupero del rimanente 60% dovrebbe essere legato a eventuali utili del film, cioè dovrebbe prevedere la partecipazione ad un ‘rischio’; quello che invece avviene ormai normalmente, anche grazie a società specializzate e professionisti, è che quei 100 formalmente versati al produttore cinematografico finiscono su un conto corrente bloccato e, come indicato da opportune clausole contrattuali, ritornano per l’80% all’investitore e solo per il 20% al produttore per essere utilizzati nella realizzazione del film. In questo modo l’imprenditore, erogando 20 e non 100, e usufruendo del tax credit di 40, invece di rischiare guadagna subito il 20%, che azionato cinque volte l’anno consente di raddoppiare il capitale”.
Sarà vero?!
C’è chi giura di sì, avendo letto questi strani contratti. Il perverso meccanismo (messo in atto con la silente connivenza dei più) è da dimostrare, ma, se fosse vero, ci sarebbero gli estremi di una vera propria truffa ai danni dello Stato: la mano pubblica alloca risorse per il cinema, e queste andrebbero in gran parte in mani altre! La questione, delicata assai, ci costringe a ricordare – ancora una volta… – quanto arretrato sia in Italia il livello di trasparenza e lo stato delle conoscenze in materia di valutazione di impatto dell’intervento della mano pubblica nel settore culturale.
Perché il Mibact, a fronte di risorse così significative, non ha mai ritenuto di effettuare – a differenza di quello che è stato fatto in Francia ed in altri Paesi – ricerche valutative accurate ed approfondite sul funzionamento di un meccanismo complesso come quello del tax credit, a distanza di ormai 7 anni dalla introduzione nella normativa italiana?
Si segnala poi, sui quotidiani di oggi, la prevedibile discreta ricaduta stampa della presentazione in pompa magna, ieri all’Auditorium della Musica, della decima edizione della Festa del Cinema di Roma (che si svolgerà dal 16 al 24 ottobre), eredità dell’interventismo culturale dell’era veltroniana. Forse anche per superare il sempre latente “conflitto di concorrenza” con la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia (che ha un budget di oltre 10 milioni di euro), il neo direttore Antonio Monda (scrittore e giornalista, raffinato esponente dell’intellighenzia di sinistra, italica ma cosmopolita) ed i suoi colleghi (la Presidente della Fondazione Cinema per Roma Piera Detassis ed il Direttore Generale Lucio Argano) hanno rimarcato la decisione di azzerare la dimensione “festivaliera” della kermesse, che si pone quindi ora soltanto come “festa popolare”: non a caso, sono state eliminate tutte le giurie, mantenendo in vita solo quella… popolare (giustappunto).
La macchina organizzativa della Fondazione Cinema per Roma assorbe complessivamente una decina di milioni di euro l’anno. “La direzione artistica ha avuto a disposizione – ha spiegato Monda – un budget di 3,6 milioni di euro; Berlino ne ha 22, Cannes 20 milioni”. L’anno scorso, il budget complessivo del Festival di Roma è stato di 11 milioni di euro: oltre ad entrate proprie (introiti per biglietteria ed accrediti ecc.), è finanziato dagli enti locali – Comune, Provincia, Regione – e dalla Camera di Commercio per 5 milioni complessivi, nonché da sponsor privati, per circa 3,7 milioni di euro, cui si aggiungono anche i contributi dell’Unione Europea. Il Mibact apporta ormai 1 milione di euro.
La domanda che nessuno si pone, e che pure andrebbe posta è, al di là della “contrapposizione” ideologico-estetologica Venezia/Roma: ha senso un comunque così consistente impegno delle risorse pubbliche, per una iniziativa del genere? Cui prodest, questa “festa” romana?! Serve concretamente al “sistema cinema” nazionale? Serve alla miglior promozione della fruizione “theatrical”? Serve alla città di Roma?! Stesso quesito riguarda, su altro fronte, il Fiction Fest (che si terrà quest’anno dall’11 al 15 novembre), che la Regione Lazio appaltava all’associazione dei produttori Apt, quest’anno ricondotto nell’alveo delle attività della Fondazione Cinema per Roma, giustappunto. Una iniziativa cui la Regione Lazio assegna un budget ormai modesto, nell’ordine di 1,3 milioni.
E che dire, ancora, della estemporanea invenzione del “Mia – Mercato Internazionale Audiovisivo”, che vorrebbe sviluppare l’esperienza delle iniziative della “Business Street” della Festa del Cinema, ed emulare l’ormai lontano nel tempo Mifed di Milano?
Si assiste, ancora una volta, ad una effervescenza di iniziative, ideate in totale assenza di analisi di scenario e ricerche di marketing. Il “sistema Paese” è concetto che sfugge al “policy maker” nazionale.
Questa frammentazione policentrica determina inevitabilmente una dispersione delle risorse pubbliche e, in questo… gioco dell’oca, torniamo alla casella di partenza: come è possibile che, su 200 milioni di euro l’anno di intervento pubblico statale a beneficio del cinema (di cui circa la metà assorbite dal controverso tax credit), soltanto le briciole vengano destinate alla promozione internazionale dell’immaginario audiovisivo italiano, e si organizzino poi in Italia festival grandi e piccini, e feste e festini, mercati e mercatini?
Si rinnova l’impressione di un “governo della cultura” che appare basato su una modesta conoscenza tecnica del sistema e del mercato, anche se va dato atto al Ministro Franceschini di star dimostrando una perdurante volontà riformatrice: si matura però l’impressione di un approccio frammentario, disorganico, velleitario.
Nel mentre non si assopiscono le polemiche sui “tagli” e le “esclusioni” determinate dalla prima applicazione del nuovo regolamento Mibact per il sovvenzionamento delle attività dello spettacolo del vivo (si rimanda all’articolo “Spettacolo e risorse: Il Fus tra centralità della politica e pressione dei tecnici” su “Key4biz” del 24 settembre), chiudiamo il nostro odierno monitoraggio critico segnalando che i quotidiani di oggi riportano anche una notizia che ha suscitato molte reazioni su web: il famoso scrittore, giornalista, poeta, umorista e attore Stefano Benni ha rifiutato il Premio “De Sica” (e qui si potrebbe aprire una digressione sulla infinita “premiopoli” italica…), dichiarando su Facebook: “troppi tagli alla cultura, non c’è da festeggiare” (a proposito, appunto, di… feste!). Il testo della lettera aperta postata da Benni merita essere letto integralmente, per chiudere questa nostra sconfortante analisi:
“Gentili responsabili del premio De Sica e gentile Ministro Franceschini, vi ringrazio per la vostra stima e per il premio che volete attribuirmi. I premi sono uno diverso dall’altro e il vostro è contraddistinto, in modo chiaro e legittimo, dall’appoggio governativo, come dimostra il fatto che è un ministro a consegnarlo. Scelgo quindi di non accettare. Come i governi precedenti, questo governo (con l’opposizione per una volta solidale), sembra considerare la cultura l’ultima risorsa e la meno necessaria. Non mi aspettavo questo accanimento di tagli alla musica, al teatro, ai musei, alle biblioteche, mentre la televisione di Stato continua a temere i libri, e gli Istituti Italiani di cultura all’estero vengono di fatto paralizzati. Non mi sembra ci sia molto da festeggiare. Vi faccio i sinceri auguri di una bella cerimonia e stimo molti dei premiati, ma mi piacerebbe che, subito dopo l’evento, il governo riflettesse se vuole continuare in questo clima di decreti distruttivi e improvvisati, privilegi intoccabili e processi alle opinioni. Nessuno pretende grandi cifre da Expo, ma la cultura (e la sua sorgente, la scuola) andrebbero rispettate e aiutate in modo diverso. Accettiamo responsabilmente i sacrifici, ma non quello dell’intelligenza. Comprendo il vostro desiderio di ricordare il grande Vittorio De Sica, e voi comprenderete il mio piccolo disagio. Un cordiale saluto e buon lavoro. Stefano Benni”.