Martedì 5 maggio, in pompa magna, l’Anica, ovvero l’associazione confindustriale che riunisce buona parte delle imprese del settore cinematografico italiano, ha presentato la nuova edizione del dossier denominato “Tutti i numeri del cinema italiano – Anno 2014”, ovvero una sintetica descrizione statistica delle caratteristiche essenziali del mercato “theatrical” nazionale (ma anche dell’uso televisivo dei film cinematografici). Va anzitutto precisato che l’Anica non rappresenta comunque tutta la “filiera” del cinema italiano, perché gli esercenti non multiplex (Anec) ed i giovani produttori indipendenti (Agpci) aderiscono all’Agis, peraltro aderente anch’essa a Confindustria Cultura Italia.
La presentazione è stata benedetta – come l’anno scorso – dal Ministro Dario Franceschini, che ha rivendicato gli effetti positivi delle modificazioni apportate al regime del “tax credit”, che hanno portato, a parer suo, ad “una crescita del settore cinematografico”. Il Ministro ha sostenuto che ormai “tutti sanno che l’Italia può offrire delle condizioni ineguagliabili. L’Italia può offrire, oltre che a location uniche, anche l’opportunità di produrre tutto qui”.
#ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.
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Siamo tutti convinti che l’afflusso in Italia di investitori cinematografici stranieri determini meccanicamente effetti positivi per il rafforzamento del tessuto industriale, professionale, artistico, del cinema italiano?!
Dobbiamo proprio esaltarci (come sembra fare – tra gli altri – il Sindaco Ignazio Marino) perché uno “007” sceglie Roma Capitale come ambientazione?! Ci consenta, caro Ministro: non crediamo che ciò contribuisca significativamente alla produzione (culturale) di un autentico immaginario italiano.
Gli effetti di questa auspicata novella (ipotetica) “Hollywood sul Tevere”, a fronte delle macerie di Cinecittà (degli “studios” di Via Tuscolana ovvero di un modello produttivo ormai lontano dai fausti di allora), e della debolezza del tessuto produttivo ed ideativo della nostra “industria”, determinano automaticamente una iniezione di linfa vitale nel cinema “made in Italy”?!
E non si corre peraltro il rischio che i danari pubblici del “tax credit” vengano divorati dalle “major” americane, lasciando le briciole alla produzione indipendente ed ai film-maker di ultima generazione (“web serie” incluse)???
Uno degli elementi critici che emergono dal dossier Anica è la modesta programmazione di film italiani recenti (prodotti negli ultimi cinque anni) sulle reti generaliste in prima serata: soltanto 62 titoli, di cui 45 titoli su Canale 5 (quasi 1 titolo a settimana durante l’anno, con esiti eccellenti sul fronte ascolti, con in testa “La Grande Bellezza”, che ha ottenuto quasi 9 milioni di telespettatori ed il 36% di share, a fronte di poco più di 1 milione di spettatori nei cinematografi), 4 titoli su Rai 1, 9 titoli su Rai 3, 2 titoli su Rete 4, 2 titoli su Italia 1. È questo uno dei punti dolenti dell’ecologia del sistema audiovisivo italiano.
Rispetto a questo problema, il Ministro ha sostenuto che “bisogna fare sistema, o discutendo o intervenendo legislativamente per migliorare il rapporto fra produzione cinematografica italiana e televisioni, cercando non di ragionare in contrapposizione. Soprattutto il servizio pubblico televisivo deve fare sempre di più, rispetto a quello che già di positivo fa, cioè cercare di aiutare i nostri film a uscire, aiutare la distribuzione e il fatto che la programmazione sia in fasce importanti, perché non è un piacere che si fa a un settore dell’industria italiana, ma un bene che si fa al Paese”.
Effettivamente, il dato di soltanto 15 film italiani recenti in prima serata, sull’insieme delle tre reti generaliste Rai, a fronte dei 45 film trasmessi da Canale 5, evidenzia un inquietante deficit di sensibilità culturale della tv pubblica italiana. Anche se l’Amministratore Delegato di Rai Cinema, Paolo Del Brocco, che si è sentito costretto sul banco degli imputati, ha contestato la critica, sostenendo che questa fenomenologia è uno dei risultati del “contratto di servizio” (perché… esiste?!) che obbliga (???) Rai a trasmettere una pluralità di generi. A parte il fatto che il “contratto di servizio” è attualmente inesistente (da quasi un anno la Rai ed il Mise non firmano la versione approvata dalla Commissione di Vigilanza, come abbiamo denunciato tante volte anche su queste colonne), e resta evanescente quasi scritto sull’acqua (la sua applicazione non viene realmente controllata da chicchessia, data la sonnolenza Agcom), va ricordato a Del Brocco che il terribile “contratto” non impone vincoli imperativi per la gestione del palinsesto in prima serata… E che dire poi dell’assenza totale di una seria politica di promozione del cinema italiano da parte della Rai, se è vero che l’unica rubrica televisiva dedicata al cinema continua ad essere l’inquietante apparizione notturna di Gigi Marzullo e della sua solita compagnia di giro?!
Il Ministro ha anche sostenuto che “è importante che il mondo del cinema capisca che, invece di difendere ognuno il proprio settore, si deve fare sistema”: velata allusione alle contrapposizioni tra Anica (essenzialmente, rappresenta produttori e distributori cinematografici) ed Agis (esercenti cinematografici non multiplex)? Ah, quanto bisogno ha l’Italia di… “fare sistema”! Lo diceva anche Berlusconi, e – ci pare – anche Monti, ed anche Renzi, ed anche Passera. Eccetera.
Questo de “Tutti i numeri” è ormai appuntamento rituale, e senza dubbio comunque interessante: mettendo a disposizione una gran messa di dati (ma non esattamente “tutti i numeri”, suvvia!), certamente consente di comprendere alcune dinamiche del mercato (dando ovviamente per scontata la affidabilità del dataset utilizzato): nel caso in ispecie, risulta cresciuta nel 2014 la quantità di film italiani prodotti, che sono stati 201, ovvero 34 in più rispetto al 2013 (erano stati 167). Di questi, i film cosiddetti “di iniziativa italiana” sono stati ben 194, con un incremento di addirittura 38 opere rispetto all’anno precedente (erano state 156).
Il costo totale dei film di nazionalità italiana sarebbe calato dai 335 milioni di euro del 2013 ai 323 milioni del 2014.
Si evidenzia la frammentazione degli investimenti ed il calo del budget medio per film. Rimane invariato il numero dei titoli che hanno dichiarato un costo medio superiore a 2,5 milioni di euro, budget già di gran lunga inferiore alle medie internazionali. Di contro, aumentano i film con budget fino a 800mila euro, che crescono da 80 a 112, determinando un abbassamento ulteriore della media per film. E, se in Italia un film costa in media 1,4 milioni di euro, il rapporto dell’Anica registra che in Francia si è a quota 3,9 milioni.
Per quanto riguarda l’intervento complessivo dello Stato nel settore cinematografico, si registra un ampliamento della forchetta tra “sostegno diretto” e “sostegno indiretto”: dei 203 milioni di euro totali investiti dallo Stato nel 2014, circa 88 milioni sono destinati al “sostegno diretto”, assorbiti per il 45% dalla produzione, per il 34% dagli enti di settore, per il 13% dalla promozione, per il 9% dall’esercizio. Il 57% del totale dell’intervento pubblico ovvero 115 milioni sono invece stati rivolti al “sostegno indiretto”, ove la produzione pesa per il 64%, l’esercizio per il 32%, la distribuzione per il 4%.
I film stranieri girati in Italia sono aumentati dai 12 del 2012 ai 30 del 2014, e questo trend continua: in questi giorni, per esempio, Ron Howard sta girando “Inferno” a Firenze, e Timur Bekmambetov “Ben Hur” a Roma, dopo quattro settimane di riprese in quel di Matera.
Paradossalmente, a fronte delle produzioni che vengono a girare in Italia, si osserva che le capacità co-produttive del cinema italiano si indeboliscono, e questo è senza dubbio un altro sintomo che “qualcosa”, nel sistema, evidentemente non funziona.
Le capacità di penetrazione internazionale del cinema italiano – a parte qualche titolo che si conta sul palmo di una mano – tendono a zero, anche perché manca completamente una politica di sostegno in materia. Se è vero che non accadeva da vent’anni che tre titoli italiani corressero per la Palma d’Oro a Cannes, l’auspicabile successo dei nuovi film di Moretti, Sorrentino e Garrone non rappresenta un vero “new deal” del cinema italiano. Sono belle rondini che non fanno primavera.
Incassi e presenze nelle sale cinematografiche – ma questo dato era già noto – sono calati del 7% rispetto al 2013. Nel primo trimestre del 2015, si è peraltro registrato un calo di presenze al cinema rispetto allo stesso periodo del 2014, con un – 6% di spettatori.
La quota di mercato dei film italiani resta significativa, anche se in calo rispetto al 2013: si passa dal 30,5% al 27,2% del totale degli incassi (Ma questo dato è influenzato da alcuni titoli, per lo più commedie, ed andrebbe studiato più approfonditamente). Negli ultimi 3 anni, i film americani si assestano comunque oltre quota 50%.
Per quanto riguarda l’utilizzazione televisiva dei film (a partire dalle accurate elaborazioni fornite dallo Studio Frasi di Francesco Siliato), emerge una ripartizione 50/50 tra film europei ed extra-europei sulle reti generaliste, ed una precisa dominanza di cinema americano sulle reti satellitari, con Sky come unico editore rilevato, dove il cinema italiano è in diminuzione per numero di titoli e in aumento per numero di passaggi.
Fin qui, in sintesi, alcuni dei numeri-chiave, nella gran confusione di dati forniti, rappresentati con elegante grafica e proposti con qualche certamente colpevole omissione.
Quel che non emerge da questa edizione del rapporto, così come dalle precedenti, è una radiografia veramente accurata del settore: che fine hanno fatto quei 200 (duecento!) titoli che il sistema cinematografico italiano ogni anno in qualche modo produce??? Il titolo da assegnare a questo “capitolo”, non esistente nel rapporto Anica, potrebbe essere “Chi li ha visti?”. Peraltro – come in passato – Anica (ovvero Mibact), paradossalmente, non pubblica con esattezza l’elenco di questi 200 film, anche se, nella copertina del dossier, vengono in qualche modo riportati i titoli, ma per lo più per un simpatico gioco grafico, senza alcuna informazione essenziale per capire: autore, produttore, distributore, durata, genere… Insomma, di “cosa” si tratta??? Nel dossier, ci si limita a presentare una tabella con i 10 maggiori incassi nell’ultimo triennio…
Una superiore domanda “metodologica” (ed al contempo “ideologica”) emerge comunque spontanea: perché questi dati sono il risultato delle elaborazioni della “Unità di Studi congiunta della Direzione Generale Cinema del Ministero e dell’Anica” (alias Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Multimediali)?!
È come se il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel fornire le elaborazioni di scenario e di mercato dell’economia italiana e nel mettere a punto le proprie “policy”, si affidasse ad una “Unità di Studi congiunta” formata da Mise e… Ufficio Studi di Confindustria! Per quanto Confindustria possa rappresentare buona parte dell’anima economica del Paese (qualcuno dissente), essa non è – sia consentito – esattamente il soggetto super-partes che può garantire la qualità e l’indipendenza delle elaborazioni.
Cosa pensano le tante altre soggettività del settore cinematografico e audiovisivo italiano (quelle che un tempo si chiamavano le “categorie”, le associazioni altre rispetto ad Anica, le associazioni di cultura cinematografica, e finanche i sindacati) di questa anomalia tutta italiana?!
Nella duale “Unità di Studi congiunta” non vengono evidentemente coinvolti altri soggetti: dai produttori indipendenti (l’Apgci – Associazione Giovani Produttori Indipendenti aderisce all’Agis, non all’Anica) agli esercenti cinematografici non multiplex (l’Anec – Associazione Nazionale Esercenti Cinema aderisce anch’essa all’Agis), e nemmeno le “anime” non mercantili del sistema, dagli autori (100autori ed Anac e Wgi – Writers Guild Italia) alle altre categorie professionali (la Fidac, la federazione della associazioni professionali inserite nel contratto nazionale di lavoro del settore cine-audiovisivo), per non dire delle associazioni più antagoniste (come IndiCinema)…
Eppure, forse, qualche “idea”, in parallelo ai “numeri” dell’Anica, l’avranno. E – crediamo – anche qualche loro “numero”: per esempio, rispetto alla forza-lavoro ed ai livelli di occupazione (sia sul fronte artistico sia sul fronte tecnico), questione completamente ignorata nel dossier Anica-Mibact.
Si commenterà che, qui, di “numeri” soltanto si tratta, ed è giusto che siano i “mercanti” a maneggiarli, e non gli “artisti”.
Il confine tra “maneggiare” e “manipolare” (come tra “elaborare” ed “orientare”) è però inevitabilmente molto labile, e la questione è delicatissima, perché, se un Ministro interviene ad una simile kermesse, e se la Direzione Generale del suo dicastero si affida ad un soggetto privato e (inevitabilmente) di parte (qual è l’Anica), è ovvio che alcune questioni critiche non vengano sollevate. E diviene inevitabile che il rischio di interpretazioni in qualche modo eterodirette sia sempre latente.
Peraltro, è incredibile che – a proposito di… “numeri” soltanto! – un dato essenziale, per comprendere la vera economia del settore, non sia stato messo a disposizione: qual è il ruolo reale dei “broadcaster” televisivi nel cinema italiano?!
Si legge a chiare lettere nel comunicato Anica: “Sul bacino di risorse attivate complessivamente per la produzione, gli investimenti privati – tra cui quelli dei broadcaster, dedotti per differenza, poiché non sono disponibili dati pubblici su questa materia – pesano circa la metà”. Surreale… “Non sono disponibili dati pubblici”?! Si tratta di stime… “dedotte per differenza”?! E perché il Mibact non li chiede all’Agcom, questi dati, o direttamente alle emittenti?! E perché l’Agcom non li pubblica nella sua relazione annuale?!
E, ancora, quanto investono realmente i produttori cinematografici italiani, come proprio capitale di rischio?! Il dubbio che si riproduca in qualche modo la patologia del sistema televisivo italiano (produttori come meri appaltatori dei broadcaster, con capitale di rischio tendente a zero?!) c’è.
Il dato su quanto investano tv e produttori non è disponibile: su 270 milioni di euro di costi dei film “di iniziativa italiana” prodotti nel 2014, il Ministero e l’Anica forniscono un bel dettaglio in relazione ai vari rivoli e rivoletti dei fondi pubblici, ma accorpano ben 129 milioni di euro, ovvero il 48% del totale (!), in una confusa macro-categoria “altro”, nella quale sono compresi (indistinti!) “altri fondi locali, apporti societari, pre-vendite diritti, investimenti emittenti, eccetera” (sic, testuale).
Complimenti all’Anica (alla direttrice dell’Ufficio Studi e Sviluppo e Relazioni Associative Francesca Medolago Albani) ed al Mibact (alla funzionaria Iole Maria Giannattasio, cervello raffinato ed alter ego “numerologico” del Dg Nicola Borrelli) per la rappresentazione complessiva di questi dati, certamente utili, ma con quale coraggio intellettuale si precisa ciò (onestamente) in una simpatica noterella a piè di pagina, e poi si intitola il dossier… “Tutti i numeri del cinema italiano”?! Più corretto sarebbe intitolare “Tutti i numeri dell’Anica”.
E che dire dell’assenza di commenti critici sulla ripartizione dei 204 milioni di euro che complessivamente lo Stato – tra intervento “diretto” ed “indiretto” – alloca a favore del sistema cinematografico?! Per esempio, quei 30 milioni di euro destinati agli “enti di settore” (da Cinecittà al Centro Sperimentale di Cinematografia) sono ben spesi?! Cosa producono?! E gli 11 milioni di euro per la “promozione” non sono pochini, a fronte di tutta questa (pseudo) effervescenza produttiva?! Si stimola la produzione e poi le opere vengono abbandonate a se stesse? Non sarà – osiamo insinuare – che sopravvivono nel sistema sacche di assistenzialismo assolutamente improduttivo?!
Come è noto, il Ministero non è attrezzato per analisi di efficienza ed efficacia, e l’Osservatorio dello Spettacolo del Mibact è stato sostanzialmente smantellato, così come l’Ufficio Studi del Segretariato Generale del dicastero.
L’unica ricerca minimante dignitosa sul cinema italiano è realizzata ormai da un altro soggetto privato, qual è la Fondazione Ente dello Spettacolo (che è peraltro emanazione della Cei-Conferenza Episcopale Italiana), che realizza un corposo rapporto annuale, giunto nel 2014 alla sesta edizione: ma già dal titolo dello studio (“Il Mercato e l’Industria del Cinema in Italia”) si ha conferma, anche in questo caso, di una prospettiva limitante, se non distorta, in quanto esclusivamente economicista (e, anche in questo caso, peraltro, nonostante il ricco sovvenzionamento pubblico alla Feds, ci si avvale in buona parte di dati… “by” Anica!).
Nessun dato, poi, nel dossier Anica-Mibact, sulla situazione delle sale cinematografiche, sulla chiusura dei cinema storici in molte città, sulla desertificazione cinematografica di intere aree del territorio nazionale… Qualcuno ci rivela – per esempio – qual è la quota di mercato dei film italiani nei decantati multiplex?!
Va dato atto che il Dg Borrelli ha proposto, a commento dei dati, un qualche cenno (auto?!)critico, rispetto ad alcune patologie del mercato: dalle strozzature nel sistema distributivo (basti ricordare la moria di offerta nei cinema durante i mesi estivi) alla concentrazione oligopolistica nella produzione-distribuzione (elegante riferimento alla integrazione verticale Mediaset-Medusa e Rai-RaiCinema ed al rischio di duopolio?!), evocando finanche la questione (questa sì epocale) dell’assenza di obblighi produttivi per gli “over-the-top” (la cui azione certamente ormai incide significativamente nell’economia complessiva del sistema audiovisivo). Pochi cenni stimolanti, comunque, nel flusso di tanti dati sparati come fuochi d’artificio. E, leggendo i dispacci di agenzia e la rassegna stampa, basti osservare lo stordimento numerico che il dossier ha prodotto nei giornalisti, che hanno dovuto attingere a così tanti dati, cercando di interpretarne il senso complessivo. Ma… allora, alla fin fine, c’è crisi o sviluppo?! Boh!!!
Se lo storico saggio di Peter Bächlin del 1958 si intitolava “Il cinema come industria”, andrebbe ricordato che il cinema – come tutte le industrie culturali – oscilla sempre tra struttura e sovrastruttura (ed in argomento ci piace qui citare “L’economico e il semiotico nel cinema italiano”, bel saggio antesignano – 1981 – di Giuseppe Perrella): le letture monodimensionali sono parziali, finiscono spesso per essere partigiane. Son comunque vetuste, vanno superate nella prospettiva multimediale ed interdisciplinare cui la cultura digitale ci obbliga.
In sostanza, questa copiosa ma frammentata… numerologia, se sganciata da una lettura “di sistema”, e – soprattutto – da una seria analisi critica (strutturale, politica, legislativa, tecnologica e finanche semiotica), è di limitata utilità, al fine della migliore comprensione del reale stato di salute del nostro sistema cinematografico, ed al fine della valutazione radicale ed onesta della “politica cinematografica” messa in atto dallo Stato. è inutile anche al fine della revisione necessaria delle “policy”, alla luce degli sconvolgimenti che il sistema sta vivendo a causa della rivoluzione digitale.
Per esempio, si domanda forse seriamente il Presidente dell’Anica Riccardo Tozzi, e – soprattutto – il Ministro Dario Franceschini, se “200 film all’anno” non siano forse paradossalmente troppi per il sistema audiovisivo italiano, se la gran parte di essi non riesce a vedere nemmeno la luce (ovvero il buio) di una sala cinematografica, e se la gran parte di essi non viene nemmeno teletrasmessa o messa a disposizione del pubblico attraverso altri supporti?! E che dire della documentaristica e dell’animazione, generi preziosi nella complessiva economia audiovisiva, trascurati ed abbandonati in Italia alla loro deriva sopravvivenziale?!
Si produce “cosa” per “chi”, per quali “piattaforme”, con quale strategia complessiva per il “sistema Paese” e la sua industria culturale?!
Da anni ed anni, peraltro, non vengono nemmeno realizzate in Italia serie indagini demoscopiche sull’identikit dello spettatore cinematografico: chi redige queste noterelle, che ebbe la ventura di dirigere l’Ufficio Studi dell’Anica tra il 1986 ed il 1990, si fece promotore di alcune avanguardistiche esplorazioni, ma quell’esperienza cognitiva è andata poi svanendo.
E che dire dei capitoli dedicati al cinema della annuale semi-clandestina “Relazione annuale” sul Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo) trasmessa dal Mibact al Parlamento? Continuano ad essere pagine burocraticamente statistiche: un documento che brilla per il carattere… asettico, mera fotografia dell’esistente, dalla quale non emerge alcuna proposta critica, alcuna visione d’insieme, alcuna provocazione coraggiosa, alcuna suggestione strategica. Questo è lo stato dell’arte delle conoscenza, in materia di economia cinematografica, audiovisiva, multimediale in Italia: lacunoso, polverizzato, e… pavido.
Attendiamo quindi che, prima o poi, qualcuno proponga la “vera verità” di… “Tutti i numeri del cinema italiano”!
(con la collaborazione di Lorena Pagliaro)