Ieri mercoledì 23 gennaio 2019, abbiamo avuto il privilegio di essere gli unici giornalisti a partecipare alla assemblea generale dei doppiatori italiani, tenutasi a Roma presso la Serra di Villa Piccolomini sull’Aurelia (“location” fascinosa, ma non granché adatta ad ospitare una simile iniziativa), in occasione della prima giornata di sciopero degli operatori del settore.
Abbiamo vissuto un’esperienza molto interessante, anche perché il dibattito è stato vivace, a fronte di una platea di almeno trecento persone. Considerando che si stima che in Italia siano circa mille i professionisti che lavorano nel settore (indotto a parte), va senza dubbio apprezzato il successo dell’iniziativa sindacale, ovvero una partecipazione “di massa” all’assemblea. Forse sintomatica delle crescenti preoccupazioni di chi lavora in questa attività fondamentale per il sistema cinematografico, televisivo, audiovisivo, del nostro Paese. I lavori sono iniziati verso le 10 e si sono protratti fino alle 16, di fronte ad una platea molto attenta e partecipe, di tutte le età, dai ventenni ai settantenni, equiripartita tra “gender” (forse una qual certa prevalenza di donne).
I tre sindacati promotori ovvero Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil hanno annunciato la ripresa della “vertenza doppiaggio”, con questa dichiarazione di intenti: “la scelta suicida delle aziende di proporsi al ribasso ai committenti, anche con l’arrivo delle piattaforme digitali di Netflix e Amazon, crea un abbassamento della qualità del prodotto e distorsioni di mercato che pesano sui professionisti, che non si vedono applicato correttamente il contratto nazionale”.
In effetti, l’ultimo “contratto nazionale collettivo” del settore risale al 2008 ed un “accordo-ponte” del 2017, che prevedeva la gestazione del nuovo “ccnl”, non ha avuto l’attuazione prevista dalle parti.
Le questioni sul tavolo sono semplici e complesse al tempo stesso, e sono anche il risultato di quella radicale “disrumption” che i processi di digitalizzazione stanno determinando in tutti i settori economici (e sociali), a livello planetario: da un lato, c’è la naturale storica difesa dei diritti dei lavoratori; dall’altro, le conseguenze della modificazione del concetto stesso di “lavoro”, a causa della continua evoluzione di “macchine intelligenti”, che sottraggono le attività al lavoratore umano.
Lamentano i sindacati – affiancati dalle associazioni professionali del settore ovvero Anad (Associazione Nazionale Attori Doppiatori) per i doppiatori, Aidac (Associazione Italiana Dialoghisti e Adattatori Cinetelevisivi) per i dialoghisti ed adattatori, Aipad (Associazione Italiana per Assistenti al Doppiaggio) per gli assistenti – questioni concrete e materiali: “riduzione delle retribuzioni… pagamenti spostati alle disponibilità di liquidità delle aziende, con tempi e modalità che riducono i professionisti a questuanti… organizzazione delle lavorazioni che non tiene conto della dignità della professione e della qualità del prodotto…”.
In sostanza, sono i lavoratori – prima delle imprese – a soffrire le conseguenze della crisi di un settore che vive un paradosso: in effetti, le dimensioni dell’offerta crescono in modo impressionante, grazie alle nuove piattaforme digitali ed alla diffusione di “device” tecnologici sempre più accattivanti, e quindi il fabbisogno di audiovisivo “doppiato” aumenta, ma, al contempo, i nuovi “player” sfuggono alle storiche regole del settore, sia in termini qualitativi sia in termini economici.
Le due dinamiche (incremento della quantità di prodotto da doppiare e riduzione del budget complessivo) sono ovviamente correlate nella loro contraddittorietà: meno budget per il doppiaggio corrisponde a determinare un peggioramento della qualità.
Il processo è semplice: “corsa al ribasso”. Il budget “per minuto” doppiato scende continuamente.
Paradossalmente, però, è il fruitore finale a pagare le conseguenze (estetiche e culturali) di questo processo, perché si trova ad ascoltare prodotti audiovisivi con un doppiaggio di bassa o pessima qualità. In verità, talvolta lo spettatore nemmeno se ne rende conto, e prevale quindi una sorta di diffusa “diseducazione” all’ascolto/visione, un continuo imbarbarimento antropologico…
I sindacati hanno proposto all’assemblea di proclamare uno “stato di agitazione”, che si pone come prima iniziativa “contro la continua mortificazione professionale, il pagamento delle fatture dilazionato a tempi insostenibili, le ricadute negative di una concorrenza sleale tra le aziende del settore e le indicazioni dei committenti sempre più vessatorie…”.
Da lunedì prossimo 28 gennaio, quindi, i doppiatori italiani bloccheranno le prestazioni straordinarie: questa iniziativa “morbida” è un primo segnale verso la controparte datoriale, nella prospettiva di uno “sciopero generale”.
I sindacati invocano, nella loro miglior tradizione, “il rispetto delle norme contrattuali, la garanzia dei diritti sociali, economici e professionali degli addetti e la difesa della qualità del prodotto”. Sacrosante istanze, ma riteniamo sia sfuggito ai promotori dell’iniziativa di ieri la radicalità dei processi di transizione in atto, così come la evanescenza dei nuovi “interlocutori”.
La rivoluzione digitale potrebbe infatti determinare, nell’arco di pochi anni, la diffusione di processi di doppiaggio automatizzati, grazie all’evoluzione dell’intelligenza artificiale (basti pensare al salto di qualità, negli ultimi anni, di software come Google Translator), che determineranno espulsioni progressive dei professionisti umani dal mercato del lavoro.
Soggetti come Netflix ed Amazon non hanno quasi a nulla a che vedere con i tradizionali “committenti”, che siano – dal punto di vista dei doppiatori – le imprese di doppiaggio ovvero le imprese di distribuzione cinematografica (“theatrical”) e video (“homevideo”) ovvero i “broadcaster” vecchi e nuovi.
Se è di ieri la notizia che “incredibilmente” Netflix è stata ammessa nella “lobby” storica dei produttori cinematografici statunitensi la Motion Picture Association of America – Mpaa (che associa attualmente 6 “major”, ma sta per perdere la 21th Century Fox dopo il completamento della fusione di molti dei suoi “asset” con Disney), è evidente che le logiche di business di un “over-the-top” sono profondamente differenti rispetto a quelle di un produttore/distributore tradizionale di contenuti audiovisivi.
Per capirci, ad un “tavolo di trattative” può sedersi una impresa o una associazione di imprese, ma Netflix è un livello altro e… “oltre”: si tratta di una multinazionale dell’immaginario che opera in un’ottica globale e planetaria, e vive una questione quale “il doppiaggio in Italia” come un capitolo marginale del proprio business. In sostanza, sostengono a Los Gatos (Silicon Valley): “ci sono problemi con i doppiatori italiani?! ed allora noi ci affidiamo a società non aventi sede in Italia, che utilizzano italofoni, e chi se ne importa se non sono di eccellente qualità professionale…”. Insomma, Netflix & Co, dei “contratti collettivi di lavoro” possono farne a meno. Semplicemente li “bypassano”, grazie al “libero mercato” senza frontiere, frutto della infinita globalizzazione dei processi produttivi.
Non stiamo qui a sostenere che la battaglia dei sindacati sia inutile, ma è latente il rischio di un approccio di retroguardia: l’eco di questa vecchiezza di analisi è emerso anche dall’assemblea della Cgil (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), che sta portando il battagliero Maurizio Landini alla guida dell’organizzazione. Si segnala che in Cgil è stata promossa una consulta “Progetto Lavoro 4.0”, nella quale è stato cooptato uno dei più lucidi analisti di questi processi, Sergio Bellucci, promotore del “think tank” Net Left, teorico del carattere epocale della “transizione” in atto: si nutre però l’impressione che lo sforzo “futurologico” di quel che resta il maggior sindacato italiano sia ancora timido.
Nel caso in ispecie (il settore del doppiaggio), le conseguenze delle modificazioni in atto hanno prodotto un altro problema: non esiste più, per il sindacato, un interlocutore “chiaro” e definito, dato che sono associate all’Anica soltanto quattro o cinque imprese del settore, una minima parte delle circa cento società attive nel settore. Un’associazione alternativa, Aid 2014 (costituita nel 2014, appunto, da altre 15 imprese) è divenuta evanescente.
In sostanza, non esiste una precisa “controparte” con la quale trattare il “contratto collettivo”. E lo stesso contratto collettivo non viene quindi rispettato dalla gran parte delle imprese del settore. Peraltro, ormai la vera “controparte” dei doppiatori non è rappresentata dalle società di doppiaggio, bensì dai committenti delle società di doppiaggio, ovvero le emittenti televisive ed i distributori “theatrical”, e ovviamente le nuove piattaforme.
In un ecosistema sano, al “tavolo delle trattative” dovrebbero sedere anche Rai e Mediaset e Sky e Discovery, ect., oltre alle società di distribuzione cinematografica, ed ovviamente anche gli “ott”.
E non stupisca che ieri all’assemblea dei lavoratori abbiano partecipato, assai attivamente, anche alcuni imprenditori: anzi, l’assemblea ha votato (con soltanto una decina di dissidenti, su centinaia di partecipanti) che ai “tavoli di lavoro” sindacali che verranno organizzati nelle prossime settimane possano partecipare giustappunto anche gli imprenditori. Ovviamente gli “imprenditori buoni”, quelli che – pur con difficoltà – applicano il contratto collettivo di lavoro (e sono una minoranza). Sono previsti 4 “tavoli”, dedicati alle seguenti tematiche: “pagamenti” (modalità, tempi, fatturazione elettronica), “rifondazione del contratto”, “adattamenti, simil-sinc, documentari”, e “nuove frontiere”. Riteniamo che quest’ultimo sia il tavolo di lavoro più importante e strategico.
In particolare, ci piace qui citare gli interventi appassionati degli imprenditori Massimo Giuliani (Time Out Movie srl) e Fiamma Izzo (Pumaisdue srl), che peraltro incarnano una convergenza/confusione di ruoli (sono sì imprenditori ma anche doppiatori loro stessi): il primo ha chiesto ai lavoratori di non accettare lavoro dalle imprese “cattive”, provocando polemiche reazioni nella platea; la seconda – notebook alla mano – ha letto alcune incredibili email provenienti da Netflix, committente che, nell’arco di pochi mesi, le chiede di ridurre il “costo per minuto doppiato” da 200 a 150 euro, dato che, sul mercato italiano, ci sono imprese che giocano pesantemente al ribasso (ed il committente ovviamente approfitta di pratiche di “dumping sociale”).
L’assemblea è stata coordinata soprattutto da tre attivisti: Umberto Carretti in rappresentanza della Cgil (Sindacato Lavoratori della Comunicazione – Slc), Fabio Benigni per la Cisl (Federazione Informazione, Spettacolo e Telecomunicazioni – Fistel), e Roberto Stocchi, Presidente dell’Anad (Associazione Nazionale Attori Doppiatori).
Unione Italiana Lavoratori della Comunicazione
I toni sono stati sempre molto pacati, ed all’osservatore esterno è parso che un po’ tutti i partecipanti non si rendessero conto della gravità radicale della situazione in atto: naturale sarebbe stato attendersi toni polemici, aggressivi e belligeranti, ed invece ha vinto una linea “soft”, un discreto stato di agitazione piuttosto che un duro sciopero nazionale. È anche vero che alcuni sostengono che la proclamazione di uno sciopero, ovvero l’avvio di una linea “dura e pura”, in un settore così peculiare (nel quale emerge sempre la dimensione artistica), si scontrerebbe con le difficoltà materiali e reddituali di molti lavoratori, che debbono guadagnarsi da vivere giorno dopo giorno, dato che si tratta prevalentemente di liberi professionisti.
Riteniamo comunque che criticità così profonde possano essere affrontate soltanto in due modi, per evitare che si disperda la ricchezza di un’attività culturale nella quale l’Italia può vantare un primato a livello planetario (non è retorico ricordare che i doppiatori italiani sono considerati i migliori del mondo): intensificazione e radicalizzazione del conflitto, che deve assumere dimensioni comunicazionali ampie, superando “la nicchia” dello specifico interesse settoriale; intervento della “mano pubblica”, sia diretto sia indiretto. Pensiamo ad una possibile convergenza tra il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (Mibac) ed il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, anche attraverso un opportuno intervento normativo (ci si domanda perché non ci abbia pensato l’ex Ministro Dario Franceschini, nella sua riforma della “legge cinema” di fine 2016…); pensiamo ad una possibile indagine conoscitiva promossa dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcom) d’intesa con l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom), dato che sono evidenti criticità nella filiera e distorsioni dei processi di concorrenza e libero mercato.
È opportuno qui segnalare che verranno presto resi di pubblico dominio i risultati di una prima (finora mai realizzata in Italia) ricerca, realizzata dall’Istituto italiano per l’Industria Culturale (IsICult) d’intesa con l’Aidac e sostenuta dalla Siae (Società Italiana Autori Editori). Lo studio, fortemente voluto dal compianto Mario Paolinelli (uno dei più attivi promotori di una cultura del doppiaggio in Italia, già Vice Presidente Aidac), si intitola “L’industria del doppiaggio in Italia. Economico e semiotico nel sistema cinematografico-audiovisivo italiano. Lo scenario attuale, le prospettive e l’ipotesi internazionalizzazione”, e, per la prima volta nel nostro Paese, affronta l’economia (materiale ed immateriale) del settore in un’ottica organica. La presentazione della ricerca IsICult-Aidac-Siae potrà essere l’occasione per una riflessione strategica sulle criticità e potenzialità del settore.
L’assemblea dei doppiatori italiani di ieri si pone comunque quasi a mo’ di emblematico “caso di studio” di quel che sta accadendo nelle industrie culturali italiane: un continuo spiazzamento di ruoli e posizioni, un indebolimento progressivo del potere dei lavoratori, un lento e inesorabile processo di complessiva pauperizzazione.
Si affievolisce l’orgoglio identitario del lavoratore (dinamica ancor più grave nel settore della creatività), si diventa sempre più poveri (alcune professioni creative erano un tempo privilegiate anche redditualmente, mentre ora un giornalista italiano – per esempio – finisce per essere pagato come una badante), il sindacato arranca (difendendo con difficoltà “l’esistente” e non guardando sufficientemente al futuro).
Riteniamo che, in questo scenario problematico, possa e debba essere lo Stato ad assumere un ruolo di “correttore” dei “deficit del mercato”: è una partita che va ben oltre il caso specifico, e riguarda le conseguenze della rivoluzione digitale nel complessivo sistema socio-economico. Il rischio di una deriva mercatista è evidente. In qualche modo, si deve contrastare la sempre latente degenerazione del capitalismo digitale, che scardina i fondamenti della comunità sociale subordinandola al dominio delle merci.