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ilprincipenudo. Convenzione Stato-Rai: ennesimo rinvio in Consiglio dei Ministri

Angelo Zaccone Teodosi

Il “gran giorno” sembrava essere arrivato, ma i due più diretti “attori” della “sceneggiata”, ovvero il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda ed il Sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli, nella giornata di ieri avevano in effetti prudentemente utilizzato il… condizionale: lo schema della convenzione Stato-Rai “avrebbe” avuto chance di arrivare in Consiglio dei Ministri oggi venerdì 3 marzo, ma, ancora una volta, la vicenda ha registrato uno slittamento.

Le ragioni sono molteplici, ma, ancora una volta, confermano un andamento erratico della politica governativa, che costringe il “public service broadcaster” italico a restare in una grave ed intollerabile situazione di paralizzante “stand by”.

Come si può anche soltanto parlare di “piano industriale”, se si è costretti a navigare a vista?!

Non è possibile “governare” un’azienda complessa come Rai, in una situazione di così perdurante incertezza.

Non è casuale che qualcuno sostenga, al settimo piano di Viale Mazzini, che il Direttore Generale Antonio Campo Dall’Orto stia seriamente valutando se dimettersi o meno: in un Paese “vischioso” come il nostro, sarebbe un autentico atto di coraggio civile e politico, perché queste dinamiche sono indegne di una nazione evoluta.

In effetti, nella versione ufficiale ed ultima dell’ordine del giorno odierno del Cdm (convocato per le ore 11, è il 15° dall’insediamento di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi, avvenuto il 12 dicembre 2016), nulla di “mediale”, anche se invece è stato affrontato un altro dossier “culturale” – meno clamoroso ma delicato anch’esso – ovvero il decreto legislativo di attuazione della Direttiva 2014/26/Ue sulla gestione collettiva dei diritti d’autore e dei diritti connessi, e sulla concessione di licenze multiterritoriali per i diritti su opere musicali per l’uso online nel mercato interno. Si ricordi, su queste vicende, il ruolo che svolge la Società Italiana Autori Editori, sempre più costretta ad affrontare la concorrenza di “player” commerciali che minano il suo sostanziale monopolio. E si ricordi anche che la Siae resta sempre socio di minoranza della stessa Rai, con la sua quota dello 0,44% delle azioni della tv pubblica italiana: tante volte, anche su queste colonne, ci siamo domandati se Parlamento e Governo non dovrebbero finalmente affrontare il senso di questa quota. Ricordiamo che Siae rappresenta la quasi totalità dell’“anima creativa” – e non soltanto, dato che rappresenta anche gli editori – delle industrie culturali italiane: un suo ruolo più incisivo nella Rai avrebbe un senso culturale strategico, anche rispetto alla “governance” aziendale.

Come abbiamo scritto su “Key4biz” (da ultimo un mese fa, il 2 febbraio: “Convenzione Stato-Rai ancora fuori dai radar. A quando la bozza in Consiglio dei Ministri?”), questa vicenda della concessione Rai mostra ormai tratti surreali.

È indubbio che il passaggio di consegne tra Matteo Renzi e Paolo Gentiloni abbia determinato un ulteriore rallentamento, ma, a fronte dei tanti ritardi accumulati dal precedente esecutivo, si sperava che il novello Presidente del Consiglio – data anche la sua sensibilità storica sulla materia (si ricordi che è stato tra l’altro Ministro delle Comunicazioni dal 2006 al 2008, nel secondo Governo Prodi) – volesse finalmente imprimere la indispensabile accelerazione. Così non è stato. Così non è.

Tre le variabili entrate in gioco nelle ultime settimane.

La prima variabile: con l’avvento di Paolo Gentiloni, il “dossier” Rai è stato avocato dal titolare del Mise Carlo Calenda, che lo ha tolto dalle mani del Sottosegretario Antonello Giacomelli.

La seconda variabile: il Presidente del Consiglio ha nominato un suo fiduciario, Nino Rizzo Nervo, ad un ruolo importante, qual è quello di Vice Segretario della Presidenza del Consiglio dei Ministri (l’incarico è divenuto ufficiale dal 1° febbraio 2017). Si tratta di un incarico discretamente atipico, per un dirigente Rai e già Consigliere di Amministrazione di Viale Mazzini (dal 2005 al 2012). Rizzo Nervo si affianca ad altri due “Vice” in Pdcm, ovvero Salvatore Nastasi (già Direttore Generale dello Spettacolo dal Vivo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo) e Luigi Fiorentino, mentre il Segretario Generale è Paolo Aquilanti (in carica dall’aprile 2015; i due “Vice” sono in carica dall’agosto 2015). Qualcuno ha ipotizzato la volontà diretta del Premier di controllare il “dossier” Rai, “bypassando” il suo stesso Ministro Calenda.

La terza variabile: è entrata in gioco, “improvvisamente”, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, che ha indirizzato una lettera al Ministero dello Sviluppo Economico, rivendicando non soltanto un proprio ruolo, ma mettendo nero su bianco alcune proprie proposte, piuttosto radicali, come la stabilizzazione dell’entità del canone Rai per cinque anni (periodo temporale allineato alla durata del prossimo “contratto di servizio”) e la separazione radicale (“funzionale” e quindi anche societaria?! Agcom scrive chiaramente di “due divisioni aziendali indipendenti”) delle attività “di servizio pubblico” da quelle “commerciali”, e, ancora, la necessità di far fruire tutti i canali Rai anche su piattaforme come Sky Italia. Alcuni sostengono che l’attivismo dell’Agcom sia dovuto ad una sintonia tra due commissari, entrambi “in quota” centro-sinistra: il sempre attivo Antonio Nicita ed il neo-eletto professor Mario Morcellini (che pure non ha ancora assunto formalmente l’incarico, ma ieri, in occasione di un seminario a via Isonzo, è stato simpaticamente ed ufficialmente salutato come “neo-Commissario” dal collega Antonio Martusciello). Alcuni ricordano che il ruolo dell’Agcom si rafforza, dato che è scaduta la delega al Governo (contenuta nella legge di riforma della “governance” Rai – la legge n. 220/15, entrata in vigore a fine gennaio 2016), che avrebbe consentito all’Esecutivo di modificare il “Testo Unico sulla Radiotelevisione” (il “Tusmar”), per riordinare le norme vigenti sul servizio pubblico. E quindi Agcom ritiene che sia l’Autorità – e non il Governo – a poter e dover preparare lo “schema” della concessione (come previsto dalla legge istitutiva dell’Agcom, la n. 249 del 1997).

In argomento, è opportuno ricordare cosa recita giustappunto il comma 10 dell’art. 1 della legge istitutiva dell’Autorità: “propone al Ministero delle Comunicazioni lo schema della convenzione annessa alla concessione del servizio pubblico radiotelevisivo e verifica l’attuazione degli obblighi previsti nella suddetta convenzione e in tutte le altre che vengono stipulate tra concessionaria del servizio pubblico e amministrazioni pubbliche”. E così continua: “La Commissione Parlamentare per l’Indirizzo Generale e la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi esprime parere obbligatorio entro trenta giorni sullo schema di convenzione e sul contratto di servizio con la concessionaria del servizio pubblico; inoltre, vigila in ordine all’attuazione delle finalità del predetto servizio pubblico”.

Il “combinato disposto” – come si direbbe nel pessimo slang “politichese” – di queste tre variabili (in sostanza, scontro tra poteri istituzionali più scontro tra correnti della maggioranza) ha determinato un assurdo rallentamento ulteriore: una complessificazione di cui proprio non si sentiva la necessità.

Crediamo che la terza variabile, ovvero l’intervento in campo di Agcom, a gamba tesa, sia stata la più determinante, in quest’ennesima “frenata”. E forse non è casuale che il Sottosegretario Antonello Giacomelli sia intervenuto ieri in Agcom, parlando di Rai, discretamente… “fuori tema”, dato che il titolo del seminario era “Autorità pubblica e Autodisciplina: gli strumenti di tutela nei ‘digital media’”. Il Sottosegretario è intervenuto con il suo abituale fare dialogico e bonario, senza alcun cenno polemico (se non, ancora una volta, verso Laura Boldrini e la sua lotta contro le “fake news”), ma non pochi dei presenti hanno osservato come Giacomelli si sia presentato in pullover, “look” eterodosso in consessi ‘sì istituzionali (quasi come se una parte di lui – nella fenomenologia iconologica, vestuaria e prossemica – volesse significare che “rispetta” sì l’Autorità, ma… fino ad un certo punto).

Viale Mazzini resta in stallo.

Il problema è che ormai i tempi sono strettissimi, dato che la concessione ventennale scaduta il 6 maggio 2016 è stata più volte prorogata, con un balletto di rimbalzi imbarazzanti, rimandata al 30 aprile 2017.

Mancano ormai meno di due mesi a quella scadenza: cosa diamine attende il Presidente del Consiglio dei Ministri?!

In base alla legge, la Commissione di Vigilanza ha 30 giorni per esprimere il proprio parere all’Esecutivo. Il parere viene trasmesso dalla Vigilanza a Palazzo Chigi, che procede quindi all’approvazione definitiva.

I pronostici davano per sicura, o quasi (appunto), la decisione odierna in Consiglio dei Ministri.

Ieri mattina (giovedì 2 marzo), il Sottosegretario Giacomelli ha illustrato lo schema di convenzione ai gruppi parlamentari del Partito Democratico di Camera e Senato, ma la riunione – ovviamente a porte chiuse – è durata assai poco (un’oretta), e non è stata distribuita la misteriosa bozza (registrandosi malumori tra alcuni dei partecipanti).

Nel pomeriggio, Giacomelli, intervenendo al seminario Agcom, ha ribadito “finalmente ci siamo: domani mattina, fatti salvi imprevisti, lo schema verrà approvato a Palazzo Chigi”.

Quali siano stati gli “imprevisti” effettivamente emersi, non è dato sapere, ma non ci vuole un grande esercizio di “dietrologia” per comprendere che l’ennesimo “stop” sia stato determinato dal succitato “combinato disposto”.

La Commissione di Vigilanza avrebbe calendarizzato già per martedì 7 marzo l’avvio della discussione sul testo, ma, se la mitica bozza non viene trasmessa, il gioco resta fermo, e la data, ancora una volta, slitta.

Ieri, comunque, l’Ufficio di Presidenza della Commissione per la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi ha intanto nominato, in ottica “bi-partisan”, il deputato già veltroniano Vinicio Peluffo (Pd, Capogruppo del Partito Democratico in Vigilanza) ed il senatore Maurizio Rossi (Gruppo Misto, in Scelta Civica fino all’aprile 2014, eletto nelle liste di Liguria Civica) relatori sulla convenzione.

Va segnalato, in particolare, che Rossi è un parlamentare che ha molto criticato l’assegnazione del servizio pubblico alla Rai in esclusiva, senza una gara che coinvolgesse anche i “broadcaster” privati. Il senatore già montiano è peraltro un alfiere delle tv commerciali italiane, essendo stato egli stesso proprietario dell’emittente ligure Primocanale. Se ne potrebbero vedere delle belle, durante l’iter, ricordando – tra l’altro – le rivendicazioni di Urbano Cairo de La7.

E ci si domanda che posizione assumerà nel dibattito Roberto Fico, il grillino Presidente della Commissione, che sembra sempre più attratto dalle dinamiche dell’arena politica nazionale, piuttosto che interessato alle vicende della Rai. Fico è forse memore del gran schiaffo ricevuto dal Governo e da Viale Mazzini, allorquando tanto fece, per far approvare, nel maggio del 2014, un articolato parere della Vigilanza sull’ormai dimenticato “contratto di servizio” tra Stato e Rai. Contratto che non fu poi mai firmato dalle parti, contribuendo così in modo determinante alla deriva in atto (vedi “Key4biz” del 9 gennaio 2015, “Il mistero del ‘contratto di servizio’ che Mise e Rai ‘si rifiutano di firmare’ (Fico dixit)”).

Le questioni in ballo sono veramente tante: dalla necessità di sviluppare un canale “internazionale” della Rai degno di questa definizione (querelle vecchia come il cucco) agli affollamenti pubblicitari (l’attuale limite settimanale del 4% verrebbe applicato ad ogni singola rete e non più all’insieme dei canali, col rischio di perdere fino a 100 milioni di euro di fatturato), dal limite di 240mila euro imposto anche ai compensi degli artisti (tetto, introdotto dalla legge sull’editoria – la n. 198 del 2016 – che riduce la competitività di Viale Mazzini sul “libero mercato” dell’“entertainment”) al ruolo che la “public media company” italiana potrebbe svolgere nel “sociale” (sviluppando un profilo identitario certamente più vicino alla propria missione istituzionale)…

Riteniamo che, negli ultimi anni, il dibattito sul ruolo della “public media company” italiana sia divenuto miope ed asfittico (fatta salva qualche rara eccezione: da Articolo21 ad Eurovisioni a MoveOn, piccoli “think tank” appassionati e qualificati, però del tutto inascoltati), ma questa deriva è stata co-determinata da un Parlamento veramente molto distratto, e da un Governo (quello renziano) superficialmente decisionista.

Una domanda – tra le tante possibili – sorge spontanea: ma a cosa diavolo è servita la tanto decantata “consultazione” promossa dal Governo (“CambieRai”), se siamo ancora a questo punto di incertezza… totale sui futuri possibili del “psb”?! Mercoledì 1° marzo, il Sindacato dei Lavoratori della Comunicazione – Cgil ha peraltro lamentato come i rappresentanti sindacali non siano finora mai stati ascoltati, né in occasione della consultazione “CambieRai” né in altri consessi: anche questo deficit è ai limiti dell’incredibile.

Se stessimo nei panni di Antonio Campo Dall’Orto, valuteremmo veramente le dimissioni, come atto di autentica provocazione intellettuale, manageriale, politica. L’attuale Dg correrebbe il rischio di vanificare gli sforzi messi in atto da un anno e mezzo, ma, al tempo stesso, se la sentirà di resistere in carica ostinatamente, a fronte di uno scenario così confuso e conflittuale?! Venuto meno l’asse privilegiato con Renzi, Campo Dall’Orto corre il rischio di essere sottoposto ad un continuo tiro incrociato, finanche impallinato da fuoco amico…

Non resta da augurarsi che Paolo Gentiloni affronti la questione in modo finalmente serio, evitando la rinnovata messa in scena di una penosa replica di “Aspettando Godot”.

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