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ilprincipenudo. Il Mia è funzionale a promuovere l’audiovisivo ‘Made in Italy’?

Angelo Zaccone Teodosi

Nel pomeriggio di martedì 11 ottobre 2016, in una “location” discretamente eccentrica come le Terme di Diocleziano (Museo Nazionale Romano), è stata presentata alla stampa ed ai media la seconda edizione del “Mia”, ovvero del “Mercato Internazionale Audiovisivo”, che si terrà a Roma da giovedì 20 a lunedì 24 ottobre 2016 (in contemporanea alla 11ª edizione della Festa del Cinema di Roma, che va dal 13 al 23 ottobre), giustappunto in una cornice curiosa quanto grandiosa.

La manifestazione è stata presentata in pompa magna, ed è stata affollata di operatori del settore, che pure commentavano per lo più la notizia – che sarà ufficializzata mercoledì 12 dalla Giunta dell’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Multimediali (Anica) – della designazione dell’ex Ministro Francesco Rutelli alla presidenza dell’Associazione (il cui principale “grande elettore” sarebbe l’ex Presidente Anica Fulvio Lucisano): un “papa straniero”, ovvero finalmente un non appartenente alla comunità imprenditoriale del cinema italiano, a differenza del predecessore Riccardo Tozzi (alias Cattleya, forse il maggiore produttore cinetelevisivo italiano).

Appare quindi sfumata la candidatura dell’ex Dg Rai Claudio Cappon e con poche chance quella dell’eterodosso avvocato Michele Lo Foco. Se confermata dalla base associativa (le elezioni si terranno tra un paio di settimane), si tratterebbe di una scelta certamente di alto profilo e lungimirante, anche se ci domandiamo cosa possa trovare di così stimolante ovvero “appealing” un politico di qualità come il già Sindaco di Roma in una piccola lobby come l’Anica, considerando che molti lo vedono candidato ideale alla guida dell’Unesco

Il parallelo e confronto con Marco Follini, ex politico di professione, divenuto Presidente dell’Associazione Produttori Televisivi (Apt), a nostro avviso non regge proprio.

Tra le presenze istituzionali alla presentazione del “Mia”, spiccava quella del Sottosegretario Ivan Scalfarotto, in rappresentanza del Governo, ovvero del Ministero dello Sviluppo Economico.

Sono intervenuti all’incontro: Francesco Prosperetti (Soprintendente ai Beni Archeologici di Roma), Michele Scannavini (Presidente dell’Agenzia Ice), Nicola Borrelli (Direttore Generale Cinema del Mibact), Lidia Ravera (Assessore alla Cultura e Politiche Giovanili della Regione Lazio), Piera Detassis (Presidente della Fondazione Cinema per Roma), Tilde Corsi (Vice Presidente Vicario dell’Anica), Matteo Levi (Vice Presidente Apt), Lucia Milazzotto (Direttore Mia). Tutti simpaticamente sorridenti, allegri, autocompiaciuti.

Da almeno tre decenni, chi redige queste noterelle è abituato a frequentare iniziative simili (e nota che la “compagnia di giro” è sempre sostanzialmente la stessa, da secoli): quasi sempre prevale la dinamica autoreferenziale e narcisistica della fiera delle vanità (“quanto siamo bravi…” e “quanto siamo belli…”), con una quasi totale assenza di analisi vagamente autocritica.

Il Ministro ed il Sottosegretario di turno vengono a manifestare la loro benedizione istituzionale. Passerelle rituali. D’altronde – sosterrebbe un professionista della comunicazione – a questo servono sostanzialmente, per lo più, le conferenze di presentazione degli eventi. Ahinoi.

È però anche vero che, fino a qualche anno fa, a fine conferenza stampa, emergeva spesso un collega giornalista un po’ curioso oppure finanche ardito, che poneva una qualche domanda cruenta o imbarazzante: ricordiamo con simpatia Marco Mele de “Il Sole 24 Ore” o Michele Anselmi del compianto “il Riformista”.

Da molti anni, osserviamo invece una sorta di narcotizzazione strisciante, determinata verosimilmente da un perverso mix di disillusione (la stampa non è più il “quarto potere”?!), inerzia (“ma chi me lo fa fare, a rompere le uova nel paniere?!”), pavidità (“se rompo le scatole, non mi accreditano più l’anno prossimo…”), assuefazione all’esistente (in fondo, come si può pretendere spirito critico da un qualificato giornalista professionista costretto a redigere un faticoso resoconto per qualche decina di euro, magari per una primaria agenzia di stampa nazionale?)…

Quali sono gli obiettivi del Mia edizione 2016?!

Riportiamo quel che i promotori scrivono nella corposa cartella stampa: “Mia è un acronimo che rappresenta un progetto ambizioso e mirato a potenziare il sistema cineaudiovisivo italiano e posizionarlo come uno dei ‘giocatori’ strategici nel mercato globale e nei tavoli di negoziazione dei grandi progetti internazionali. Dopo il successo della prima edizione (1.317 accreditati e 270 visitatori e 58 paesi rappresentati), Mia si pone come acceleratore di business unico e convergente per sostenere l’internazionalizzazione di cinema, televisione, documentario. Un format originale e mirato a sostenere le relazioni in una prospettiva di ampio respiro. Mia è uno strumento efficiente e flessibile: una mappa di opportunità di lavoro, networking, ragionamento e ‘ispirazione’ all’interno della quale ogni partecipante può costruire il proprio percorso, rispondendo a specifiche strategie industriali”.

Nessun dato rispetto a contratti perfezionati o comunque ad accordi avviati nella prima edizione, nessun dato relativo rispetto alle dimensioni di business verosimilmente stimolato. Certo: naturalmente si tratta di dati “strictly confidential”, ed è naturale che prevalga una qual certa riservatezza industriale, ma forse una qualche valutazione di massima potrebbe essere elaborata.

E si potrebbe comunque testare il funzionamento della kermesse attraverso questionari strutturati, finanche costruendo un campione rappresentativo dei partecipanti, e con “focus group” e tecniche simili. Qualcuno ci ha pensato?! Non risulta. E qualcuno ha analizzato la rassegna stampa internazionale, soprattutto sulle testate professionali del settore?! Non risulta.

Il problema di fondo delle politiche culturali italiane è la diffusa tendenza a non porsi più quesiti di valutazione di efficacia, ovvero di analisi di impatto: vale per gli interventi a favore della produzione culturale, così come per la promozione della cultura stessa.

Per esempio, l’unico tentativo di valutazione delle ricadute della Festa del Cinema di Roma risale al 2008, e ciò basti: si trattò una ricerca affidata alla torinese Fondazione Rosselli (originariamente nobile – fondata nel 1988 da Giuliano Amato, Norberto Bobbio, Giovanni Malagodi, Sandro Pertini, Giovanni Spadolini e Giuliano Urbani – ed alla fine miseramente sciolta, ad inizio 2016, a causa di un “buco” di 3 milioni di euro).

Si interviene quasi sempre discrezionalmente e nasometricamente, sulla base delle idee del professionista cui viene affidata un’iniziativa, o del ministro pro tempore, o del dirigente apicale di turno, ovvero sulla base delle valutazioni delle “lobby” che operano nel settore: nel caso in ispecie, le due maggiori associazioni imprenditoriali del settore, l’Anica e l’Apt (“poteri forti”, secondo alcuni), con la ciliegina, questa volta, di una delle associazioni autoriali, i 100autori (così, magari per stimolare un’immagine “plurale”, e non appiattita del tutto sulle logiche d’impresa).

Non a caso, l’iniziativa viene così presentata, a chiare lettere: “Mia è un progetto e un brand dell’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche (Anica) e dell’Associazione Produttori Televisivi (Apt), attuato dalla Fondazione Cinema per Roma”.

“Dettaglio”: Anica e Apt sono soggetti privati (entrambi espressioni di anime della Confindustria), mentre la Fondazione Cinema per Roma non è esattamente un soggetto privato, essendo formato (e finanziato) prevalentemente da partner pubblici, in primis Roma Capitale, poi la Regione Lazio. Per la precisione, i soci fondatori della Fondazione Cinema per Roma sono Roma Capitale, Regione Lazio, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Roma, Istituto Luce Cinecittà (alias, ormai, Mibact), Fondazione Musica per Roma.

In sostanza, il “privato” disegna e propone (ma non ci mette 1 euro uno di investimento, con buona pace degli investimenti in “R&S” e del tanto decantato… rischio d’impresa), il pubblico sovvenziona simpaticamente e passivamente esegue: un po’ paradossale.

Noi crediamo che, in un Paese evoluto, dovrebbe essere il “pubblico” (lo Stato, in senso lato) a disegnare le strategie (certo, non chiuso in una torre eburnea o nelle stanze ministeriali, ma ascoltando gli “stakeholder”), e semmai richiedere al “privato” di assecondarle.

In Italia si assiste invece ad una sorta di deriva “privatistica” della politica, che certamente non riguarda soltanto il settore culturale.

Si registra una sostanziale incapacità del “pubblico” (le istituzioni) nel disegnare un modello di sviluppo sostenibile, dal punto di vista di una ecologia culturale (che peraltro pare interessi soltanto a pochi analisti indipendenti): ci si affida sempre di più al… “mercato”, inteso come panacea, come se fosse naturale e sano che una visione spontaneista dell’economia vada a sostituire le politiche pubbliche. In sostanza, il mercato si autodetermina, si autoregola e finanche detta “le regole” allo Stato (stendiamo un velo di pietoso silenzio sulle “autorità indipendenti”…).

La politica sembra aver abdicato rispetto al proprio ruolo primigenio e sovrano, e diviene ancella dell’economia. Il problema è che questa dinamica non riguarda soltanto estremisti come il più avanzato “think tank” liberista italiano, l’Istituto Bruno Leoni (Ibl), ma sembra essere ormai onnipresente nelle politiche di esecutivi che pure si dichiarano riformatori-riformisti e finanche progressisti e – udite udite – “di sinistra”.

Nel settore audiovisivo italiano, questa degenerazione “liberista” si associa alla storica tendenza “assistenzialistica”…

Quel che vogliamo qui rimarcare è, ancora una volta, un deficit di “senso”: qualcuno si è posto la domanda se una iniziativa come il “Mia” è veramente funzionale, in termini strategici, alla miglior promozione del cinema e dell’audiovisivo “made in Italy”?!

Sia ben chiaro: male certamente non farà (circolano idee, si promuovono incontri, un po’ come il morettiano “faccio-cose-vedo-gente”… e certamente produce anche occupazione qualificata e ben remunerata per alcune decine di addetti ai lavori), ma quanto è concretamente produttiva in termini strategici e di medio-lungo periodo?!

La domanda non è né retorica né oziosa, perché ci porta immediatamente ad un quesito ben più impegnativo: esiste una minimamente organica “policy” istituzionale nazionale in materia di promozione internazionale del “made in Italy” (materiale ed immateriale)?!

E la risposta a questo quesito è netta: no, non esiste.

Non esiste una politica di promozione internazionale, né del cinema né dell’audiovisivo né di altri settori dell’industria culturale nazionale. Né del turismo (culturale o meno!).

La tanto decantata imminente novella legge sul cinema e sull’audiovisivo (il 6 ottobre il Senato ha approvato il testo ed ora tocca alla Camera) è anch’essa evidentemente deficitaria di una “vision” comparativa internazionale e di una strategia di rigenerazione organica del settore: allarga in modo consistente i cordoni della borsa (garantendo un flusso di ben 400 milioni di euro di danari pubblici all’anno al settore cinematografico e audiovisivo, con un incremento consistente rispetto ad una lunga stagione di “vacche magre”), ma non innova radicalmente, non scardina né mette in discussione realmente gli assetti di potere esistenti, non si apre certo al nuovo che avanza (il digitale, il web…).

D’altronde, continua la grancassa entusiasta di molti (i beneficiati… anzitutto!) rispetto alle magnifiche doti del “tax shelter” (avviato quando giustappunto Rutelli era Ministro della Cultura), senza che lo Stato italiano abbia finora mai ritenuto di effettuare una valutazione d’impatto (come hanno seriamente fatto Paesi più evoluti del nostro, Francia in primis) di questo specifico “mantra liberista”: incredibile, ma vero (come abbiamo denunciato più volte su queste colonne).

In materia di promozione internazionale del cinema e dell’audiovisivo, in Italia coesistono una pluralità di interventi, frammentati tra competenze istituzionali non raccordate: in primis, il Ministero Beni e Attività Culturali e Turismo (Mibact), poi il Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale (Maeci), poi il Ministero Sviluppo Economico (Mise).

Esiste una “cabina di regia” tra i tre dicasteri?!

Anche qui la risposta è netta: no, non esiste.

Come si può ben governare un settore così strategico, in assenza di una regia complessiva ed organica?

Esiste, ancora, un raccordo tra le variegate iniziative delle Regioni in materia di politica audiovisiva, culturale, turistica?! No, non esiste.

Esiste, senza dubbio, un’associazione tra le “film commission” italiane (l’Italian Film Commissions, appunto), ma ha una funzione di coordinamento generico, senza entrare nel merito delle “politiche audiovisive” regionali, che vanno ognuna per conto suo, senza che esista – a livello di Stato centrale – un luogo di riflessione critica e strategica. Nemmeno in sede Mibact: incredibile, ma vero.

E ancora, è in grado il Sottosegretario Ivan Scalfarotto, oppure il Ministro Carlo Calenda o il Ministro Dario Franceschini o il Ministro Paolo Gentiloni, di rispondere al semplice quesito: a quanto ammonta il budget complessivo che lo Stato italiano assegna alla promozione internazionale del “made in Italy” immateriale (cinema, audiovisivo, musica, design, moda…)?!

Nessuno può dare risposta, nemmeno a questa domanda: incredibile, ma vero.

D’altronde, l’Italia è il Paese nel quale si continua a far un gran parlare dell’export audiovisivo e delle sue grandiose potenzialità cultural-economiche, ma nessuno dispone di stime minimamente attendibili sulle dimensioni attuali della nostra esportazione di cinema e audiovisivo. Nessuno, né il Mibact né l’Anica né l’Ice: incredibile, ma vero.

Passando dal… “macro” al… “micro”, torniamo al “Mia”.

Il programma è denso di iniziative, proiezioni, “pitch”, incontri (parte dei quali riservati agli operatori, anche la stampa è “off”), e rimandiamo il lettore appassionato alla dettagliata e ben curata cartella stampa (quest’anno, dopo qualche problema di “comunicazione” registrato l’anno scorso, il Mia ha deciso di avvalersi della consulenza della società specializzata Fosforo).

Le perplessità restano comunque sostanzialmente le stesse che abbiamo manifestato un anno fa su queste colonne: il 15 ottobre 2015, “Key4biz” titolava “Festa del Cinema di Roma: esordio in tono minore, tra deficit di idee e spending review”, ed il sottotitolo era eloquente: “Che senso ha la kermesse romana insieme al Mercato Internazionale dell’Audiovisivo, in assenza di una strategia di sistema Paese?”.

Dopo la lunga (convinta ed appassionata) illustrazione del programma 2016 da parte della Direttrice del Mia, Lucia Milazzotto, la kermesse volgeva al termine: è quindi stato dato spazio alle domande dei giornalisti. Nessun rappresentante della stampa estera ha chiesto il microfono, e già soltanto questo potrebbe stimolare quesiti… inquietanti.

Un sospiro di sollievo (per chi ama il giornalismo critico) ce l’ha provocata la domanda della collega Gloria Satta, colonna storica delle pagine dello spettacolo e della cultura del quotidiano “il Messaggero”: “Scusate, ma tutto questo quanto costa, e chi contribuisce al budget?!”. Lieve sconcerto sul tavolo di presidenza (per l’impertinente quesito?!), prende la parola il Presidente dell’Ice, Michele Scannavini, che segnala che la sua Agenzia interviene con 1.350.000 euro, e “degli altri non so”… Pausa imbarazzata.

Viene quindi passata la palla ovvero il microfono alla Direttrice della Fondazione Cinema per Roma, Francesca Via (seduta in prima fila), che rivela che il budget complessivo è di 1.900.000 euro, e che gli altri 550.000 euro sono apportati dalla Fondazione Cinema per Roma. Insomma, un “mercato” che gode di sovvenzioni pubbliche per 2 milioni di euro.

Si ricorda che l’edizione 2016 della Festa del Cinema, in versione “francescana”, conta su risorse complessive di 3,4 milioni di euro, mentre il budget totale della Fondazione Cinema per Roma, spalmato anche sul “Mia”, il “Fiction Fest” ed il “Cityfest” (contenitore di eventi e iniziative culturali, con la partecipazione di “talents” e personaggi del mondo dell’arte e della cultura, che si sviluppa su base annua) è di circa 10 milioni di euro (si segnala che il picco storico della Festa è stato di ben 17 milioni di euro).

Antonio Monda, Direttore artistico della Festa, ha così sintetizzato  il senso dell’11ª edizione: “Discontinuità: nessuna cerimonia, né madrine e vallette; varietà; internazionalità, con una quarantina di titoli provenienti da 26 Paesi diversi”.

Qualcuno (tra i soliti eccentrici, certamente “gufi” nel senso renziano del termine) si domanda, anche su questo fronte: ma che senso ha, per il “sistema cinema” italiano, la Festa di Roma, rispetto alla Mostra di Venezia?! Non sarebbe più intelligente 1 festival nazionale 1, dotato di un budget complessivo corposo, adeguato per competere con Cannes e Berlino, e magari con i veri “market” internazionali, riportando l’Italia agli allori dello storico Mifed (Mercato Internazionale del film, del tv film e del documentario) di Milano? Sull’argomento (l’indimenticato Mifed), si rimanda il lettore curioso al pamphlet di Dom Serafini (l’italo-americano editore di “Video Age International”), pubblicato ad inizio 2015: “L’uomo del Mifed. Michele Guido Franci e la prima fiera dell’audiovisivo del mondo di Milano contesa da Roma e uccisa dalla politica”…

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