Pur nella coscienza che il Palazzo (e non si sa quanta parte della società civile) è tutto concentrato sulla campagna referendaria, non si comprende perché una vicenda delicata e strategica qual è il futuro della Rai debba subire ritardi così impressionanti, ed attendere lo snodo del voto del 4 dicembre prossimo: in effetti, ad oggi, 11 novembre 2016, non si ha notizia (pubblica) dello stato di avanzamento dell’iter complesso che porterà alla nuova concessione tra Stato e Radiotelevisione Italiana spa.
La questione peraltro non sembra provocare l’attenzione dei giornali e dei media, mentre continuano a “fare notizia” questioni assolutamente minori – ed oggettivamente di nessuna importanza reale, se non “simbolica” e demagogica – come l’imposizione del “tetto” dei 240.000 euro annui lordi di stipendio ai dirigenti apicali della pubblica amministrazione, e quindi della Rai (la tv pubblica italiana è sempre più a tutti gli effetti “azienda pubblica”, come confermato recentemente dal suo inserimento in un elenco ufficiale Istat).
Campeggia infatti sui quotidiani di giovedì 10 novembre la notizia che il Consiglio di Amministrazione di Viale Mazzini ha adottato mercoledì all’unanimità una delibera che impone anche al Direttore Generale Antonio Campo Dall’Orto quel livello massimo di compensi, e si ricorda che a fine luglio, nella sezione “Trasparenza” del sito web Rai erano stati pubblicati curricula e stipendi dei 94 dipendenti – tra dirigenti e giornalisti – che guadagnano più di 200mila euro l’anno (coloro che superano la soglia dei 240mila sarebbero invece 41).
Il Dg Rai ha ricevuto nel 2015 un compenso lordo di 265.505 euro (è entrato in carica nell’agosto 2015), che nel 2016 son saliti a 650.000 euro, e dovrà ora quindi sopportare una riduzione di quasi due terzi del proprio stipendio (per la precisione, il taglio è del 59%).
D’altronde, qualche mese fa, lo stesso Ministro dell’Interno Angelino Alfano aveva sostenuto chiaramente: “In una grande democrazia come l’Italia, non è possibile che il dg della Rai guadagni sei volte più del premier: se questa dirigenza continua così, sarà quella che a furor di popolo farà privatizzare la Rai” (dichiarazione rilasciata a “Radio Anch’io”).
Come dire?! Poteri dell’alleato del Pd, Area Popolare alias Ncd-Udc, nella compagine governativa…
Questa visione pseudo-francescana della politica sembra miope, dettata da moralismo pauperistico: se è vero che la Rai deve essere in grado di competere sul mercato anche come impresa, è naturale che i compensi dei suoi vertici siano allineati alle condizioni di mercato ed è ovvio che, limitando invece i compensi, divenga meno “appealing” per il top manager esterni; non meno vero è che un direttore generale di una importante azienda pubblica può contribuire, con il proprio operato, al risparmio di decine di milioni di euro o allo sviluppo significativo di fatturato ed utile per cifre ben più alte, ed è francamente ben poco rilevante se il suo stipendio è alto, a fronte di possibili importanti risultati benefici per la collettività.
È di fatto la stessa retorica che caratterizza una parte della campagna referendaria per il “sì”: in verità, la tanto decantata riduzione dei “costi della politica” sembra veramente insignificante, nell’economia complessiva del “sistema Paese”. Si tratta proprio di spiccioli, rispetto ad infinite voci di spesa del bilancio pubblico. Si dedica tanta attenzione alle pagliuzze, quando la trave è altrove. Transeat…
Quel che stupisce è che non soltanto l’attenzione dei media è fiacca, ma anche la società civile sembra subire passivamente i tempi estenuanti della gestazione della nuova “costituzione” (questo è la convenzione) del “public service broadcaster” italiano. Non s’ode più nemmeno la debole voce degli attivisti di PubblicaRai, il comitato di tante associazioni (tra le quali Fnsi, Usigrai, Cittadinanzattiva, Articolo 21, MoveOn Italia, Net Left, Appello Donne e Media, Arci, Federconsumatori e Fish) costituito nel maggio del 2016 per promuovere un dibattivo profondo sul futuro del “psb” italiano.
Fatti salvi alcuni quasi-conciliaboli frequentati da pochi intimi appassionati (il più recente è stato il festival Eurovisioni, ovvero il convegno promosso da Articolo 21, Fondazione Di Vittorio, Eurovisioni, in collaborazione con la Federazione Nazionale della Stampa, Slc-Cgil e Usigrai, iniziativa che pure non sembra aver lasciato traccia di sé a livello di notiziabilità), non ci sembra che nel Paese vi siano movimenti che riescano a suscitare la giusta attenzione rispetto ai futuri possibili della Rai (si ricorda che la nuova convenzione prevede una durata decennale, a fronte dei venti anni di durata della precedente), né occasioni di dibattito ulteriore.
Tutto tace (o quasi), insomma, sia dal Palazzo sia dalla strada…
A distanza di un mese e mezzo rispetto a quel che ci domandavamo su queste colonne (vedi “Key4biz” del 23 settembre 2016, “Convenzione Stato-Rai: che fine ha fatto la bozza del testo?”), ci sembra veramente incredibile che la questione permanga, come scrivevamo allora, “fuori dai radar”.
Dopo la presentazione dei risultati della consultazione “CambieRai” alla Camera dei Deputati il 27 luglio 2016 (vedi “Consultazione Rai: perché i quesiti sono stati malposti?”), si registra in effetti un silenzio assordante da parte del dicastero competente.
In quell’occasione, il Sottosegretario Antonello Giacomelli annunciò: “La nuova concessione non sarà ripetitiva, ci sarà relazione diretta tra risorse e obiettivi”. Si ricorda che, a metà marzo 2016, Giacomelli prevedeva che “a fine maggio” ci sarebbe stata l’analisi degli esiti della consultazione, e che “l’approvazione del Consiglio dei Ministri potrebbe arrivare prima della pausa estiva o alla ripresa, poi avremo bisogno di un periodo di 6 mesi per realizzare lo schema di contratto di servizio”.
L’analisi degli esiti della consultazione è avvenuta con 2 mesi di ritardo rispetto a quelle previsioni (a fine luglio, invece che a fine maggio), ed a metà novembre nessuna traccia della bozza della convenzione, almeno fuori dalle segrete stanze ministeriali ovvero di Palazzo Chigi e Largo Brazzà (la sede del Sottosegretariato alle Comunicazioni).
A questo punto, abbiamo cercato di capire qualcosa, di superare le nebbie, andando direttamente… alla fonte.
Quel che andremo a rivelare ai lettori di “Key4biz” è senza dubbio di fonte riservata, ma certamente affidabile.
La formula rituale che andremo ad utilizzare in premessa è “si apprende da fonti ministeriali”.
Qual è lo stato di avanzamento dell’atto di concessione, ad oggi?!
La segreta bozza è pronta, ma sono in corso plurime riletture e revisioni e quindi riscritture…
Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico, il ritardo nella trasmissione al Consiglio dei Ministri è determinato dall’esigenza di non procedere ad un atto puramente… “tecnico”: quindi “sono in corso approfondimenti”, centrati su due aspetti, “risorse” e “diritti”.
Se queste due sono attualmente le macro-aree di attenzione, si osserva che soltanto una di esse (“le risorse”) coincide con quel che il Sottosegretario Giacomelli annunciava a marzo, se è vero che allora segnalava invece “risorse” e “obiettivi”.
Procediamo per ordine (risorse e diritti):
– “risorse”:
tra pochi giorni, il Ministero (e quindi la Rai) disporrà di proiezioni affidabili, se non di dati finalmente certi, in relazione al gettito da canone in bolletta relativo all’anno 2016; il Mise ha preso atto della dichiarazione di Rossella Orlandi, Direttore dell’Agenzia delle Entrate, che ha dichiarato pubblicamente (lunedì scorso 7 novembre, in occasione dell’audizione di fronte alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato) che l’operazione “sta andando molto bene”, e quindi il dicastero non nutre preoccupazioni in merito (nonostante le ribadite perplessità manifestate in materia dal Sindacato dei Lavoratori della Conoscenza della Slc-Cgil, registrate anche su queste colonne: vedi, da ultimo, “Canone Rai in bolletta: che succede se lo Stato incassa meno del previsto”); soltanto allora, in verità, il Ministero potrà stimare su quante risorse, “a regime”, potrà contare stabilmente la Rai, incrociando anche gli effetti della norma prevista in Stabilità, che dovrebbe fissare a 90 euro l’importo del canone per il 2017. Ci è stato spiegato che “è difficile indicare i nuovi doveri e la mission di servizio pubblico prescindendo dalle risorse”.
Perbacco: è vero, ma subito ci viene da obiettare che i sistemi per garantire alla Rai risorse certe ci sarebbero, magari alternativi rispetto a quelle adottati dal Governo ed approvati dal Parlamento (che, ad una lettura maligna, sembrano essere stati invece improntati dalla volontà di lasciare Viale Mazzini giustappunto in condizioni di continua alea)…
– “diritti”:
nell’idea del Governo, “il servizio pubblico radio-tv è chiamato a trainare tutta l’industria audiovisiva nazionale, rafforzando la sua presenza sui mercati internazionali e favorendo la crescita della produzione indipendente”. Questo tema incrocia “anche il tema dei diritti (durata, distinzione per piattaforme, massima valorizzazione economica, proporzionalità rispetto alla partecipazione finanziaria, eccetera) e delle quote di investimento nella produzione indipendente”.
Come è noto, nella riforma dell’audiovisivo appena approvata (la cosiddetta “nuova legge cinema”, detta anche “legge Franceschini”, ma più propriamente dovrebbe essere denominata giustappunto “legge Franceschini-Giacomelli”: in argomento, si veda “Key4biz” del 24 ottobre, “Tutte le stranezze della quasi-legge sul Cinema”), è prevista una delega al Governo sulla riforma dell’articolo 44 del “Tusmar” (acronimo che sta per “Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi e Radiofonici”), che riguarda proprio le quote di programmazione/investimento, e quindi i rapporti tra broadcaster e produttori indipendenti.
Notoriamente, Mise e Ministero dei Beni e Attività Culturali e Turismo hanno lavorato insieme con emittenti televisive ed associazioni dei produttori, per un anno (a porte chiuse), in preparazione della riforma dell’audiovisivo, ma va qui ricordato che le anime autoriali del settore non sono state adeguatamente coinvolte (e che dire della società civile?!), come se la cultura potesse essere rappresentata soltanto dall’anima economica del settore.
I due dicasteri (Mise e Mibact) stanno quindi valutando in questi giorni se aprire un “tavolo” anche sulla riforma dell’articolo 44 e sul tema dei diritti, “per cercare di favorire una co-regolamentazione del sistema”. La questione è delicata. Anche in questo caso, va segnalato che in un Paese mediterraneo come il nostro la “co-regolamentazione” corre il rischio di divenire, come l’“auto-regolamentazione”, un modello procedurale (oltre che ideologico) per rendere tutto il sistema… lasco, “ad uso e consumo” dei poteri forti (e, sullo sfondo, si ricordi sempre la debolezza e sonnolenza dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni: forse non a caso Agcom non è coinvolta nella gestazione della convenzione Stato-Rai, e con sempre infinita delicatezza è intervenuta in materia di quote di programmazione, obblighi di investimento, produzione indipendente…).
Ci si precisa che “la riflessione in corso è incentrata sulla opportunità di alcuni paletti”, e “quali per il servizio pubblico” già nel testo che accompagnerà la nuova concessione. Perbacco: “paletti”?! Terribile termine per un neo-liberista (ed è questo, alla fin fine, l’approccio che sembra incantare il Governo Renzi su molti fronti).
Dubbi emergenti: perché la questione degli “obiettivi” è stata accantonata, a favore della questione dei “diritti”?!
Riteniamo si tratti di un ridimensionamento concettuale grave. La questione dei “diritti” ha senza dubbio centralità nell’economia e nell’ecologia complessive del sistema audiovisivo, ma crediamo che uno Stato lungimirante dovrebbe anzitutto chiarire la “mission” strategica del proprio “psb”, ovvero i suoi “obiettivi”: il resto è un corollario.
Decidere che la Rai deve rappresentare “il traino” dell’intera industria audiovisiva nazionale è già in sé una scelta importante, e finanche condivisibile, ma, se questo si vuole (realmente), ciò significa ridisegnare radicalmente il ruolo della Rai, così come è strutturata oggi: non crediamo che basti agire sulla leva dei “diritti” però. Si impone un ragionamento complessivo ed organico su ruoli e funzioni della Rai nello scenario audiovisivo (e culturale) nazionale.
Un piccolo esempio: qualche giorno fa, in occasione della conferenza stampa del nuovo bel film di Marco Bellocchio, “Fai bei sogni”, abbiamo ascoltato il potente agente e produttore Beppe Caschetto (titolare della Ibc Movie) ringraziare non il Mibact (che pure ha senza dubbio apportato bei danari, “tax credit” incluso) per essere riuscito a realizzare l’opera, ma piuttosto segnalare come il film non sarebbe stato possibile senza l’intervento di Rai Cinema, e l’Amministratore Delegato Paolo Dal Brocco si è vantato di come tanti film “difficili” siano stati possibili in Italia soltanto grazie al braccio operativo nel “theatrical” della Rai. Tutto questo ha un senso per l’ecologia del sistema (pluralismo espressivo e pluralità d’impresa) o si tratta piuttosto di imbuti oligopolistici (Rai/Mediaset/Sky) agevolati dall’integrazione verticale?!
Restiamo in trepidante attesa di leggere le tanto faticose elaborazioni ministeriali, pur restando convinti che questo tipo di “scritture” dovrebbe essere oggetto di un coinvolgimento attivo di tutti gli “stakeholder” e – soprattutto – dovrebbe registrare una gestazione totalmente pubblica (si ricordi invece che, rispetto alla concessione, il Parlamento entra in gioco soltanto per un parere…). In nome della sacrosanta trasparenza. Nell’interesse della Rai e del Paese. Per capirci meglio: la tanto celebrata “consultazione pubblica” sulla Rai non può essere la foglia di fico per celare le corporeità e le nudità che vengono disegnate nelle segrete stanze ministeriali.
E dei… tempi che dire?!
Il Governo se la prende proprio comoda, così come se l’è presa comoda da molti mesi: in effetti, la nuova legge sull’editoria, la n. 198/2016 approvata il 26 ottobre 2016 (clicca qui, per una scheda sintetica sulla legge n. 198/2016 sul sito della Camera dei Deputati) è stata pubblicata soltanto una decina di giorni fa (il 31 ottobre 2016), e si ricorda che in queste nuove norme è stato inserito – come cavoli a merenda (e cambiando in extremis anche la titolazione stessa della legge!) – un emendamento (a firma del senatore piddino Roberto Cociancich), divenuto l’articolo 9, che tra l’altro proroga la convenzione vigente dal 31 ottobre 2016 al 31 gennaio 2017.
Dettaglio non marginale: la legge è sì pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 31 ottobre, ma entra in vigore il 15 novembre, ovvero quindici giorni dalla pubblicazione. La Rai, quindi dal 1° novembre al 15 novembre 2016, opera forse senza essere concessionaria di “servizio pubblico”, in una sorta di… “vacatio legis”?!
La questione è controversa (sebbene Articolo 21 sia proprio convinta che così facendo “la Rai non è più la concessionaria ex lege del servizio pubblico radiotelevisivo”), ma qui non ci interessa l’aspetto formal-formalistico (che è comunque un piccolo pasticcio giuridico), bensì la sostanza, ovvero la distrazione ovvero superficialità con cui operano Governo e Parlamento. La questione, anche in questo caso, è emblematica.
Riportiamo per bene quel che prevede la legge, all’articolo 9, comma 1 (che apporta modifiche all’articolo 49 del “Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi e Radiofonici”, di cui al Decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177):
“1-quinquies. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, è affidato in concessione il servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale ed è approvato l’annesso schema di convenzione. Lo schema di decreto e l’annesso schema di convenzione sono trasmessi per il parere, unitamente ad una relazione del Ministro dello sviluppo economico sull’esito della consultazione di cui al comma 1-bis, alla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Il parere è reso entro trenta giorni dalla data di trasmissione, decorsi i quali il decreto può comunque essere adottato, con l’annesso schema di convenzione. Il decreto e l’annesso schema di convenzione sono sottoposti ai competenti organi di controllo e successivamente pubblicati nella Gazzetta Ufficiale.
1-sexies. Sino alla data di entrata in vigore del decreto che dispone il nuovo affidamento del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, e comunque per un periodo non superiore a novanta giorni dalla data di scadenza del rapporto concessorio, continuano a trovare applicazione, ad ogni effetto, la concessione e la relativa convenzione già in atto.
1-septies. Il Ministero dello sviluppo economico provvede, sulla base dello schema di convenzione annesso al decreto di cui al comma 1-quinquies, alla stipulazione della convenzione con la società concessionaria del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale”.
In sostanza, si attende tutti: a. lo schema di decreto; b. l’annesso schema di convenzione c. la relazione del Ministro dello Sviluppo Economico sull’esito della consultazione.
Si resta in attesa del testo che verrà approvato dal Consiglio dei Ministri.
Ci si augura che non si attenda l’esito del referendum, per far arrivare questo documento in Consiglio.
Se il Governo attendesse invece il 4 dicembre, ovvero oltre, ciò significherebbe comprimere i tempi del dibattito… pubblico (o, almeno, di quel che la Commissione Vigilanza presieduta dal grillino Roberto Fico sarà in grado di sviluppare: e si noti che il parere della Commissione non è vincolante!), e quindi dimostrerebbe che certe dinamiche di accelerazione e frenata ovvero di “stop & go” rispondono ad una logica incomprensibile anzi arcana, se non quella, paradossale, di… indebolire la Rai!
C’è anche chi scommette che questi ritardi nella gestazione porterebbero acqua al mulino di qualche imprenditore “liberista”, che vorrebbe acquisire una “fettina” della “torta” del canone per il servizio pubblico radio-televisivo, come hanno dichiarato senza scrupoli di sorta Marco Ghigliani, Amministratore Delegato de La7, e Giovanni Minoli per Radio24 del Gruppo Il Sole 24 Ore. Si è domandato Minoli: “perché, mi chiedo, i quasi 400 milioni di euro che si dovrebbero recuperare dall’evasione col canone in bolletta non li mettono a bando tra Rai, radio e televisioni private, destinandoli a programmi che fanno davvero servizio pubblico?”. C’è qualcuno, anche all’interno del Governo, che pensa che Ghigliani e Minoli abbiano ragione.
Quel che è certo (insomma… “certo” relativamente!) è che, dall’approvazione in Cdm, la Commissione Parlamentare di Vigilanza avrà tempo soltanto un mese per esprimere un parere.
Acquisito (o meno) il parere della Commissione, la Concessione dovrà essere comunque approvata al massimo entro il 31 gennaio 2017.
Fatte salve novelle ulteriori modificazioni in itinere…
In questo scenario inquieto e preoccupante, il futuro di breve-medio-lungo periodo della Rai resta assolutamente incerto ed aleatorio.