Key4biz

ilprincipenudo. Cresce la spesa in spettacoli, ma una famiglia su tre non spende nulla in cultura

Angelo Zaccone Teodosi

L’appuntamento annuale con il “Rapporto” proposto da Federculture è giunto alla sua 13ª edizione, ed ancora una volta si pone come utile strumento di conoscenza, pur sempre nei limiti della debolezza strutturale degli studi di economia e politica della cultura in Italia (avviati da noi con grande ritardo, rispetto a più evoluti Paesi europei come Francia e Regno Unito).

Questa mattina, nella sala cinema del Palaexpo di Roma, la presentazione del libro “Impresa cultura. Gestione – Innovazione – Sostenibilità”, pubblicato per i tipi di Gangemi Editore (344 pagine, 24 euro) è stata benedetta dal Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini, di fronte ad una platea di operatori del settore (da osservare l’età media dell’uditorio, con pochissimi “under 30”). Da segnalare che l’edizione 2016 del “Rapporto” aveva registrato l’assenza del Ministro (vedi “Key4biz” del 20 ottobre 2016: “Rapporto Federculture: trend positivo, ma troppo entusiasmo”).

L’atmosfera complessiva della kermesse è stata caratterizzata da serenità e ottimismo, con assai pochi cenni critici alle condizioni del sistema culturale nazionale: dati ne son stati sciorinati in quantità, e – come quasi sempre accade – nessuno (o quasi nessuno) si prende la briga di verificare la qualità degli stessi, l’accuratezza metodologica sottostante. Da ricercatori, riteniamo di poter sostenere che i colleghi di Federculture fanno del loro meglio, “nei limiti” succitati: offrono un “dataset” di indubbia utilità, in particolare grazie alle 34 pagine del capitolo finale del tomo, intitolato “Dati e analisi sulle dinamiche del settore cultura-turismo 2015-2016”, curato da Nicla Pace (Ufficio Studi Federculture).

Il rapporto di Federculture appare più strutturato e solido – metodologicamente – rispetto al rapporto “Io sono cultura” di Symbola, la Fondazione per le Qualità Italiane, presieduta da Ermete Realacci (a fine giugno è stata presentata l’edizione 2017, la settima: vedi “Key4biz” del 30 giugno 2017, “Ma l’industria culturale italiana sta davvero così bene?”), ed è ormai una delle “fonti di dati” di riferimento per chi opera nel settore culturale; più recente lo studio “Italia Creativa” promosso dalla Siae – Società Italiana Autori Editori, affidato ad EY (Ernst&Young), giunto alla seconda edizione (presentata a fine gennaio 2017); da ricordare anche l’“Entertainment & Media Outlook in Italy” di Pwc PricewaterhouseCoopers (giunto qualche settimana fa alla ottava edizione), anche se quest’ultimo di approccio soltanto economicista.

In ogni caso, prevale ancora – nell’economia politica della cultura in Italia – incertezza di dati, a fronte di fonti non validate e di metodologie erratiche. Lo stesso Mibact, purtroppo, su questo tace (quando forse dovrebbe essere il validatore definitivo): basti pensare che fine ha fatto l’utile fascicoletto ministeriale “Minicifre della cultura”, la cui ultima edizione annuale (la sesta) è ferma al 2014: non si comprende perché l’Ufficio Studi del Ministero abbia sospeso questa raccolta di dati, e – più in generale – perché si presti poca attenzione al “sistema informativo” del dicastero, e ci si debba affidare a soggetti esterni e non istituzionali (da Federculture a Symbola). Misteri del nostro strano Paese. Indimenticata resta la memoria del “Rapporto sulla creatività e produzione di cultura in Italia”, affidato dal Mibact ad una commissione di studio coordinata dal compianto Walter Santagata: correva l’anno 2007…

Il resto del “Rapporto Annuale” di Federculture, come in passato, propone decine di analisi, da variegati punti di vista, ma riteniamo manchi ancora una lettura organica e sintetica, caratterizzata da un approccio critico. Eppure quest’anno, per la prima volta, il “Rapporto Annuale” si avvale anche di un “Comitato Scientifico”, formato da quattro qualificati esperti: Claudio Bocci (curatore primario del Rapporto, Direttore di Federculture), Annalisa Cicerchia, Pierpaolo Forte, Michele Trimarchi. Nessun esperto di “media” tra loro, e già questo deficit evidenzia una dei problemi dell’approccio di Federculture, che è anche – mutatis mutandis – una delle criticità principali delle “politiche culturali” italiane: esse sono sganciate dalle “politiche mediali”, come se “cultura” e “media” fossero mondi a parte; non esiste né una strategia né una cabina di regia.

Nelle stesse parole del Ministro Franceschini, che ha chiuso i lavori con un discreto autocompiacimento, nessun cenno alla Rai, alla funzione fondamentale che il servizio radiotelevisivo pubblico potrebbe (dovrebbe) svolgere per la stimolazione complessiva del sistema culturale nazionale, a partire da quella alfabetizzazione digitale che evidenzia in Italia ritardi semplicemente inquietanti (basti ricordare che un 40 % della popolazione non utilizza ancora internet!).

I dati: i numeri appaiono complessivamente positivi, prendendo in considerazione alcuni indicatori, come la “spesa in cultura” delle famiglie, che nell’ultimo triennio è salita del 7 % (3 punti percentuali oltre la spesa generale in consumi), oppure la fruizione del patrimonio culturale (così inteso come musei, monumenti, aree archeologiche), che, sempre nel triennio, è salita del 22 %.

Comunque, la stessa Federculture, letture positive a parte, onestamente non nasconde i dati negativi: “non tutto nel settore va bene, le note positive non devono far dimenticare le criticità che tuttora permangono. Un dato su tutti: la lettura nel nostro Paese è ancora abitudine di pochi, solo il 40,5 % degli italiani legge almeno un libro l’anno e appena l’8,3 % lo fa in formato e-book. Un dato che è costantemente in calo da diversi anni: i lettori erano il 46,8 % nel 2010. E, inoltre, dati alla mano, si può parlare, per alcune fasce di popolazione, di ‘esclusione culturale’. Gli italiani che in un anno non svolgono alcuna attività di tipo culturale sono il 37,4 %, ma questa percentuale nelle famiglie a basso reddito raggiunge e supera il 50 %”.

Inquietante.

Il Presidente di Federculture, Andrea Cancellato (Direttore Generale della Triennale di Milano dal 2002), ha segnalato alcune tensioni in atto, ed ha evocato addirittura il rischio di una “guerra generazionale”:

Oggi siamo tutti più consapevoli che se da un lato la cultura, il patrimonio storico-artistico, le attività culturali, i festival, sono un asset importante per l’economia italiana, la cultura è anche un motore dei processi di integrazione fra la popolazione del nostro Paese. ‘Ius soli’ o no, non possiamo non considerare che l’Italia è abitata da milioni di persone con le quali dobbiamo dialogare e dobbiamo costruire una comunità più solida e sicura; nelle nostre città vediamo che in molti casi la ‘periferia’ è in ‘centro’, i processi di cambiamento dell’economia, dell’uso e dello sfruttamento di suolo e di edifici, ci lasciano territori percorsi da tensioni e problemi nuovi che vogliono politiche diverse rispetto a quelle tradizionali; l’invecchiamento della popolazione italiana, l’analfabetismo di ritorno, la maggiore ricchezza trattenuta dagli anziani, con i corrispondenti e contrapposti problemi dei giovani tra lavoro precario, famiglie difficili da costruire, istruzione e formazione spesso inadeguate, sono premesse di una ‘guerra generazionale’ che potrebbe iniziare in qualunque momento. La cultura e la forza della bellezza possono essere non solo strumento di integrazione sociale, ma un fattore determinante per la qualità della nostra società, delle nostre città, del nostro Paese”.

L’intervento del Ministro Dario Franceschini si è posto come ennesima sintesi dei quasi quattro anni di propria attività (è in carica dal febbraio 2014), a partire dall’autoironia sull’“anomalia”, per l’Italia, di un titolare di dicastero che è restato in sella per così tanto tempo… Il Ministro ha riproposto dati e tesi già noti: senza dubbio, il Governo guidato da Matteo Renzi (e così il successore Paolo Gentiloni) ha allargato i cordoni della borsa (la mano pubblica è stata più generosa, a partire dal bilancio del Mibact stesso, per arrivare all’incremento dei contributi pubblici al cinema), ha stimolato l’approvazione di nuove leggi (quella sul cinema e sull’audiovisivo, e quella sullo spettacolo dal vivo, che è in questi giorni in dirittura d’arrivo), ha impresso certamente un “new deal”, caratterizzato da risorse significative e da innovazioni neo-liberiste (anzitutto, da una grande apertura ideologica al connubio “pubblico + privato”). Questo “policy making” generoso è indubbio, e – dopo decenni di “vacche magre” – deve essere riconosciuto ed apprezzato.

Franceschini si è riferito a Federculture come una… “minoranza profetica” (!): in effetti, da molti anni la Federazione auspica processi di modernizzazione ed innovazione nel sistema culturale italiano, a partire dalla sempre auspicata “sinergia” – giustappunto – tra “pubblico e privato”. Peraltro, Federculture è un soggetto piuttosto anomalo, nel panorama dell’associazionismo imprenditoriale italiano: si pone come Federazione delle Aziende e degli Enti di gestione di cultura, turismo, sport e tempo libero. Nasce nel 1997 con 13 soci fondatori, ma attualmente l’associazione rappresenta 140 associati: molte tra le più importanti aziende culturali del Paese (inclusa Rai), insieme a Regioni, Province, Comuni, e soggetti pubblici e privati impegnati nella gestione dei servizi legati alla cultura, al turismo ed al tempo libero. Federculture stessa è un’incarnazione del connubio “pubblico + privato”. Animata per molti anni dall’iperattivo Roberto Grossi (con piglio protagonistico che è stato talvolta oggetto di critiche per il rischio di autoreferenzialità), Federculture dal 2015 è diretta da Claudio Bocci (apprezzato organizzatore e studioso di politica culturale, dapprima Responsabile Sviluppo e Rapporti Istituzionali dell’associazione).

Il Ministro Franceschini ritiene che i provvedimenti che ha messo in atto possano ritenersi “irreversibili”, in quanto frutto di un modificato paradigma dell’intervento pubblico nel sistema culturale:

Siamo verso la fine della legislatura, quindi per me è anche il momento di tracciare un mandato: un risultato di cui sono abbastanza certo, e dunque orgoglioso è la non reversibilità delle cose che abbiamo fatto. Si tratta di provvedimenti approvati sempre da una maggioranza più larga di quella del governo. Merce rara, che mi fa pensare come queste cose non vengano messe in discussione, non solo i singoli provvedimenti, ma la riconquistata centralità della cultura. Abbiamo rotto un tabù, e siamo riusciti a spiegare che investire in cultura non è solo giusto perché fa sentire bene le persone e perché è un adempimento costituzionale, ma un modo intelligente per fare crescere il Paese e la sua economia. C’è ancora moltissimo da fare: le riforme richiedono tempo per sedimentarsi, e il patrimonio chiederà sempre più risorse, ma mi pare che siamo arrivati a buon punto e vorrei che insieme consolidassimo anche il futuro”.

Il Presidente della confindustriale Agis – che opera ormai in sintonia con Federculture – ha auspicato che non si torni indietro: Carlo Fontana ha sostenuto: “ci avviamo a una nuova tornata elettorale. Speriamo di non rivedere un film già visto, un ritorno al passato”. Fontana ha parlato delle novità introdotte in questi anni per il settore culturale, tra cui l’“Art Bonus” ed il “Tax Credit. “La preoccupazione oggi è che tutti noi dobbiamo sperare che questi principi affermati nelle leggi siano definitivi, che siano entrati dentro la classe politica e non più messi in discussione. Dobbiamo mettere al riparo queste innovazioni, accantonando le piccole o grandi diversità. Dobbiamo cercare di dare vita a una grande confederazione delle imprese culturali italiane, per valorizzare e consolidare i risultati di questi ultimi anni. Solo nell’unità associativa, solo come interlocutori coesi e rappresentativi potremo diventare un soggetto forte e credibile per affermare scelte che sono non solo per l’interesse del settore, ma del Paese”. Pochi ricordano che un tentativo di “unità associativa” fu messo in atto anni fa da Confindustria Cultura (che vedeva lobby come Agis ed Anica – tra le altre – affiancate), ma effettivamente in quella “lobby delle lobby” non erano ammessi gli operatori del settore pubblico…

I detrattori del Ministro Franceschini e delle sue politiche piuttosto liberiste – tra tutti prevale indubbiamente Tomaso Montanari (storico dell’arte e studioso di politica culturale, che si è recentemente gettato nell’agone politico, fondando l’Alleanza Popolare per la Democrazia e l’Eguaglianza, che vorrebbe aggregare le forze a sinistra del Pd) – sostengono che egli abbia troppo abdicato alle “ragioni del Mercato”, e che alcune leggi che ha voluto siano state impostate sotto “dettatura” delle lobby più forti (Anica ed Apt nel settore audiovisivo, Agis nello spettacolo dal vivo), a nocumento dei piccoli imprenditori, degli indipendenti, degli artisti non organici al sistema… Questa mattina, comunque, nelle parole del Presidente di Federculture Andrea Cancellato s’è registrata una critica – moderata ma netta – rispetto ad una delle leggi in avanzato stato di gestazione, quella sulle imprese culturali e creative (è stata approvata il 26 settembre 2017 alla Camera in prima lettura), voluta dalla giovane (classe 1987) deputata Anna Ascani, Responsabile Cultura del Partito Democratico…

Dato che nessuno – come andiamo denunciando da anni, anche su queste colonne (vedi la prima edizione di questa rubrica “ilprincipenudo”: “L’economia della cultura e l’incertezza dei suoi numeri”, su “Key4biz” del 4 luglio 2014) – si è preso e si prende la briga di mettere in atto processi di verifica dei risultati e di valutazione d’impatto delle politiche pubbliche, è difficile comprendere qual è la vera verità.

Il rischio di “numeri in libertà” e quindi di… “fake news” è sempre in agguato.

Ed è sempre latente il rischio del “tutto va bene madama la marchesa” (soprattutto quando lo Stato diviene generoso), e… nel mentre la casa va a fuoco: i dati relativi al calo di lettori di libri e di giornali, le dimensioni del “digital divide” e dell’“esclusione culturale” e dell’“analfabetismo digitale” sono oggettivamente indicatori di patologie striscianti, i cui possibili effetti carsici sono preoccupanti. Anche per la democrazia: si pensi al crescente fenomeno dell’astensionismo, che è processo anzitutto culturale, prima che politico.

Conclusivamente, quel che riteniamo sia ancora deficitario (molto deficitario) è rappresentato da due fattori critici:

(1.) la debole capacità di valutazione dell’impatto di queste nuove generose politiche pubbliche: basti pensare che non esiste un “bilancio sociale” del Mibact, così come la Rai sembra aver dimenticato l’esperimento avanguardistico messo in atto a fine mandato dalla ex Presidente Anna Maria Tarantola;

(2.) la debole capacità di strategia organica di sistema, a partire dalla interazione “cultura + media” per arrivare alla ancora carente valutazione della dimensione sociale (inclusiva) dell’azione culturale dello Stato, al di là dell’importanza economica delle attività culturali (ormai troppo enfatizzata).

In sintesi: in questi anni, Dario Franceschini ha indubbiamente il merito di aver incrementato il “bilancio culturale” dello Stato italiano (anche se restiamo ancora ben lontani dall’eccellenza francese), ma non ha dedicato particolare attenzione alla previsione e valutazione delle conseguenze di questo rinnovato energico robusto impegno.

La nuova legge sul cinema e sull’audiovisivo è sintomatica ed emblematica: arriveranno molti danari pubblici a sostegno del settore, ma questi interventi contribuiranno realmente all’estensione del pluralismo espressivo e della pluralità imprenditoriale, ed all’arricchimento dell’offerta ed alla stimolazione di consumi plurali (che debbono essere gli obiettivi primari dell’azione della mano pubblica)?! Per capirci: non serve a molto produrre “più film”, se queste opere non hanno chance di essere distribuite in sala (a causa delle strozzature oligopolistiche del mercato della distribuzione cinematografica “theatrical”) e trasmesse in televisione (a causa della debole sensibilità delle emittenti rispetto ad opere “difficili”).

Quel che sembra mancare è una volontà di analisi (autocritica) del proprio operato come “policy maker”.

La lezione del “conoscere per governare” di einaudiana memoria resta per lo più inascoltata in Italia, così come l’“evidence-based policy making” rappresenta l’eccezione alla regola.

Non è certo il periodo giusto per avviare questi processi (siamo ormai quasi in campagna elettorale), ma potrebbero essere una delle “promesse” assunte da chi vuole andare al Governo.

Questo cambio di modalità strategica – questo sì – rappresenterebbe una svolta epocale nelle politiche culturali italiane.

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