La fiera dell’ovvio, con qualche ferita alla Rai così com’è: questa mattina, nella sala “Aldo Moro” della Camera dei Deputati, di fronte ad una eletta schiera di invitati e giornalisti (selezionati ed ammessi con criteri che sfuggono all’umana comprensione, in totale una ventina di persone soltanto), si è tenuta una curiosa presentazione dei risultati della “consultazione” denominata “CambieRai” promossa dal Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) sulla Rai, nella fase di gestazione della nuova convenzione tra Stato e “public service broadcaster”.
La consultazione pubblica era prevista dalla legge n. 220/2015 di riforma della “governance” Rai.
In sostanza, quella di questa mattina è stata la fase finale (ahinoi) del processo di consultazione, iniziativa avviata concretamente con la giornata (incredibilmente “a porte chiuse”) del 12 aprile 2016, durante la quale circa 150 persone (con selezione dei cooptati affidata a menti ignote) sono state coinvolte, attraverso 16 “tavoli tecnici” settoriali, nella elaborazione parcellizzata di segmenti di una bozza di questionario che l’Istat ha poi sottoposto a consultazione pubblica. Hanno partecipato alla kermesse in “Leopolda’s style” 150 persone, anche in rappresentanza di 62 associazioni, 20 enti pubblici e istituzioni, 11 centri studi e “think tank”, 20 gli esperti coinvolti, 16 i rappresentanti di Rai (1 per ogni tavolo). L’elenco delle organizzazioni coinvolte è disponibile sul sito www.cambierai.gov.it.
In quell’occasione, era stato annunciato che il questionario sarebbe stato online dal 1° maggio, ma s’è registrato un ritardo di oltre due settimane rispetto a quella previsione.
I contenuti del questionario elaborato dall’Istat sono stati abbozzati dai 16 “tavoli tecnici” distribuiti in 4 “macro-aree” tematiche: “Sistema Italia”, “Industria Creativa”, “Digitale”, “Società Italiana”.
Il questionario, strutturato in 36 domande, è stato online, su un sito dedicato, tra il 17 maggio e il 30 giugno scorsi.
Hanno partecipato 11.188 persone, ma soltanto 9.156 hanno completato le risposte ai 36 quesiti proposti: ha risposto l’82% di coloro che hanno avuto accesso al questionario, e sarebbe interessante conoscere il pensiero del 18% che ha rinunciato…
Abbiamo seguito la vicenda con particolare attenzione (vedi da ultimo “Key4biz” del 13 aprile 2016, “Consultazione Rai, ‘pubblica’ ma ‘a porte chiuse’. Cultura e pubblicità nel questionario?”).
Non che ci attendessimo risultati rivoluzionari, ma francamente ci aspettavamo un valore aggiunto minimamente significativo: il che non è (se non forse, per alcuni squarci di radiografia molto critica rispetto alla Rai attuale).
Se ponessimo all’intera popolazione italiana la domanda “Vorresti una Rai più bella?”, probabilmente otterremmo una risposta positiva plebiscitaria…
Se domandassimo “Vorresti fare a meno di pagare il canone Rai?”, abbiamo la certezza che l’Istat andrebbe a certificare il 100% di risposte positive…
Queste possono sembrare battute di spirito o provocazioni intellettuali, ma non lo sono, perché qualsiasi studente del primo anno di sociologia, che abbia almeno superato l’esame di “metodologia della ricerca sociale”, sa (dovrebbe sapere) che l’impostazione della domanda può eterodirigere la risposta.
Un questionario demoscopico può produrre risultati opposti, se cambia l’architettura dell’impostazione delle domande.
Non siamo stati gli unici a manifestare dubbi sulla struttura e qualità del questionario che Istat ha costruito sulla base dei confusi risultati della giornata di lavoro dei “cooptati” dal Mise il 12 aprile: vedi l’articolo “La Rai si fa l’autosondaggio. Ma fotografa solo stereotipi”, a firma dell’attenta Mihaela Gavrila, professoressa di Culture e Industrie della Televisione all’Università di Roma, su “il Fatto Quotidiano” del 22 luglio scorso.
Peraltro, ci permettiamo di osservare che Istat non può vantare un’esperienza particolarmente qualificata in materia di ricognizioni sulla cultura e i media (tematiche che ha affrontato soltanto in anni recenti, e con un approccio non particolarmente approfondito).
E, ancora, a voler essere maligni (è un peccato, ma spesso si finisce per avere ragione, come ripeteva Andreotti), sorge il sospetto che il Governo abbia semplicemente chiesto all’Istat di apporre una sorta di timbro… “di qualità” (teorica) a risultati così generici quanto prevedibili, per garantirsi un ulteriore margine di manovra nelle proprie imminenti politiche sul servizio pubblico radiotelevisivo.
Ne abbiamo coscienza: l’accusa è pesante e l’insinuazione grave, ma sfidiamo chiunque a chiedere ai 10 maggiori esperti italiani di sondaggistica e statistica un parere sulla qualità metodologica del questionario.
Al di là degli errori di metodo – che secondo Gavrila (e che noi condividiamo) – “avrebbero dovuto mettere in imbarazzo la stessa Istat” – si pone un problema sostanziale e politico.
Infatti, il questionario ha volutamente eluso questioni fondamentali, essenziali, strategiche.
Mancavano nel questionario, ad esempio, tre domande essenziali:
(1.) secondo Lei, il servizio pubblico radiotelevisivo deve essere affidato alla Rai in esclusiva, o in qualche modo aperto anche ai broadcaster commerciali?!
(2.) secondo Lei, la Rai deve trasmettere pubblicità, o no?
(3.) secondo Lei, è giusto che l’Amministratore Delegato della Rai venga nominato direttamente dal Governo?
Per promuovere domande come queste (forse ritenute imbarazzanti per il Governo), e tante altre (non meno radicali e strategiche, per esempio in materia di pluralismo: politico, culturale, religioso, etnico, di gender…), il Governo avrebbe dovuto mostrare un livello di autocoscienza e di coraggio che non ha saputo manifestare.
Un’altra annotazione metodologica (e sostanziale): non corrisponde a verità che hanno risposto esattamente 9.156 “persone” al questionario, ma più correttamente il Ministero e l’Istat dovrebbero scrivere che sono giunte risposte da 9.156 “account”.
Possiamo infatti testimoniare di persone che hanno utilizzato una pluralità di propri account per rispondere, ed uno stesso individuo può disporre anche di 10 account o forse più. Curiosamente, infatti, si accedeva alla compilazione del questionario dopo aver compilato il campo con un indirizzo telematico, senza nemmeno chiedere un minimo di profilo identitario come nome e cognome (tra parentesi, ci piacerebbe sapere che uso farà il Mise di questo indirizzario…). In sintesi: il rischio di “taroccamento” dei dati è altissimo.
La gran parte dei risultati è piuttosto curiosa: stupisce piacevolmente apprendere che gli italiani che hanno partecipato alla consultazione vorrebbero più “cultura” sulla Rai (effettivamente, ce n’è pochina….) e fruire di una maggiore offerta di “documentari” (effettivamente, la Rai è il “psb” europeo che ne trasmette meno…), ma temiamo che queste istanze non rappresentino realmente le opinioni dell’intera popolazione italiana.
“Educare, informare e intrattenere” sono ancora i compiti fondamentali della televisione pubblica (oh, perbacco!, che novità!), ai quali occorrerebbe affiancare il compito di promuovere l’innovazione, sia perseguendo l’alfabetizzazione all’uso di internet per abbattere il “digital divide”, sia producendo programmi adatti a tutte le piattaforme e a tutti i dispositivi, mantenendo i più alti standard qualitativi e tecnologici. Oh, perbacco!
E, ancora, il servizio pubblico dovrebbe avere un respiro “più internazionale”, che consenta non solo di far conoscere l’Italia nel mondo (attraverso un canale in lingua inglese che promuova lo stile, la cultura e l’identità italiani), ma che stimoli l’integrazione di culture diverse. In parallelo, il servizio pubblico dovrebbe accrescere il senso di identità nazionale e locale, facendo leva sul grande patrimonio artistico e culturale del Paese…
Oh, perbacco!!! E qui ci fermiamo, risparmiando al lettore ulteriori flussi di banalità.
L’operazione “consultazione” propone comunque dei risultati in qualche modo interessanti, per comprendere il “posizionamento” della tv pubblica italiana (almeno nell’opinione di chi ha risposto al questionario): in sintesi, non eccellente.
La consultazione si pone come una sorta di improprio “Qualitel”, strumento valutativo “alternativo” ad Auditel.
Basti leggere quel che scrive Istat: “A caratterizzare i programmi Rai dovrebbe continuare ad essere la cultura, che è già oggi, secondo i partecipanti alla consultazione, l’unico contenuto che li differenzia dai programmi delle emittenti private. Più contenuti culturali (teatro, musica, arti visive) accompagnati da un investimento diretto nella produzione artistica è quanto il servizio pubblico dovrebbe impegnarsi a fare”. Vedi alla voce… disegno di legge di riforma dell’intervento pubblico nel settore cinematografico ed audiovisivo.
Inquieta il dato relativo all’… “indipendenza” di Viale Mazzini: il parere prevalente espresso dai partecipanti è che la Rai non rispetta adeguatamente il principio di “indipendenza” del servizio pubblico: lo sostiene addirittura il 72% dei partecipanti (si veda la Figura 10 del report Istat, pag. 8). Silvio Berlusconi e Renato Brunetta gongolano… ma anche Beppe Grillo e Roberto Fico. Chissà cosa ne pensa a tal proposito l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.
E che dire della “qualità”? Per il 56%, la Rai non rispetta la propria missione.
Della “diversità”? Per il 57%, il giudizio è negativo (la rispetta “poco” o “per niente”).
E della “trasparenza”? Il giudizio è negativo secondo il 65% dei rispondenti.
E l’“innovazione”?! Bocciatura estrema, qui, con valori negativi per il 77% dei rispondenti!
Se fossimo alla guida di viale Mazzini, ci domanderemmo cosa diavolo stiamo combinando al comando di quest’azienda pubblica, se i dati sono così drammaticamente sconfortanti. Questi risultati si tradurrebbero in una drammatica delegittimazione del “public service broadcaster”, se questi dati avessero un senso… ma, in verità, un senso non hanno.
Evitiamo commenti (metodologici) sui risultati della domanda “Per ricevere un’informazione personalizzata, autorizzerebbe la Rai a raccogliere informazioni su di Lei, nel rispetto della privacy?”. Ben il 75% ha manifestato “nessuna risposta”. Commenta Istat: “l’elevata mancata risposta al quesito potrebbe indicare una certa difficoltà nel comprendere la domanda stessa, oppure una certa riluttanza a prendere una posizione”. No comment.
Perché il Governo non ha piuttosto affidato all’Istat un’indagine demoscopica “ad hoc”, seria ed approfondita, su un campione rappresentativo dell’intera popolazione nazionale, che consentisse di far luce sulla “vera verità” del pensiero degli italiani?!
Abbiamo la certezza che, in quel caso, i risultati sarebbero stati radicalmente differenti. E forse quelli sarebbero stati di una qualche concreta utilità realmente cognitiva. E politica, di grazia!
Perché l’Istituto Nazionale di Statistica si è prestato a questa operazione comunicazionale del Governo, divenendo di fatto grancassa dell’Esecutivo?
Con onestà intellettuale (e metodologica), il Presidente dell’Istat Giorgio Alleva, presentando il report, ha precisato: “Questa consultazione non è rappresentativa dell’insieme della popolazione italiana, ma i dati che emergono sono comunque interessanti perché consentono di conoscere l’opinione di una parte della popolazione che è più interessata al tema della Rai”. Una “parte” certo, non rappresentativa del “tutto”.
Ovviamente, la presentazione è stata in qualche modo disturbata dalle prevedibili feroci polemiche scatenatesi a seguito della (comunque sempre tardiva) pubblicazione dei dati relativi agli stipendi del management apicale Rai, altra operazione comunicazionale gestita con un deficit di metodo così evidente da aver fatto imbestialire – dicono i più informati – lo stesso Presidente del Consiglio Matteo Renzi. La richiesta era stata avanzata secoli fa da Brunetta, e poi è stata fatta propria anche dai grillini, ma va dato senza dubbio atto a Renzi di aver deciso che si attuasse.
Il Sottosegretario al Mise con delega per la Comunicazione Antonello Giacomelli ha annunciato che i risultati elaborati dall’Istat saranno presi in seria considerazione nella redazione della bozza di convenzione tra Stato e Rai. Ah, bene…
A questo punto, non possiamo che attendere di leggere la bozza della convenzione, per capire se la tanto decantata “CambieRai” non sia stata – alla fin fine – semplicemente un’operazione di marketing politico: evoluzione renziana web 2.0 delle pratiche sondaggistiche berlusconiane…
Ah, la post-modernità ed il digitale: cambia la… tecnica, non cambia la… sostanza?!
Clicca qui, per leggere il “Report sulla consultazione CambieRai 2016”, curato dall’Istat e presentato il 27 luglio 2016, a Roma alla Camera dei Deputati
Clicca qui, per la videoregistrazione dell’evento presentazione del “Report Istat” sulla consultazione “CambieRai”, dalla web tv della Camera dei Deputati, Roma, 27 luglio 2016