Questa mattina alcune delle più attive associazioni del cinema italiano hanno diramato un comunicato stampa che crediamo importante rilanciare, perché ci sembra sintomatico delle patologie che caratterizzano una delle più importanti industrie culturali italiane: il governo nasometrico del sistema, tra economico e politico (e, quindi, conseguentemente, anche il semiotico).
I promotori dell’iniziativa sono: Agici (Associazione Generale Industrie Cine-Audiovisive Indipendenti, nuovo nome, da qualche giorno, dell’Agpci, Associazione Giovani Produttori Cinematografici Indipendenti), Cna Cinema, Anac (Associazione Nazionale Autori Cinematografici), Wgi (Writers Guild Italia), Sncci (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani), Afic (Associazione Festival Italiani di Cinema), Cnc (Centro Nazionale del Cortometraggio). Da notare l’assenza dell’altra associazione maggiormente rappresentativa dell’anima autoriale del settore, ovvero i 100autori.
Le sette associazioni mettono in evidenza quella che potremmo definire una “contraddizione interna” all’Esecutivo guidato da Paolo Gentiloni, ovvero tra il Ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda ed il suo collega al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo Dario Franceschini: il primo sostiene che lo Stato, nel settore audiovisivo, dovrebbe aiutare anzitutto le grosse imprese (soprattutto nella prospettiva di superare il deficit di internazionalizzazione), il secondo sembra più orientato a sostenere sia le grosse sia le piccole (sia in termini di rafforzamento del tessuto imprenditoriale sia di estensione del pluralismo espressivo).
La querelle è ideologica, oltre che economica: cosa deve fare lo Stato nelle industrie culturali? aiutare i “grandi” o i “piccoli”? stimolare l’estensione dello spettro imprenditoriale o contribuire al rafforzamento delle imprese già in qualche modo consolidate?!
La questione è veramente molto stimolante (riguarda peraltro le radici stesse dell’intervento della “mano pubblica” nel settore culturale), e sarebbe anche raffinata (intellettualmente e scientificamente), se non fosse che lo Stato italiano non dispone di un dataset tecnico-scientifico adeguato per decidere al meglio cosa fare, ovvero cosa sarebbe bene fare. In assenza di dati, di grazia… che diavolo di risposta si può fornire???
Come andiamo denunciando da molti anni, ed anche su queste colonne, buona parte dei processi decisionali in materia di politiche culturali viene sviluppata in Italia in assenza di adeguata strumentazione tecnica: si (mal) governa con criteri nasometrici, influenzati dall’impressione contingente, dalla pressione della lobby di turno, dalla soggettività del Ministro pro tempore, e dei suoi consiglieri…
In attesa dei tanti decreti attuativi della legge cinema
Come è noto ai più, e certamente agli addetti ai lavori, presso gli uffici del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo è in corso un’alacre anzi febbrile attività di “redazione”, in relazione ai tanti (forse addirittura… 20, alla fin fine) decreti attuativi previsti dalla novella “legge cinema e audiovisivo” che è stata approvata ad inizio novembre dell’anno scorso, dopo lunga e complessa gestazione (clicca qui, per la descrizione dei tratti essenziali della nuova norma, curata dallo stesso Mibact).
Gli operatori del settore consultano con ansia, giorno dopo giorno, la sezione “In primo piano”, ovvero la parte del sito web della Dg Cinema Mibact che aggiorna sulla pubblicazione dei decreti.
L’attesa è tanta. L’incertezza regna sovrana.
Gran parte degli operatori del settore, pur ovviamente lieti per la novella legge, si sono resi conto che essa detta soprattutto una “cornice”, e che molto deve essere messo a punto attraverso la definizione del “quadro”. Ed il “quadro” lo stanno componendo in questi mesi i funzionari del Ministero, impegnati nella complicata e faticosa scrittura.
La legge cinema-audiovisivo non è esattamente una “legge-quadro”, ma, per alcuni aspetti, le assomiglia, perché molti (troppi) sono gli aspetti che debbono essere regolati attraverso i decreti ministeriali.
Crediamo che molti operatori del settore se ne siano accorti un po’ tardi, e le conflittualità tra contrapposti interessi (i produttori “vs” gli autori, per e/semplificare) diverranno presto – prevediamo – evidenti, mentre finora lo scontro è stato soltanto latente: tutti i beneficiari (imprenditori e creativi) son stati contenti di prendere atto che lo Stato ha ben allargato i cordoni della borsa, se è vero che dal 2017 lo Stato sosterrà l’immaginario audiovisivo con 400 milioni di euro, con un incremento di ben 150 milioni di euro in più rispetto alla dotazione dell’anno precedente (+60 %), e questo budget appare finalmente stabilizzato, non sottoposto alle variazioni “meteo” delle leggi finanziarie (cui è stato da sempre soggetto il famigerato Fus – Fondo Unico per lo Spettacolo)…
Tutti – anche noi, da quest’osservatorio su “Key4biz” – abbiamo manifestato il plauso per una simile decisione, assunta da Matteo Renzi e Dario Franceschini: un atto coraggioso, che ha senza dubbio evidenziato una nuova apprezzabile sensibilità del Governo rispetto al sistema culturale. Tutti o quasi, perché i liberisti estremisti (à la Renato Brunetta, per capirci) hanno naturalmente lamentato l’ennesima ignobile “sovvenzione di Stato” alla cultura (da sempre notoriamente in mano ai “comunisti”)…
Il problema si pone subito dopo: bene il “quanto” (budget aumentato), ma “come” allocare queste risorse pubbliche (con quale gerarchia di priorità)?!
I testi dei decreti attuativi della legge cinema passano di bozza in bozza dalle stanze del Collegio Romano (ove opera l’esperto, consigliere giuridico, più ascoltato dal Ministro, il professor Lorenzo Casini) e Santa Croce in Gerusalemme (ove ha sede la Direzione Generale del Cinema, diretta da Nicola Borrelli). Le bozze vengono poi sottoposte informalmente ad alcuni “player” del settore, in primis la maggiore associazione degli imprenditori del cinema italiano, l’Anica (presieduta da Francesco Rutelli), ma anche le associazioni dell’anima artistica del settore (la succitata Anac, ma anche i 100autori ed altri soggetti ancora).
Questo processo “consultivo” si sviluppa con modalità tortuose e certamente non pubbliche: ci si domanda il perché, dato che anche il Governo auspica sempre più trasparenza e processi decisionali partecipati…
La prevalenza dell’economico sul culturale
Vogliamo qui mettere il dito in una… piaga, ovvero in una… piega poco evidenziata della legge: perché il Ministro Dario Franceschini, d’intesa con il collega Sottosegretario alle Comunicazioni del Mise Antonello Giacomelli, ha coinvolto soltanto i produttori ed i broadcaster nella fase di gestazione della legge, attraverso “tavoli” (ovviamente a porte chiuse…) nei quali le varie anime altre del settore non sono state coinvolte?!
Persone ben informate dei fatti ci spiegano che sostanzialmente ha prevalso un approccio “economico” alla nuova legge.
E non a caso – ancora spesso lo rivendica – appena nominato Dario Franceschini dichiarò che assumeva con impegno ed orgoglio il maggiore “ministero economico” del Paese.
Questo è il vizio di origine: l’enfasi sull’“economico” rispetto alla funzione sociale e civile che la cultura può (noi riteniamo debba) assumere nello sviluppo nazionale.
È una sorta di deriva liberal-liberista di molti governi in tutta Europa, anche se classificati con la categoria sempre più evanescente della “sinistra”, ovvero del “centro-sinistra”.
Una scelta è l’apertura del sistema culturale al mercato, avviata molti anni fa da ministri della cultura come Walter Veltroni e Giovanna Melandri.
Altra scelta è la subordinazione del “politico” all’“economico”, che è anche la subordinazione del “sociale” al “mercato”: a questa deriva stiamo assistendo da alcuni anni, nel silenzio dei più, anche nella sinistra radicale. Tra le poche voci intellettuali che contrastano questa grave degenerazione va segnalato il pugnace Tomaso Montanari, che pure concentra la sua attenzione sui beni culturali piuttosto che sulle attività culturali.
Chi redige queste noterelle (e studia queste dinamiche da oltre un quarto di secolo) è fermamente convinto che lo Stato debba assegnare prevalenza alla funzione sociale e civile della cultura, e che l’importanza economica della cultura non debba essere l’elemento trainante e determinante le strategie di sviluppo delle politiche pubbliche.
Le contraddizioni interne del Governo, tra Calenda e Franceschini
Segnalano le sette associazioni:
“In occasione della conferenza stampa di presentazione del prossimo Mercato Italiano dell’Audiovisivo (Mia) svoltasi a Roma lunedì 10 luglio, il Ministro allo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, ha dichiarato che i decreti attuativi della nuova Legge Cinema non andrebbero nella direzione da lui auspicata di sostegno alle poche società leader del settore (fra cui Cattleya, Wildside, Lux, Palomar, Iif), secondo quanto disposto dalla stessa legge. In linea con la missione del suo dicastero, Calenda ritiene che il sostegno mediante risorse pubbliche alle prime dieci società di produzione più capitalizzate (cui andrebbero aggiunte Rai e Mediaset) farebbe da traino a tutte le piccole e medie, trascurando però che tali risorse provengono dal Ministero della Cultura, sono disciplinate dalla normativa europea e si basano sull’eccezione culturale’”.
Queste associazioni invocano la necessità di valorizzare la capacità d’innovazione e di sviluppo della creatività delle piccole e medie imprese che operano nel settore dell’audiovisivo, e ritengono che le bozze che circolano nelle stanze ministeriali (Mibact) siano in sintonia con questo spirito, anche in relazione alla definizione dei “sostegni automatici” previsti dalla legge cinema, alla valorizzazione degli elementi artistico-culturali, rispetto a quelli relativi agli incassi, rappresentata rispettivamente dalle percentuali del 70%-30%, rispecchia a pieno il principio dell’“eccezione culturale’’. Peraltro un’eventuale “inversione delle percentuali” (da qualcuno prospettata, in ambito Mise) rischierebbe di sottoporre la norma a un procedimento d’infrazione da parte dell’Unione europea.
Specificano meglio gli estensori del comunicato:
“Le associazioni firmatarie chiedono quindi al Ministro Dario Franceschini di mantenere con fermezza la linea fin qui marcata sul tema dei sostegni automatici, di voler confermare quanto è stato faticosamente elaborato dai suoi stessi uffici e di concordare invece con il ministro Calenda le modalità per l’immissione, da parte del Mise, dei promessi fondi, destinati all’internazionalizzazione e all’industrializzazione del prodotto televisivo liberando così risorse del Mibact”.
In sostanza, se Calenda vuole premere l’acceleratore sull’internazionalizzazione… attinga a fondi Mise, e non a fondi di competenza Mibact!
L’istanza è interessante e provocatoria, e stimola peraltro anche una domanda che pure abbiamo già posto l’anno scorso su queste colonne (senza che sia pervenuta risposta di sorta), in occasione della presentazione della seconda edizione del “Mia” ovvero del “Mercato internazionale Audiovisivo”: “Il Mia è funzionale a promuovere l’audiovisivo ‘Made in Italy’?” (vedi “Key4biz” del 12 ottobre 2016).
Questa iniziativa è giunta alla terza edizione (si terrà tra il 19 ed il 23 ottobre prossimi), e beneficia di un budget (circa 2 milioni di euro, sia nell’edizione 2016 e nella prossima 2017, apportati soprattutto da Mise, Ice, Regione Lazio…) che è maggiore del totale dei fondi che il Mibact ha generalmente destinato, negli anni scorsi, alla promozione internazionale del cinema italiano: incredibile, ma vero!
Domandavamo in quell’occasione: “esiste una minimamente organica “policy” istituzionale nazionale in materia di promozione internazionale del “made in Italy” (materiale ed immateriale)?!”. E la risposta era, e resta, netta ed univoca: no. Ci domandavamo anche se qualcuno avesse sottoposto a verifica di efficacia la prima edizione del “Mia”: nessun dato rispetto a contratti perfezionati o comunque ad accordi avviati, nessun dato relativo rispetto alle dimensioni di business verosimilmente stimolato…
Vedi alla voce: deficit di “fact cheking”.
Vedi alla voce: deficit di “evidence-based policy making”.
Per esempio, esiste una ricerca una, minimamente approfondita ed aggiornata, sulle reali potenzialità internazionali dell’industria audiovisiva (e culturale) italiana? No. Ciò basti.
Come può quindi Calenda sostenere “alfa” e semmai Franceschini il contrario di “alfa”, se quell’“alfa” è basato su impressioni approssimative e valutazioni soggettive, non supportate dalla indispensabile conoscenza tecnica?!
Certo, si possono sempre contrapporre, anche ai massimi livelli di governo, tesi retoriche come “centralità del made in Italy” (e quindi rafforzare i grandi nel mercato internazionale…) oppure il “piccolo è bello” (e quindi rafforzare gli indipendenti soprattutto sul mercato interno…), ma chi ha ragione realmente, se… nessuno (ribadiamo, senza alcun timore di essere smentiti: nessuno) dispone di una cassetta degli attrezzi adeguata a capire quale sia la vera verità?!
I misteri della nuova Cinecittà
Stessa problematica di deficit cognitivo e quindi di alea strategica riguarda un’altra questione critica, confusa assai: che ruolo avrà Istituto Luce Cinecittà nell’incerto nuovo scenario definito dalla legge cinema?! Già nell’ottobre dell’anno scorso, ci fu un controverso passaggio di consegne tra la storica Bnl Artigiancassa alla novella Luce Cinecittà nella gestione dei fondi pubblici (la notizia fu peraltro annunciata proprio a conclusione della seconda edizione del Mia). Ad inizio luglio 2017, Istituto Luce Cinecittà ha deciso di acquisire il ramo d’azienda di Cinecittà Studios, che riporta lo storico complesso di Via Tuscolana e le sue attività di produzione sotto la gestione pubblica. Nel comunicato ufficiale, si legge: “Coincidenza singolare, a ottant’anni esatti dalla sua apertura, celebrata il 28 aprile 1937, lo Stato torna a giocare un ruolo da protagonista per il rilancio di Cinecittà”.
Singolare ci sembra piuttosto la non precisa definizione di questo “ruolo” dello Stato: retorica a parte (da Istituto Luce d’un tempo, appunto)… “protagonista” di cosa?
Viene fatto riferimento ad un “progetto di sviluppo e rilancio” che è stato sottoposto al Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ed all’approvazione del “socio unico”, il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Anche qui, simpatica contraddizione tra “l’economico” ed “il culturale”: il regista è Franceschini, ma il socio unico non è lui. L’elaborazione del progetto di sviluppo e rilancio è stata affidata a Struttura Consulting srl, società romana di consulenza – partnership tra gli esperti Alessandro Hinna e Marcello Minuti e Angela Tibaldi – cui il Mibact si affidò anche per il famigerato “regolamento Nastasi” di riforma del settore spettacolo dal vivo (vedi “Key4biz” del 10 novembre 2015).
Questo progetto di sviluppo e rilancio è ad oggi un documento segreto: perché?! chi ha elaborato questo “progetto”? perché esso non è stato sottoposto a consultazione pubblica?! perché le buone pratiche di decisione partecipata vengono ignorate, su tematiche così delicate?!
Si sa soltanto che:
“Disegno generale del progetto è l’unificazione delle attività di Cinecittà Studios, più strettamente legate alla gestione dei teatri e alla produzione di opere audiovisive, con le attività di interesse generale storicamente coordinate da Istituto Luce-Cinecittà, dal sostegno al cinema italiano classico e contemporaneo, alla conservazione e diffusione del grande Archivio Storico dell’Istituto Luce, il sostegno alle opere prime e seconde, la produzione documentaristica, la puntuale attività di informazione cinematografica online e su stampa periodica, il realizzando Miac-Museo Italiano del Cinema e dell’Audiovisivo, la gestione dei Media Desk di Europa Creativa e la gestione dei Fondi Cinema del Mibact, facendo del nuovo polo un punto di riferimento per tutto il comparto dell’audiovisivo e uno strumento strategico del suo sviluppo”.
In sostanza, Istituto Luce Cinecittà diviene potente “braccio operativo” del Ministero stesso, ed immaginiamo che una migliore definizione delle attività possa venire dai famosi tanto attesi decreti ministeriali della legge cinema. Vengono annunciati nuovi investimenti, per esempio per la costruzione di nuovi teatri di posa: ce n’è reale necessità? sono state effettuate le indispensabili ricerche di mercato? è stato impostato un business-plan realistico?! Naturali sorgono anche ulteriori quesiti: il Ministero ha studiato per bene lo scenario internazionale, ovvero il mercato globale degli “studios”?! esiste uno studio di fattibilità per il Miac-Museo Italiano del Cinema e dell’Audiovisivo?! Eccetera. Vogliamo immaginare, anzi sperare, di sì, ma un qual certo scetticismo (basato sull’esperienza storica) ci prende…
Una domanda tra tutte: questi rinnovati “studios” (finora affossati dai debiti) avranno chance di sopravvivenza sul mercato, se non entrerà in gioco, attivamente, soprattutto la Rai? Risulta che vi siano stati incontri tra Mibact e Rai, ma tutto è sfumato con le dimissioni dell’ex Dg Antonio Campo Dall’Orto, ed il novello Direttore Generale Mario Orfeo ha tutt’altro cui pensare (in primis la redazione del “contratto di servizio”, rispetto al quale sta tra l’altro attendendo le annunciate “linee-guida” di Agcom).
Grandi perplessità, a fronte di uno scenario – ancora una volta – confuso.
In Italia, quando appare (“rara avis”) una ricerca su queste tematiche… sembra più che altro una ricerca per supportare “ex post” decisioni già assunte dal livello politico: prevale paradossalmente la logica malata del “policy-based evidence making”.
Il “vizio genetico” della legge cinema è evidente, come abbiamo già segnalato (leggi qui l’articolo di Tommaso Rodano su “il Fatto Quotidiano” di ieri mercoledì 12 luglio 2017: “La riforma-spot è ferma: il cinema resta senza soldi”): essa è stata impostata ascoltando soltanto una delle parti in gioco (l’anima economica del settore), e l’iter parlamentare del testo approvato dal Governo ha consentito soltanto una parziale correzione del primario errore di rotta. Nonostante gli apprezzabili sforzi di recepimento di istanze plurali, da parte della relatrice piddina, la senatrice Rosa Maria Di Giorgi.
Come spesso avviene, l’iter parlamentare ha complicato, rendendo più complessa e confusa l’architettura originaria, ed il risultato finale è un testo piuttosto opaco, un pasticcio la cui chiarificazione è affidata giustappunto ai decreti ministeriali.
E qui cade l’asino, perché il difetto d’origine determina l’emersione di infinite contraddizioni, di nodi irrisolti, e quesiti “tecnici” cui si è costretti a dare una risposta “politica”, in una mediazione tra contrapposte “lobby”.
Non esiste uno studio uno di minima previsione, un lavoro di simulazione.
Quindi, anche una… “quota” di ripartizione (o di valutazione che sia) può oscillare, simpaticamente, tra il 30 ed il 70 per cento, e viceversa, in funzione delle soggettività del Ministro / dirigente / funzionario di turno.
Numeri a caso: tanto vale affidare a Lottomatica la redazione di alcuni di questi decreti ministeriali. E d’altronde non sono spesso i dirigenti del purissimo MoVimento 5 Stelle ad invocare il sorteggio, nell’affidamento di incarichi pure importanti nella gestione della “res publica”?!
“La situazione non è buona” (Celentano)
Battute a parte – come canta Adriano Celentano in una sua bellissima canzone – “la situazione non è buona” (2012): “La situazione politica non è buona, la situazione economica non è buona, la situazione del mio lavandino non è buona, la situazione del mio amore non è buona…”.
La situazione del sistema cinematografico e audiovisivo italiano non è buona.
Non invidiamo il Dg Cinema Nicola Borrelli, ed il suo staff di consulenti (sottodimensionato rispetto agli impegni “redazionali” che gli son stati imposti), che è sottoposto a stress intenso in queste torride settimane: il Ministro Franceschini ha ribadito che entro l’estate tutti i decreti saranno pronti.
In effetti, tutto il settore è in affanno da almeno sei mesi, e, di fatto, la mancanza di ossigenazione pubblica sta producendo una inevitabile riduzione degli investimenti, anche se lo strumento del sempre decantato “tax credit” continua ad essere utilizzato con le vecchie regole (anche su questo strumento, ripetiamo ancora una volta – senza stancarci – non esiste uno studio uno di valutazione d’impatto).
Autori e produttori boccheggiano. Ma, in verità, tutto il settore è in stallo, in tutte le fasi della filiera, paralizzato – come dire?! – nell’anima e nel corpo. La manna tarda.
Anche altre criticità sono dietro l’angolo: si ricordi che il nuovo Fondo Cinema e Audiovisivo è alimentato, sul modello francese, direttamente dagli introiti erariali già derivanti dalle attività di: programmazione e trasmissione televisiva; distribuzione cinematografica; proiezione cinematografica; erogazione di servizi di accesso ad internet da parte delle imprese telefoniche e di telecomunicazione… Pertanto, a decorrere dal 2017, una percentuale fissa (11%) del gettito Ires e Iva di questi settori costituisce la base di calcolo delle risorse statali destinate al finanziamento del Cinema e dell’audiovisivo. Non si tratta di una nuova tassa, ma di una sorta di meccanismo di “autofinanziamento” della filiera produttiva che lo Stato vuole incentivare ad investire. La norma determina il superamento della storica incertezza annuale sui fondi destinati al cinema (il nuovo fondo non potrà mai scendere sotto i 400 milioni di euro annui), ma stimola anche l’esigenza di un controllo accurato sulla destinazione di queste risorse tributarie, e si ha notizia che il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate stia prevedendo opportuno attenzionamento rispetto a questo meccanismo innovativo…
Insomma, c’è grande aspettativa, ma c’anche grande confusione, e grande preoccupazione.
Chiudiamo riproducendo la parte finale del comunicato delle 7 associazioni, perché diverte osservare la frecciatina rivolta ad Anica ed Apt: “Del resto proprio le principali associazioni di categoria dei produttori dovrebbero essere le prime a respingere tesi che portano al drastico ridimensionamento della platea formata dai produttori indipendenti che costituiscono sia la piccola e media impresa (pmi) sia la base delle stesse associazioni alle quali si iscrivono in cerca di tutela”.
Crediamo che le contraddizioni (e finanche le polemiche) siano il sale della democrazia (e certamente sono preziose in materia di politica culturale), e ci auguriamo che queste tesi siano oggetto di accurata analisi da parte del Ministro (anzi dei Ministri Franceschini e Calenda), dei Direttori Generali competenti dei due dicasteri (Mibact e Mise), dei funzionari e dei consulenti impegnati nelle faticose scritture dei decreti ministeriali.
Si segnala in chiusura che domenica prossima 16 luglio alle ore 23.15 su Rai3 andrà in onda la nuova puntata di “Report Cult”, dedicata all’inchiesta “Che spettacolo”, curata da Giorgio Mottola, con la collaborazione Ilaria Proietti. Si legge nel comunicato stampa Rai:
“Un miliardo e duecento milioni: è il contributo di cui ha beneficiato l’industria cinematografica italiana negli ultimi cinque anni, più di tanti altri settori a cui è precluso l’aiuto di Stato. Con i soldi del contribuente è discutibile salvare una banca, secondo l’Unione Europea, ma sovvenzionare il cinema si può: è una questione di identità culturale. Che film abbiamo finanziato per il loro interesse culturale? Si va da “Sapore di te” di Carlo Vanzina, ad “Amici miei – come tutto ebbe inizio” di Neri Parenti, a “Il ricco, il povero e il maggiordomo” di Aldo Giovanni e Giacomo. E poi ci sono i contributi sull’incasso. “Cado dalle nubi” di Checco Zalone, una delle rare pellicole italiane che al botteghino è andata benissimo, ha ricevuto un milione e novecentomila euro: ne aveva bisogno? Ma la principale forma di sostegno che noi contribuenti garantiamo al cinema è il “tax credit” che vuol dire oltre cento milioni di sconti fiscali ai privati che decidono di investire nel cinema. Per ogni euro investito, lo Stato restituisce loro il 40%. Si scopre che a investire sono state soprattutto le banche: Unicredit, Bnl, Monte dei Paschi, la Popolare di Vicenza. Quanti dei soldi del tax credit sono finiti veramente ai film? Intanto i leggendari studi cinematografici di Cinecittà cadono a pezzi nel degrado e hanno accumulato debiti per oltre 32 milioni. Come siamo arrivati a questo, in una realtà che è stata gestita da super manager come Luigi Abete, Diego Della Valle e Aurelio De Laurentiis? Anche Roberto Benigni è uno che ha investito del suo, ma quando le cose si sono messe male è riuscito a sfilarsi. Cinecittà invece pare che ce la dovremo ricomprare noi contribuenti”.
Si tratta della riproposizione della polemica trasmissione andata in onda il 17 aprile 2017 (vedi “Key4biz” del 14 aprile 2017), che provocò non poche stimolanti domande. Un programma senza dubbio utile per smuovere acque stagnanti, nonostante la prevalenza della “vis polemica” e nonostante qualche errore documentativo.
Sarà interessante vedere se, in calce alla puntata, ci sarà un qualche commento di aggiornamento. (Benigni avrà querelato? Franceschini avrà replicato?). Mottola e “Report” avevano comunque visto giusto: Cinecittà ce la siamo dovuta ricomprare noi contribuenti…