Giornate affollate di impegni, per gli operatori del settore culturale e mediale italiano, e per chi cerca di monitorare con attenzione la “scena” (magari scavando “dietro le quinte”, come si cerca di fare con questa rubrica su Key4biz): la notizia del giorno è senza dubbio rappresentata dalla presentazione a Milano, questa mattina alla Triennale, della seconda edizione dello studio promosso dalla Società Italiana Autori e Editori (Siae), affidato nuovamente alla multinazionale della consulenza E&Y (già Ernst & Young).
Lo studio propone nuove stime relative alle dimensioni economiche del settore, ed aggiorna i dati presentati nel gennaio dell’anno scorso, in occasione della prima edizione (ne abbiamo scritto su queste colonne il 14 gennaio 2016: Un altro studio sull’industria culturale italiana: ma dov’è il quadro completo?): secondo E&Y l’industria culturale nazionale “vale” 48 miliardi di euro, contribuirebbe per il 3% al prodotto interno lordo, e registrerebbe un incremento del 2,4% rispetto al 2015. In sostanza, sarebbe il terzo settore “industriale” del Paese e crescerebbe con tassi maggiori del Pil. Si tratterebbe del terzo settore in Italia per occupazione, con 880mila occupati diretti (+ 1,7% sul 2014), che salgono a oltre 1 milione se si considerano gli “indiretti”. Un settore che potrebbe generare risultati maggiori – viene stimato un “valore potenziale” di 72 miliardi di euro – se riuscisse a sfruttare meglio le opportunità di crescita, ed a contrastare le minacce come il “value gap” (ovvero la necessità di un “giusto compenso” per chi crea contenuti: vedi alla voce “sfruttamento” delle opere da parte degli “over-the-top”) e la “pirateria” (che continua ad essere una piaga, economica e socio-culturale, e viene stimata tra i 5 e gli 8 miliardi di euro di valore).
Lo studio è un’iniziativa anzitutto di Siae, con la benedizione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (Mibact), ma registra ormai l’adesione – e la partecipazione – di molte associazioni rappresentative del settore. L’elenco è lungo (ben 26 soggetti), ma merita essere riportato, anche perché i co-promotori della ricerca – ovvero i presidenti o rappresentanti delle tante associazioni – hanno indirizzato una “lettera aperta” al Presidente del Consiglio, al Governo italiano, ai parlamentari italiani, ai Parlamentari italiani in Europa, invitandoli ad intraprendere iniziative per stimolare una crescita più organica del sistema culturale nazionale: per Aesvi (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani) Paolo Chisari, per Afi (Associazione Fonografici Italiani), Cristiano Minellono, per Agis (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) Carlo Fontana, per Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinema) Luigi Cuciniello, per Anem (Associazione Nazionale Editori Musicali) Toni Verona, per un’altra omonima Anem (Associazione Nazionale Esercenti Multiplex) Carlo Bernaschi, per Anica (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Multimediali) Francesco Rutelli, per Apt (Associazione Produttori Televisivi) Marco Follini, per Assomusica (Associazione Italiana Organizzatori e Produttori Spettacoli di Musica dal vivo) Vincenzo Spera, per Cci (Confindustria Cultura Italia) Marco Polillo, per Confcultura (Associazione imprese private per la valorizzazione del Cultural Heritage) Patrizia Asproni, per Ccrt (Confindustria Radio Televisioni) Francesco Angelo Siddi, per Dismamusica (Distribuzione Industria Strumenti Musicali e Accessori) Antonio Monzino, per Fapav (Federazione per la Tutela dei Contenuti Audiovisivi e Multimediali), Federico Bagnoli Rossi, per Federculture (Federazione Servizi Pubblici, Cultura, Turismo, Sport, Tempo Libero) Andrea Cancellato, per Fem (Federazione Editori Musicali) Roberto Razzini, per Fieg (Federazione Italiana Editori Giornali) Maurizio Costa, per Fimi (Federazione Industria Musicale Italiana) Enzo Mazza, per Fpm (Federazione contro la Pirateria Musicale e Multimediale) nuovamente Enzo Mazza, per Nuovo Imaie (Nuovo Istituto Mutualistico per la tutela dei diritti degli Artisti Interpreti Esecutori) Andrea Miccichè, per Pmi (Produttori Musicali Indipendenti) Mario Limongelli, per Siae (Società Italiana degli Autori ed Editori) Filippo Sugar, per Univideo (Unione Italiana Editoria Audiovisiva Media Digitali e Online), Lorenzo Ferrari Ardicini.
Come si può osservare, è rappresentata la quasi totalità delle associazioni che incarnano l’anima “economica” del settore, mentre – a parte Siae (che rappresenta sia editori sia autori) e Nuovo Imaie (che rappresenta artisti e interpreti e esecutori) – l’anima “artistica” del settore non è stata coinvolta: pensiamo alle non poche associazioni di autori cinematografici, alle associazioni di teatranti, di musici ed altri artisti, di scrittori e giornalisti, senza dimenticare le sigle sindacali…
D’altronde, si tratta di uno studio centrato sulla struttura economica del settore, e sarebbe forse eccessivo attendersi una sensibilità così plurale. Eppure, crediamo che quello sì rappresenterebbe un “valore aggiunto”, di contributo critico e di confronto dialettico, a fronte di questa iniziativa che giunge al secondo anno (con un “packaging” editorial-grafico di indubbia ricchezza: qui il link al sito dedicato), ma che, nella sostanza, non propone una lettura realmente innovativa, dato che, da tempo, esistono in Italia ricerche sostanzialmente simili: basti citare – per richiamare soltanto i due più noti – il “Rapporto Annuale” promosso da Federculture (che pure, da quest’anno è tra i partner dell’iniziativa promossa da Siae), giunto ormai alla 12ª edizione, così come il rapporto “Io sono cultura” promosso da Symbola (Fondazione per le Qualità Italiane), giunto nel 2016 alla 6ª edizione.
Perché abbiamo utilizzato il “condizionale”, nel riportare i dati proposti oggi da Siae?!
Perché numerose sono le obiezioni metodologiche che stimolano ricerche come quella di E&Y e di Symbola, e non a caso le stime sono discordanti, a partire dalle diverse modulazioni della “perimetrazione”.
Oggi E&Y sostiene che l’industria culturale italiana varrebbe 48 miliardi di euro, contribuirebbe per il 3% al prodotto interno lordo, impiegherebbe 880mila occupati diretti che salirebbero ad oltre 1 milione considerando gli “indiretti”…
Qualche mese fa, Symbola scriveva che il “sistema produttivo culturale e creativo” italiano (includendovi le industrie culturali, le industrie creative, il patrimonio storico artistico, “performing arts” e arti visive, produzioni “creative-driven”) produrrebbe una ricchezza di 90 miliardi di euro, ma, giocando con i “moltiplicatori” (1,8), determinerebbe un impatto complessivo sull’economia nazionale di ben 250 miliardi, considerando appunto l’intera “filiera culturale”, ovvero il 17 % del valore aggiunto nazionale (col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano); e, sempre secondo Symbola, darebbe lavoro a 1,5 milioni di persone, il 6 % del totale degli occupati in Italia…
Numeri importanti, dati significativi, iniziative di conoscenza comunque commendevoli, ma non vogliamo qui affondare nelle sabbie mobili della “numerologia” talvolta approssimativa ovvero delle criticità metodologiche, e, finanche, di una certa vocazione a produrre “effetti speciali” (alla ricerca esasperata della “notiziabilità”, in stile “size does matter”!) che sembra caratterizzare, almeno in parte, questi studi (che raramente si avvalgono del supporto dell’accademia, e ciò ne indebolisce in parte l’affidabilità, e che ben poca attenzione dedicano agli aspetti estetico-qualitativo-semantici del sistema).
Crediamo che “l’economia della cultura” sia stata, pur tardivamente, “sdoganata” in Italia, e che ormai anche i governi abbiano piena coscienza della sua importanza strutturale: è però necessario un “salto di qualità”, per comprendere che la funzione essenziale e primaria della cultura è di stimolare lo sviluppo sociale, la coesione, l’inclusione, ovvero quegli stessi valori fondanti la comunità (e la democrazia), riconosciuti nella nostra Costituzione.
L’approccio economico è senza dubbio importante, ma non può e non deve essere esclusivo (o comunque prevalente), altrimenti è sempre latente il rischio di deriva economicista: dovrebbe essere la variabile “sociale”, e non quella “economica”, a determinare le scelte pubbliche e le strategie di governo.
Accantoniamo i “numeri”, e veniamo alle “parole”: ieri lunedì 23 gennaio, il palcoscenico romano si è caratterizzato per tre iniziative “mediologiche”, una semi-clandestina di gran livello qualitativo (promossa da Associazione Stampa Romana), e due in ambito assolutamente istituzionale (Camera dei Deputati e Rai).
Si è trattato di tre convegni, i primi due paradossalmente caratterizzatisi per lo stesso titolo (in parte), ovvero “CambieRai”, giocando con il nome della controversa consultazione pubblica promossa mesi fa dal Ministero dello Sviluppo Economico sul futuro del “public service broadcaster”, consultazione tanto decantata che doveva essere prodromica ad una “convenzione” sulla cui tempistica è ormai facile scherzare (amaramente) à la “Aspettando Godot”, il terzo concentrato (come il secondo) sull’immagine del “femminile” nei media o comunque sul ruolo delle donne nella società alla luce dei movimenti femministi.
Il primo è stato intitolato “CambieRai? Il servizio pubblico tra riforma e rinnovo della concessione”, promosso dall’Asr. Sede: il Piccolo Auditorium “Aldo Moro” del Centro di Documentazione e Studi dell’Anci.
Il secondo è stato intitolato “CambieRai per non cambiare mai? Donne vere in tv”, promosso dalle associazioni DonneInQuota e Rete per la Parità. Sede: la Sala “Aldo Moro” della Camera dei Deputati.
Il terzo si è posto come “public talk” (di grazia, trattasi di… dibattito, perché tutta questa anglofilia linguistica?), intitolato “Le donne dopo il femminismo. Il potere responsabile”, in occasione della presentazione dell’ultima edizione (il n. 75) della rivista “Aspeniana” (edita dall’omonimo “think tank” e lobby Aspen Institute). Sede: il Salone degli Arazzi di Viale Mazzini.
Il monitoraggio delle tre iniziative ha provocato una sensazione di complessivo sconforto.
L’iniziativa promossa da Associazione Stampa Romana ha proposto interventi molto critici di studiosi eccellenti come Michele Mezza (tra l’altro curatore della rubrica “Breaking Digital” su queste colonne), Renato Parascandolo, Marco Mele, Sergio Bellucci, ma sembrava veramente di assistere ad uno stimolante laboratorio intellettuale lontano anni-luce dal “governo” reale del sistema mediale, dato che le loro analisi lungimiranti sembrano essere totalmente ignorate da “decision maker” come il Sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli. Volendo giocare con le citazioni, veramente… “mondi a parte”. Purtroppo.
E che dire delle altre due iniziative?! Un gruppo qualificato di appassionate attiviste, che hanno sì prodotto un dibattito interessante ospitato in consessi istituzionali, ma senza provocare quello “scontro dialettico” che pure sarebbe stato necessario.
È infatti incontrovertibile che le “donne”, ovvero l’“immagine femminile” è oggetto in Italia di continuo maltrattamento mediatico, ma non ci sembra che né Agcom né Rai (né altri soggetti “istituzionali”) intervengano con la “potenza di fuoco” che pure potrebbero mettere in campo.
Se ne è avuto conferma, alla Camera, dalla presentazione, da parte di Monia Azzalini dell’Osservatorio di Pavia, dei risultati di un monitoraggio sulla presenza femminile, analizzata a livello comparativo europeo. Risultati non confortanti confermati anche dal Vice Direttore Marketing della Rai, Giovanni Scatassa: il monitoraggio (anno 2015) della rappresentazione della figura femminile sui canali più rappresentativi rivela che, su 1.466 personaggi presenti nelle fiction, il 44% sono donne, mentre nei programmi non di fiction – con circa 16mila personaggi – la percentuale femminile scende al 32%, e si noti che i valori maggiormente rappresentati dalle donne nelle fiction sono quelli di “bellezza”, “amore”, “solidarietà” e “famiglia”. Nei programmi Rai monitorati, inoltre, il tema delle “pari opportunità” viene trattato soltanto nel 12% delle trasmissioni, quello della “disuguaglianza di genere” nel 6%, gli “stereotipi di genere” intorno al 16%… (dati da prendere sempre con grande prudenza metodologica, anche in questo caso).
Qualcosa fanno, quindi, “le istituzioni” – sarebbe scorretto disconoscerlo – ma poco, ancora poco, troppo poco.
Citiamo, per tutte, la battaglia condotta – con il supporto attivo di “Key4biz” – da Gabriella Cims, promotrice dell’“Appello Donne e Media” (intervenuta anche lei nel convegno alla Camera), che è riuscito a far sì che alcune regole a favore del miglioramento dell’immagine femminile venissero innestate nel “contratto di servizio” tra Stato e Rai in vigore dal giugno 2011 (e, di fatto, ancora oggi in vigore, sebbene scaduto formalmente ormai da anni). Ma questi impegni son stati sostanzialmente ignorati da Viale Mazzini, come ha denunciato la stessa Cims (vedi “PubblicaRai, Cims: Rai ha disatteso il contratto di servizio”, su “Key4biz” del 24 giugno 2016).
Ciò basti, per comprendere la inquietante distanza tra istituzioni e società civile nel nostro Paese.
Ciò al di là degli erratici tentativi dei grillini, che, quando entrano nelle “istituzioni”, sembrano soffrire di un assoluto deficit di esperienza e raramente riescono a determinare risultati concreti: si veda, per tutte, la debolezza dei risultati dell’operato pur appassionato del Presidente della Commissione Parlamentare di Vigilanza sulla Rai, Roberto Fico. I suoi appelli a Governo e Rai affinché firmassero il nuovo “contratto di servizio” hanno avuto l’effetto di un buco nell’acqua (si veda “Key4biz” del 9 gennaio 2015, “Il mistero del ‘contratto di servizio’ che Mise e Rai ‘si rifiutano di firmare’ (Fico dixit)”), e la televisione di Stato italica è ancora sottoposta agli… umori dell’Esecutivo, e se ne ha deprimente riprova osservando la scandalosa vicenda della “convenzione” tante volte rimandata.
Infine, ieri, in questi consessi convegnistici, qualcuno dedicava curiosa attenzione ad una questione che sembra ignorata dai più, se non dai quotidiani “la Repubblica” ed “il Fatto Quotidiano”, che le hanno attribuito importanza finanche in prima pagina: domani mattina (mercoledì) l’Aula di Palazzo Madama, alle ore 9.30, vede calendarizzata l’elezione di un Commissario dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, dopo la prematura morte del compianto Antonio Preto avvenuta ad inizio novembre 2016.
Nessun dibattito pubblico su questa elezione, che – importante o meno nell’agenda della politica – è oggettivamente questione delicata, perché rilevante negli equilibri del Consiglio che gestisce l’authority su media e tlc nel nostro Paese. La fase è senza dubbio di grande turbolenza: basti pensare alla vicenda Mediaset-Vivendi, che ha ricadute importanti per l’economia e la politica nazionale, ben oltre il “perimetro” specificamente mediale. Ma si pensi anche a quelle tematiche fin qui evocate: il trattamento mediatico di genere (femminile in primis, ma si pensi alle tante “minoranze” maltrattate), senza dimenticare il pluralismo informativo e politico (vedi alla voce “referendum”, eccetera).
Da inizio novembre a sabato scorso (quando “la Repubblica” ha sparato la notizia in prima pagina), nessuno sembra essersi interessato alla questione. Noi rivendichiamo di averla ben segnalata, vedi “Key4biz” del 18 novembre 2016, “Agcom e par condicio: in Consiglio una frattura che viene da lontano”. Da sabato, rimbalzano quindi su giornali e su web (ma comunque con poca attenzione), e negli ambienti di Palazzo (e dintorni), i nomi di candidati di varia esperienza, e – come suol dirsi – si gioca al “totonomine”, disponendo peraltro di ben poche informazioni sui presunti candidati.
L’assoluta totale assenza di pubblico dibattito intorno a questa nomina conferma, ancora una volta, il deficit di logica di trasparenza ed il rinnovo di procedure tipiche della (peggiore) vecchia politica. Eppure, dal 4 novembre 2016 (l’indomani dalla morte di Preto) al 25 gennaio 2017, il calendario conta ben 83 giorni: un lasso temporale più che sufficiente – volendo – per promuovere un pubblico dibattito su una elezione che appare delicata e strategica.
Molti sembrano peraltro dimenticare che nel novembre del 2013 la Camera dei Deputati dovette affrontare un’elezione simile (una sostituzione, ovvero una surroga): dopo le dimissioni di Maurizio Dècina per ragioni personali (avvenute ad inizio 4 settembre), si preparò il terreno per l’elezione parlamentare del Commissario Agcom, che portò alla nomina di Antonio Nicita. Il dibattito pubblico fu ampio (con forti tensioni interne al Pd, peraltro), ma qui vogliamo ricordare che in quell’occasione la Presidente della Camera Laura Boldrini aveva comunque lanciato un appello perché tutti gli interessati presentassero la propria candidatura al Parlamento, e pervennero 54 curricula.
A questo punto, una domanda naturale sorge spontanea, alla luce delle esperienze pur problematiche ed erratiche finora maturate: trattandosi di un’elezione sostanzialmente simile a quella che la Camera ha dovuto affrontare dopo le dimissioni di Dècina, non ritiene il Presidente del Senato Pietro Grasso che si debba seguire un criterio minimamente trasparente e magari di pur minima valutazione comparativa, come quello a suo tempo avviato dalla sua collega Laura Boldrini?!
Senza dubbio il processo di invito alle candidature (presupposto necessario eppur non sufficiente) può divenire la “foglia di fico” di decisioni comunque assunte con criteri non meritocratici, ma – di grazia! – almeno stimola un minimo di dibattito pubblico.
In verità, il sistema corretto c’è, e sarebbe finanche semplice (volendo), e non dobbiamo certo insegnarlo noi al Presidente del Senato della Repubblica: avviare una trasparente procedura pubblica, con tempistiche ragionevoli, con definizione precisa dei pre-requisiti previsti dalla legge, raccogliere i curricula, prevedere un’audizione di fronte alle Camere, in occasione della quale i candidati siano tenuti ad esporre la propria vicenda professionale, e siano finanche sottoposti ad un fuoco di fila di domande, per accertare preparazione ed indipendenza. E poi che il Parlamento elegga, finalmente con cognizione di causa ed in libera coscienza.
Sia ben chiaro: una simile procedura “concorsuale” non è, ahinoi, un obbligo di legge, ma – riteniamo – rappresenterebbe un’importante opportunità di crescita per la democrazia.
Se invece si pensa, in nome della più dura “realpolitik”, che la nomina dei componenti di un’autorità “indipendente” debba essere il risultato della composizione di alchimie partitocratiche (con buona pace dell’autonomia), e che sia quindi del tutto “naturale” che i Commissari dell’Agcom siano lottizzati (fino all’ultimo grammo) in base a logiche di fiducia politica (e che i curricula vadano ignorati), abbiamo piena coscienza che il nostro auspicio sia del tutto vano.